Non restaurano per poter governare, non rinnegano per poterlo essere ancora

Questa incapacità della destra di governo, erede della destra di opposizione, postfascista o neofascista che la si voglia definire (dipende che cosa ha voluto “non rinnegare e non restaurare”...

Questa incapacità della destra di governo, erede della destra di opposizione, postfascista o neofascista che la si voglia definire (dipende che cosa ha voluto “non rinnegare e non restaurare” e cosa, invece, ha voluto mantenere vivo del passato che non passa), di riconoscere le responsabilità storiche e politiche proprie, è tutt’altro che un segno di immaturità e di pressapochismo revisionistico.

Certo, c’è nell’impegno governativo e in quello pseudo-culturale anche un tratto marcatamente riferibile ad una riscrittura della storia molto più recente rispetto a quella del “Ventennio” mussolliniano; ma c’è in particolare quel sottinteso doppiofondo di verità che pervadono tutto il substrato di ambiguità in cui galleggia e in cui si muove ciò che dovrebbe rappresentare la nuova classe dirigente italiana della destra moderna.

Non sono soltanto stati i campeggi, le feste più o meno pubbliche o private, i raduni commemorativi dei camerati morti negli anni di piombo o riferimenti a Giorgio Almirante come ad una sorta di novello “padre della Patria” a significare quanto ancora vi sia del legame ininterrotto tra l’ieri e l’oggi: anche la fiamma tricolore è lì, nel simbolo del partito che guida la coalizione di governo.

A dimostrazione che la continuità viene rivendicata e, nel fare questo, viene sottoposta ad una attualizzazione accettativa da parte del galateo istituzionale, introducendo il postfascismo in un agone democratico in cui si sta stretti, ma da cui si deve passare per essere considerati affidabili nell’opera di Palazzo Chigi. Più scaltri di Enrico di Navarra, per i fratelli e le sorelle d’Italia non è servito nemmeno il baratto tra messe e regno, tra fiamme riossigenate e poltrone d’esecutivo.

È stato sufficiente farsi largo, elezione dopo elezione, nel logoramento delle altre forze politiche tanto di centrosinistra quanto di centrodestra. L’ambizione ha consumato tutti i leader che hanno provato, almeno in questi ultimi dieci, quindici anni, a governare la Repubblica con maggioranze piegate ad un leaderismo esasperato del conducator di turno. Se Renzi, Conte, Salvini e Draghi non avevano problemi di rapporti diretti col postfascismo (a parte il leader della Lega che mai e poi mai si è dichiarato apertamente antifascista), Giorgia Meloni questo contrasto evidente lo ha.

Ormai non si tratta nemmeno più di farle dire, come tentavano tutti un tempo con il pappagallo Portobello, quella parola magica che la renderebbe un po’ più lontana ancora dal suo passato storico e recente. Chi antifascista non è antifascista non può dirsi: può circumnavigare intorno alle richieste concettuali che gli vengono fatte, ma non arriverà mai dritta al punto.

Ormai, invece, si tratta di avere ben presente che le parole del presidente dell’associazione dei Familiari delle vittime della strage di Bologna (quando ottantacinque persone morirono e più di duecento rimasero gravemente ferite nello scoppio di una bomba messa dai nefoascisti con la complicità della Loggia massonica deviata Propaganda 2 di Licio Gelli e di altri apparati che si muovevano nelle ombre delle trame nere e dei servizi segreti) sono una critica più che giusta e drammaticamente attuale.

Sull’organizzazione di quello che è stato il più grave attentato terroristico della storia della Repubblica Italiana, non esiste soltanto una verità magistratuale, come vorrebbero far credere gli esponenti del governo ed anche la seconda carica dello Stato (citiamo, aperte le virgolette: «…un vile attentato che le sentenze hanno attribuito a una matrice neofascista…»); esiste una verità storica che si vorrebbe mettere in forse, magari istituendo delle commissioni parlamentari per riscrivere proprio la Storia (con la esse rigorosamente maiuscola).

Ed è proprio qui che la destra di governo non riesce, non può e non deve nemmeno, se fa appello alla propria coerenza politica d’origine e di provenienza, abiurare il postfascismo, il neofascismo. L’MSI, non è un mistero per nessuno, proprio perché anche questa è una verità storica (e non una interpretazione giornalistica o politica di parte), fu una palestra e una fucina di talenti che si riversarono poi nella “strategia della tensione“, nelle trame occulte, nelle intercapedini malevole tra apparati eversivi ed apparati dello Stato che li titillavano, li vellicavano e li carezzavano pelosamente.

C’era nella Repubblica Italiana di allora una parte delle istituzioni, non solamente politiche, che lavorava per una trasformazione autoritaria dello Stato: da democrazia parlamentare a presidenzialismo in odore di colonnellismo ellenico o, magari, di pinochettismo sudamericano. La scoperta della rete clandestina “Gladio”, sorta in funzione anticomunista e antidemocratica, non fece che confermare tutta una sovversione carsica che provò ad esprimersi, con qualche tentativo non riuscito fino in fondo, in colpi di Stato falliti per la premonizione di una resistenza popolare decisa e diffusa.

Questo poté avvenire, o meglio poté non avvenire, perché il “Paese nel Paese“, quel movimento operaio e del lavoro che supportava il sindacato, i partiti comunista e socialista, le altre forze democratiche antifasciste erano oggettivamente un enorme ostacolo sulla via del golpismo nero, della restaurazione di una dittatura di tipo militare in Italia. Oggi il capitalismo italiano ed europeo ha bisogno di tutt’altre garanzie.

Cerca una stabilità nelle relazioni internazionali per fronteggiare una crisi economica che è soprattutto crisi bellica ed ambientale e che, sotto la lente di ingrandimento dei profitti e dello sfruttamento delle risorse umane e naturali, si prepara ad un attacco ancora più feroce nei confronti delle classi popolari e disagiate. Ciò che l’imprenditoria e l’alta finanza vogliono da Giorgia Meloni è che metta da parte queste beghe storico-mnemoniche e governi con il piglio del pragmatismo della donna di Stato.

Ed infatti, la Presidente del Consiglio ci prova: quando flirta con i partner europei e quando appoggia senza condizioni la linea nordatlantica della NATO, nello smentire le sue posizioni storiche nel merito, tanto di Bruxelles quanto di Strasburgo e Francoforte, esercita proprio il ruolo della statista e non quello della presidente di un partito che porta la fiamma neofascista nel suo simbolo elettorale. In lei ruota il perno di un compromesso che, tuttavia, è difficile da mettere costantemente in essere.

Questo perché, lo si voglia o no, non siamo soltanto esseri istituzionali, ma siamo anche ciò che proprio i sovranisti e neo-postfascisti ricordano in tante interviste televisive dall’alto delle loro postazioni di governo: siamo espressione di una identità che sentiamo nostra e, nello specifico, un uomo o una donna di destra cresciuti nel MSI di Almirante, rimangono, nonostante tutto, dei neofascisti. Quindi potranno anche condannare il fascismo storico di Mussolini, appellandolo come l’antitesi della democrazia, ma soltanto se accomunato alle altre dittature totalitarie novecentesche.

Ed ovviamente il richiamo è a quell’odiato comunismo sovietico che per loro ha rappresentato il nemico secolare (ed anche giustamente), nonché la più energica onda militare e politica che ha spazzato via il nazifascismo dall’Europa. Nel momento in cui si fa ricorso ad artifici lessicali, a baroccheggiamenti linguistici per affermare che, sì, la strage di Bologna è stata causata dai neofascisti, ma che, in fondo, quella è una verità processuale, si dice parimenti che può esistere un’altra verità.

Si lascia intendere in tutta evidenza che ciò che si afferma sulla strage è la verità non storica, ma dei tribunali e che, quindi, è una verità parziale, che potrebbe non corrispondere a ciò che è realmente accaduto. E, messa così, la questione si apre a scenari di revisionismo propriamente (anti)storico che fanno accapponare la pelle per primi dei parenti delle vittime e di tutti coloro che rimasero feriti in quel fragoroso scoppio che sentirono tutti i bolognesi il 2 agosto del 1980 quando l’orologio della stazione ferroviaria si fermò sulle dieci e venticinque minuti.

Quando si fa cenno, soprattutto nei dibattiti televisivi, ad un recupero della memoria e ad una condivisone della stessa in un clima di ritrovata armonia nazionale tra parti opposte, si potrebbe pensare di dire ed esprimere un concetto unificante ante litteram, quando, dunque, non vi sono ancora i presupposti e le condizioni tali perché questo avvenga; supponendo quindi che possa concretizzarsi in un lasso di tempo breve.

Ma, dalla caduta del centrosinitra nella cosiddetta “prima repubblica” fino all’avvento del berlusconismo e dell’era dei leaderismi individualisti che hanno provato a seppellire le ideologie e i grandi partiti di massa che vi si ispiravano, anno dopo anno, governo dopo governo, è risultato sempre più eclatantemente evidente che la condivisione della memoria non è un passo che devono fare gli antifascisti nei confronti dei postfascisti. Ma il contrario.

Ed il punto dirimente sta esattamente in un processo di autoanalisi collettiva che una buona metà di questa nostra moderna Italia ha evitato di fare nei decenni del dopoguerra, per cui, oggi, risulta molto più semplice mettere in pratica una serie di operazioni revisionistiche che suonano come ammodernamento di valori che, invece di essere tali, altro non rappresentavano se non le contorsioni repressive di un regime che ha negato alla Nazione la libertà per oltre vent’anni e l’ha trascinata in una guerra durata molto oltre i cinque anni descrivibili.

I neo e postfascisti dell’odiernità si possono permettere tutto questo perché supportati da una democrazia sostanziale che, come spesso avviene, rischia di trasformarsi in una mera formalità a causa della condiscendenza necessaria che, per rimanere tale, deve avere nei confronti di tutte le idee e le opinioni politiche.

Gli esponenti del governo possono anche permettersi di biasimare duramente i fascisti del terzo millennio che percuotono a calci e pugni un giornalista de “La Stampa” o sfregiano con un vetro rotto il viso di un giovane o massacrano di botte due ragazzi che si tengono per mano mentre passeggiano per le vie delle grandi città del nord. Lo possono fare perché così marcano le distanze da un neofascismo retrivo e insulso che non può fare il paio con il compromesso del potere gestionale del Paese.

Lo possono fare e lo fanno. Apparendo così moderati e capaci di autocritica. Ma non fino in fondo. Perché nel momento in cui si riporta la verità dei fatti di Bologna alla confinabilità entro le carte processuali e basta, si esprime la propria connaturazione profonda e la si manifesta apertamente senza manifestarla oggettivamente. Si lascia intendere. Che sono ancora intimamente fascisti, ma che per la ragion del potere e dell’affermazione di sé stessi, non restaurano e non rinnegano. Ieri, come oggi.

MARCO SFERINI

3 agosto 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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