Anche per chi non è cresciuto nella coltivazione della mitologia del socialismo reale come espressione “concreta” del marxismo, come traduzione “pratica e oggettiva” degli ideali comunisti, ed ha invece perseguito un orientamento libertario e liberato dalle catene del dogmatismo stalinista, leggere il libro di Gianluca Falanga “Non si parla mai dei crimini del comunismo” non è semplice, non è facile, è tutt’altro che scontato.
Anche per chi non ha una sorta di “conflitto di interessi” morali, culturali e storico-politici nei confronti dei temi trattati nel testo in questione, affrontarne la lettura non sarà affatto una passeggiata: si tratta di un lavoro molto ben curato, dove nulla è lasciato alla faciloneria di una pregiudizialità preconcetta, ma si affrontano quei fatti che sono il titolo della collana edita da Laterza: “Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti“, per l’appunto.
Non si sfugge all’oggettività degli accadimenti, a meno che non si voglia fare della mera agiografia incensatoria di un periodo storico o di una figura giganteggiante e, allora, il relativismo antistorico di una propaganda piegata agli interessi del momento di una fazione politica, ideologica o economica, può giocare brutti scherzi alla traduzione di quanto accaduto in serie analisi distaccate che, per essere tali, devono potersi poggiare su una osservazione equidistante, su una capacità di studio serafica, equilibrata e, per questo, considerabile parte terza nella contesa dei rispettivi opposti.
Falanga non solo ci prova, ma ci riesce. E per questo il suo libro assume i tratti della cattiva coscienza che un po’ tutti noi comunisti ci portiamo appresso fin da quando abbiamo scelto, deciso o ci è capitato di abbracciare questa lotta per l’uguaglianza sociale, civile e morale, sapendo che la sua grande storia, in particolare novecentesca, era un macigno posato grevemente sull’originaria spinta libertaria e umanista data dal movimento che sarebbe nato sulle ceneri della Lega dei Giusti.
Quando disarticola e disamina tutte le contraddizioni che emergono dal semplicismo con cui si fanno fin troppo facili accostamenti tra nazismo e comunismo, oppure quando mostra, in tutta evidenza, l’assoluta estraneità di Marx ed Engels dall’essere i prodromi delle involuzioni antisociali degli esperimenti statali che si attribuiscono l’aggettivo “socialista“, Falanga smonta una ad una quelle prevenzioni antistoriche che vengono utilizzate da determinate parti politiche per tentare circonvoluzioni revisionistiche peggiori.
Tra tutte, quella che riesce meglio e che, parimenti, è anche molto facilmente decostruibile, è il tentativo di dimostrare che vi sia – almeno in Italia – una specie di franchigia per il comunismo, che può vantare il merito di aver partecipato attivamente e da protagonista alla lotta antifascista prima e, senza soluzione di continuità, a quella partigiana e resistenziale poi. I detrattori si trovano quasi sempre collocati nel settore di destra della politica italiana: si tratta per lo più di neofascisti mascherati da liberal-democratici-conservatori, da sovranisti prima indipendentisti e ora neonazi-onalisti convinti.
Per affrancare il passato da cui provengono, per fargli fare un ulteriore salto in avanti sul piano dell’accettazione comune di una morale diversa da quella costituzionale e repubblicana, tentano di accostare la storia del comunismo italiano e internazionale a quella dei fascismi, facendo un gran minestrone del tutto, una maionese impazzita che dovrebbe, quindi, nella confusione generale che ne deriva, permettere una assoluzione incolore, una condivisione della memoria che attenui la condanna sulle colpe dei regimi fascisti, nel nome di una storia del Novecento fatta di dittature e totalitarismi da entrambe le parti.
Falanga, fin dalle prime pagine, mette in guardia sui pericoli dei confronti privi di una seria analisi circostanziata delle differenze che vi sono state tra gli stessi fascismi, da paese a paese, e tra le tante sfaccettature prese dalla statalizzazione del socialismo e gli effetti che vi si tradussero nel giro di poco tempo causando milioni e milioni di vittime.
Non esiste un punto solo su cui far girare la complessità della storia del comunismo nel Novecento. Per questo, anche lavori che avrebbero avuto una certa valenza storiografica, come il famigerato “Libro nero del comunismo” coordinato da Courtois, sono caduti – pure volutamente – nella trappola di un equiparazionismo livellatore che ha reso quelle tante pagine un atto di condanna per un processo piuttosto che uno strumento per comprendere meglio tutte le cause che hanno generato così tanti differenti effetti.
La politicizzazione del dibattito sui crimini del comunismo, e su quelli del fascismo e del nazismo, ha impedito sovente di poter parlare senza infingimenti e senza tabù delle storture prese da una storia che avrebbe dovuto invece andare in tutt’altro modo.
Se questo non è avvenuto, servirebbe comprenderne il perché e non buttare via la novecentesca (ir)realizzazione dei fondamentali del movimento di liberazione dell’uomo dalla schiavitù dell’uomo stesso insieme alle origini del grande sogno egualitario che il socialismo rappresenta e che, da Cristo e Spartaco in avanti, è sempre stato un tratto distintivo di tante rivolte contro le ingiustizie e le oppressioni lungo i secoli e i millenni.
Mentre il fascismo nasce come ristrutturazione dello Stato liberale in chiave totalitaria, perché nulla deve sfuggire al controllo del partito, alla sua etica, ai suoi princìpi rimodulanti ogni aspetto della vita quotidiana della nazione, il movimento comunista non ha in nuce la presa del potere per il potere, ma per la trasformazione sociale, per l’evoluzione da un regime di diseguaglianze ad un mondo privo di classi, privo di sfruttamento e di profittatori.
Falanga non si ferma ad un riconteggio sterile delle cifre che classificano le dittature socialiste del XX Secolo. Pur esprimendo giudizi molto duri anche su Lenin, da sempre escluso dalla condanna data allo stalinismo come traditore della genuinità del comunismo stesso, non fosse altro per l’inconciliabilità temporale tra il prima e il dopo la morte del padre del bolscevismo sovietico, riconosce l’eccezionalità degli eventi rivoluzionari.
Ma mette in guardia dal farne, sempre e comunque, una schermatura utilitaristica, una autoassoluzione per far finta che, anche negli anni della lotta tra bianchi e rossi, mentre infuriava la Prima guerra mondiale, tutto potesse essere permesso e concesso e, oggi, accettato nel nome della rivoluzione che aveva la necessità di prevalere contro un mondo che le era – e le rimarrà – completamente ostile.
Qui, come in certi passaggi su un Marx molto poco avezzo all’umanesimo (sarà Gramsci a smentire proprio questa chiave impropria di lettura di un marxismo esclusivamente scientifico e per niente empatico nei confronti dei bisogni anche non materiali dell’essere umano e della natura), Falanga commette una serie di errori di valutazione ascrivibili alla sua particolare visione politica, ideologica, morale e civile di una idea che, in quanto tale, è sottoposta al soggettivismo delle interpretazioni e che, quindi, corre questi rischi. Da sempre.
Dice invece molto bene quando afferma, più e più volte nel libro, che il sovietismo ha, al di là dei suoi confini nazionali, ispirato, sostenuto politicamente e sovvenzionato economicamente molte delle dittature che si sono protratte fino ai giorni nostri nel nome del socialismo reale o presuntuosamente ed opportunisticamente “realizzato“.
Le colpe dell’URSS erano, in larga parte, già l’URSS stessa: quella burocratizzazione della rivoluzione che Rosa Luxemburg rimproverava a Lenin già a far data dalla critica sulla teoria del partito di “rivoluzionari di professione“, che contrastava apertamente con lo spirito rivoluzionario di massa, con una presa di coscienza collettiva che muovesse le ruote dentate della Storia in senso sociale e libertario, era una denuncia ante litteram della torsione autoritaria che avrebbe preso il leninismo immediatamente successivo alla fondazione dello Stato dei lavoratori e, poi, alla morte dello stesso Lenin.
Il condizionamento esercitato dagli eventi esterni agli ambiti pure enormi della Rivoluzione d’Ottobre, considerata anche geograficamente l’estensione del territorio su cui si era prodotta e che era riuscita a conquistare spazzando via una plurisecolare società aristocratica con il suo potere zarista, fu certamente di grande portata. Accadde in Russia quello che avvenne nella Francia rivoluzionaria del 1792, quando gli eserciti della Convenzione dovettero fronteggiare la coalizione delle monarchie europee che volevano schiacciare la giovane Repubblica.
Il simbolo, l’emblema, la bandiera della rivoluzione deve essere contrastata dalla reazione. Altrimenti non c’è speranza per il mondo che si tenta di distruggere, di mettere da parte, scavalcare e oltrepassare per fondare una società di liberi e uguali.
Gianluca Falanga riesce a mantenere su piani separati i giudizi, li circostanzia quando li esprime e ne avverte il lettore. Perché sa che chiunque può incappare nel pregiudizio, in una sorta di aporismo preconizzante le problematiche che si dovranno affrontare e che paiono dove rimanere nel brodo di coltura delle tante contraddizioni aperte dalle partigianerie politiche che si sono avvicendate nel corso degli anni per meri calcoli utilitaristico-elettoralistici.
La capacità dell’autore di discernere i fatti dalle opinioni è ciò che ci interessa in questo libro che, come già anticipato, farà molto male anche a molti di noi comunisti, perché i conti con quella storia non possono essere più rimandati. Soprattutto se si vuole dare vita ad un socialismo del XXI Secolo che torni alle origini innovandosi, che guardi indietro solo per impedirsi di ripetere gli errori del passato e per dare una speranza di evoluzione egualitaria all’umanità e a tutti gli esseri viventi.
Solo così, facendo a pugni contro la nostra coscienza, pure magari non avendo mai condiviso nulla dell’avvitamento statalista e autoritario dello stalinismo, del maoismo e dei tanti “ismi” che si sono sommati sul groppone della originalità del pensiero marxista e dall’aspirazione libertaria dell’Internazionale, si potrà rendere moderna una voglia di riscatto umano che, legittimamente, pretende di assaltare nuovamente il cielo.
Quando si tenta di fare un paragone improprio tra fascismo e comunismo, andrebbe ricordato molto semplicemente questo fatto: mentre osservando la storia dei totalitarismi di destra non si trova una, dicasi una, figura che abbia cercato di “umanizzare” quella ideologia criminale, se si pensa al socialismo non si può non tenere conto che il movimento e le politiche che volevano rovesciare il mondo borghese e capitalista erano interpretate differentemente da Rosa Luxemburg e Lenin, da Trotzkj e Stalin, da Gramsci e da Togliatti, dalla Primavera di Praga e dalla repressione cinese a Tien An Men.
Mentre non c’è un fascista che abbia rappresentato l’opposto di un altro fascista, ci sono tanti, tantissimi comunisti che sono stati l’esatto opposto di altri. Ecco perché le similitudini vanno sempre fatte con grande cautela. Possono servire a chiarire meglio le differenze se il fine è quello di capire, di approfondire i fatti e di farlo come ha fatto Gianluca Falanga.
Ma possono anche essere il tentativo di confondere le acque, di rendere torbida la Storia e di trasformare l’oggettivo in soggettivo, ponendo una ipoteca molto pericolosa sulla narrazione degli eventi e, quindi, anche sulla costruzione comune e condivisa di un futuro che deve poter appartenere a tutte e tutti.
NON SI PARLA MAI DEI CRIMINI DEL COMUNISMO
GIANLUCA FALANGA
EDITORI LATERZA, 2022
€ 15,00
MARCO SFERINI
13 luglio 2022