Ho sempre pensato che il perdono fosse un elemento necessario che istruisse un diritto civile e penale di una Repubblica. Il perdono come clausola quasi principale per una legge quasi umana, che comprenda, caso per caso, quello che la società stessa produce e che, quindi, la medesima società deve assumersi l’onere di portare su di sé anche se spiacevole.
L’assassino di Emmanuel vuole donare tutti i suoi beni alla vedova. Una sorta di richiesta di scuse, di perdono, di pentimento? Metto il punto interrogativo perché posso solo ipotizzare, visto che – per fortuna – non conosco quel “signore”.
Non oso nemmeno lontanamente dare un consiglio alla vedova: accettare o meno questa proposta?
So cosa farei io se quel “signore” avesse ucciso il mio compagno di vita. Non il ricorso alla giustizia da Far West invocata tanto tempo fa dal Movimento Sociale Italiano di Almirante e qualche volta proprio da quei movimenti fascisti da cui derivano poi certi assassini improvvisati…
Vorrei la più severa delle giustizie, ma nel diritto, nella Repubblica, nel contesto non della vendetta e di nuovo odio, ma di un comprensibile distacco.
Di quel “signore” non vorrei niente, nemmeno una lettera. Vorrei sapere, magari un giorno lontano, che ha riflettuto dopo molti e molti anni su quello che ha compiuto e che, considerandosi magari uguale ad Emmanuel, ossia un semplice essere umano uguale a tutti gli altri, provi fino alla fine dei suoi giorni il contrappeso del rimorso non come condanna ma come fondamento morale di una nuova vita dedicata agli altri e non più all’odio.
(m.s.)
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