Gli uomini uccidono le donne. Molti uomini uccidono le donne. Poche donne uccidono gli uomini.
L’enormità dei numeri che ogni anno si registrano è ormai il tratto distintivo di una vera e propria patologia sociale che, tuttavia, se esaminati caso per caso i femminicidi che avvengono, tende a smentire che vi sia più di un tratto comune tra i delitti: somiglianze per comportamenti, per il luogo in cui si verificano le uccisioni. Ma le storie sono spesso diversissime tra loro.
Il comune denominatore è la proprietà dell’uomo/maschio nei confronti della donna/femmina. La mascolinità esibita come circostanziazione della propria determinazione organica: mentale, fisica e sessuale, famigliare e sociale. L’uomo, nella traduzione maschilista, ha tutti i diritti.
La donna ha tutti i doveri. Non si tratta di rivangare la narrazione secolarissima dell'”angelo del focolare” o della moglie, madre, casalinga, dedita alla casa, alla cura dei figli e impossibilitata ad esprimere la sua essenza in tutti i campi che le potrebbero essere congeniali.
Qui si tratta di capire come mai, dopo che il problema è chiaro, dopo che per decenni le donne (ed anche molti uomini) si sono battuti per il riconoscimento morale, civile, legale e sociale della cosiddetta “parità di genere” e di una parificazione che, spesso, è stata una sorta di processo di tolleranza da parte del maschio nei confronti della donna/femmina, sussistano ancora quei presupposti singolari (eppure così diffusi) che conducono l’uomo a dominare, a sminuire, ad atomizzare il senso della vita di una donna, arrivando all’estremo supplizio, al suo annichilimento.
Se negli anni della prima metà del Novecento si doveva ancora formare una cultura delle differenze, sia civili sia sociali, e prendeva il largo un vasto movimento di rivendicazioni in questo senso, che avrebbe in seguito ottenuto le sue più grandi vittorie, oggi non possiamo in nessun modo dire di avere l’alibi dell’inconsapevolezza, del macigno della tradizione sulle nostre insicure spalle.
Oggi non possiamo in nessun modo affermare di essere davanti a qualcosa di nuovo e, in questo caso, di “moderno“. Siamo perfettamente consapevoli che il retaggio anacronistico del patriarcalismo si invera nel maschilismo sfruttatore, violentatore e omicida del maschio.
Come mai la coscienza dell’uomo non si attiva quando si resta imbrigliati in storie più grandi di noi o che, forse, sono grandi tanto quanto i grovigli che abbiamo messo in essere? Come mai noi uomini non ci fermiamo un secondo prima e non facciamo ricorso a quella psicologia spicciola che dovrebbe dirci: «Non vorrai mica farle del male? Non vorrai mica pensare di risolvere così i tuoi problemi con lei? Non vorrai mica ucciderla?!».
La lunga scia di sangue delle donne uccise dagli uomini non si ferma; le tante manifestazioni e le campagne di sensibilizzazione per attivare un meccanismo implicito e quasi automatico di freno agli impulsi più crudeli, sembrano non ottenere effetto: quanto meno di ampio contenimento del fenomeno.
Di conseguenza se ne deve dedurre che nell’uomo e nel maschio continua ad alimentarsi una parte inconscia di intollerabilità nei confronti dell’affermazione del diritto della donna a gestire i propri sentimenti a prescindere dalla volontà del suo compagno.
Ragazza, fidanzata, moglie, madre, figlia, qualunque sia il tipo di relazione che intercorre tra una donna e un uomo, qualunque sia il tipo di sentimento che li contraddistingue nel legame, il maschio che viene fuori alla fine di discussioni, quando si fa ricorso all'”ultimo appuntamento chiarificatore“, è sempre e soltanto una volontà dominatrice, che non vuole accettare un qualcosa che mette in discussione la sua di volontà. Che lo costringe davvero ad una parificazione. Quella reale. Non quella enunciata da tanti bei discorsi.
Chissà quanti uomini che hanno ucciso donne, le “loro” donne, si sono proferiti in affermazioni in loro difesa, per la tutela dei loro diritti, esternandolo tra parenti, amici, magari pure su Internet dove ormai si condivide tutto e ancora di più. Le affermazioni di principio sono reali soltanto se sono seguite da una coerente traduzione pratica, giorno per giorno. E, prova del nove, nel momento in cui si deve affrontarne tutto il portato personalmente.
Qui si gioca un intreccio, una commistione di fattori che mandano in crisi le certezze più granitiche che possiamo avere. Non è questo il caso di uomini che avevano due, tre vite e le vivevano mettendo delle intercapedini di menzogne tra un rapporto e un altro, tra un destino e un altro, tra una donna e un’altra.
La componente sessuale è determinante in ogni rapporto umano. Non c’è bisogno di scomodare Sigmund Freud per provare a capire la complessità degli ancestralismi che ci dominano e di cui, a volte, non ci accorgiamo.
Ma sarebbe ingiusto rubricare il tutto ad una prevalenza dell’inconsapevolezza, affidando all’inconscio il ruolo di mandante dei crimini che sono l’ultimo tassello di una mancanza di certezze e di sicurezze che sfocia nell’annientamento dell’altro. In questo, in mille altri casi: dell’altra.
L’amore dovrebbe essere forza e non debolezza. Se vive di fragilità, all’addiaccio di una conflittualità permanente, dettata dalle perturbazioni emotive continue, senza un minimo di condivisione eguale dei sentimenti, dei desideri e del presente-futuro sempre in divenire, allora più che amore è una frustrazione mascherata da buoni sentimenti.
E qui potremmo dare la colpa ad una società ipersonica, che tratta tutto senza il dovuto rispetto, che accelera i tempi dei rapporti, che non prevede più il corteggiamento, il lato romantico della dualità tra uomo e donna, ed anche tra uomo e uomo, donna e donna…
Si passa alla voglia frenetica di superare le tappe adolescenziali, diventando, prima ancora di esserlo, uomini e donne: dai programmi televisivi che vorrebbero insegnare come si dialoga e come si corteggia, come si fa colpo o come ci si rapporta con l’eleganza dei tempi perduti, vengono fuori soltanto liti artefatte, buone per l’audience catodico, per la pubblicità che incrementa i fatturati. Ma non si trasmette niente di altruistico.
Il messaggio che passa è quello dei tronisti che cercano rampantisticamente solo visibilità, successo, fama, gloria e soldi. Una narrazione tutta liberisticamente egoista, dove invece di valorizzare la bontà senza secondi fini, la dolcezza e la disposizione di ciascuno a mettersi nei panni dell’altro, si mette al centro l’individuo (uomo o donna, maschio o femmina, in questo caso abbastanza pari sono… purtroppo) e ne si fa l’interprete di una serie di luoghi comuni che sono sfinenti.
Il respiro anticulturale e incivile di questi esempi è la formazione di un substrato, probabilmente anche inconscio, di una buona fetta di popolazione che pensa attraverso stereotipi retrivi, pregiudizi e vecchi schemi che negano tutte le lotte per l’emancipazione e per i diritti tanto delle donne quanto di quello che potremmo definire l'”altra metà del cielo delle differenze“.
Non c’è dubbio che oggi si possa, a differenza di cinquant’anni fa, parlare di omosessualità e di transessualità liberamente: alla radio, in televisione, sul web, ovunque nei dibattiti pubblici. E questo senza incorrere in brusii o altri cenni di dissenso moralistico.
Ma non c’è altresì dubbio che questa assunzione di coscienza, divenuta abitudine e quindi cultura condivisa, è sempre sull’orlo del precipizio, perché una parte della società la respinge e si aggrappa ad un tradizionalismo che include anche il maschilismo, il patriarcalismo, il ruolo classico della famiglia dove la moglie è praticamente al servizio del marito.
Non c’è un confine ideologico preciso in tutto questo: le donne di destre e quelle di sinistra sono (dovrebbero essere…) dalla stessa parte della barricata, laddove quest’ultima è rappresentata dai presupposti che vorrebbero fare dell’uomo anzitutto e soltanto un maschio.
Forse dovremmo pensare alla nostra società, inclusi ovviamente i rapporti umani, morali, civili, sessuali e culturali tra uomo e donna, tra maschio e femmina, come davvero a qualcosa di assai complesso e non riducibile a due sole sfere: dovremmo pensare che le sfumature sono tantissime e che non sono eccezioni. Sono tutte regole particolari, sono regole e non eccezioni ad una sola regola.
Perché se non ragioniamo in termini intersezionali, sovrapponendo i piani, sapendo che emozioni, desideri e voglie possono prendere le vie più disparate, allora castriamo anzitempo la possibilità che una coscienza condivisa si estenda maggiormente e la restringiamo in un ambito certamente più largo del passato ma non adatto ai tempi in cui oggi ci troviamo a vivere.
Basta frequentare una chat di incontri per saperlo. Provate ad iscrivervi ad una chat gay, anche se non siete omosessuali: scoprirete che una buona fetta di frequentatori è fatta di falsi profili che cercano di spillarvi quattrini; ma un’altra buona fetta è composta da uomini sposati, eterosessuali, che vogliono divagare, uscire dalla routine quotidiana o, più probabilmente, sondare tutte le forme che può prendere la loro fantasia erotica e sessuale.
Non possiamo ridurre più il mondo a uomo e donna, a maschio e femmina come sole categorie interpretative della sessualità e dei generi che conoscevamo. Se iniziassimo ad accettare tutte e tutti questa verità, forse saremmo consapevoli che non è importante reclamare la propria virilità etero come esempio di vero omismo, di una specie di machismo dei tempi modernissimi del nuovo millennio.
La relatività in cui l’universo vive, evolve, involve, si trasforma a seconda delle leggi che lo regolano, è comunque sempre relativa. Persino il tempo è indefinibile come costante e persino lo spazio: si dilatano e si contraggono smentendo la certezza della misurazione dei nostri orologi. E così è per ciò che ci abita interiormente e che, premuto sotto la costrizione degli schematismi del passato, del tradizionalismo e del diritto dell’uomo a dominare sempre e comunque, finisce per esplodere in una impazzita dinamica di pulsioni.
La demitizzazione dell’uomo è il primissimo passo per riportare l’essere umano alla consapevolezza della sua insufficienza e del suo fare parte di racconto cosmogonico che sempre in mutazione: panta rei. Tutto scorre e tutto si trasforma in questo scorrimento.
Gli uomini che uccidono le donne si credono invece al centro di sé stessi e non si pensano come condizionati da mille altri significanti che arrivano dall’ieri che diventa l’oggi e si fa domani. Noi pensiamo di poter affermare di “essere” qualcosa di assoluto. Invece siamo il processo continuamente costituente di tutta una serie di compenetrazioni di influssi e di suggerimenti che ripetiamo e che ci fanno vivere mille vite e mille morti al tempo stesso.
Vale per ogni essere umano. E chissà che non valga anche per gli altri esseri viventi. Proprio per questo dovremmo ridurci ad uno stato di eccezionalità soltanto in ciò che ci viene naturale fare. Tutto il resto, compresi i rapporti umani, erotici e il desiderio che ci porta verso una donna, un uomo o una qualche forma di amore diverso dal corpo, magari per l’arte, per la cultura, per la natura, è una ripetizione quasi consuetudinaria di una umanità che si replica di giorno in giorno.
Dobbiamo smetterla di ritenerci onnipotenti e, in quanto uomini e maschi, ancora di più onnipotenti verso l’altro sesso, verso l’altro genere. Se non depensiamo in questo modo, se non ci rendiamo conto che l’uguaglianza sociale e civile dovrebbe essere un elemento di corresponsione naturale tra tutte e tutti, ripeteremo errori tragici all’infinito: proprio come i femminicidi.
La componente maschilista, che si nutre di una sessualità dominante, è una distorsione della personalità: perché dovremmo essere “più uomini” se prevaliamo sulle donne? Perché dovremmo essere “più uomini” se neghiamo la nostra omosessualità, la voglia recondita di baciare un altro uomo, di sentire cosa si prova? Perché reprimerci dovrebbe farci stare meglio? Perché la “maggioranza” è naturale, mentre le differenze, che sono minoranze, fuoriescono dal cerchio della vita giusta e retta?
Scavando a fondo, piano piano, ci si accorge che abbiamo lasciato sedimentare in noi tutta una serie di pregiudizi che si sono solidificati talmente tanto da impedirci di riconoscerci come esseri mutevoli, pieni di voglie che, se espresse, non fanno male a nessuno e che incrinano le certezze millenarie sull’identità dell’uomo e della donna.
Il discorso ci ha già portato troppo lontano. Ma era necessario affrontarlo in questi termini. L’origine dei femminicidi è impossibile da rintracciare in un solo movente, in una sola causa. Ma, indubbiamente, il nucleo familiare e il mondo in cui si è cresciuti hanno le loro responsabilità.
Come è abbastanza semplice notare, non abbiamo alibi legati alla tradizione, all’ignoranza, all’inconsapevolezza. Abbiamo invece tutti gli strumenti, etici, psicologici, culturali, sociali e legali per scongiurare che una mano si alzi e colpisca un’altra donna…
MARCO SFERINI
4 giugno 2023
foto tratta dalla pagina Facebook di Non una di meno