Quando ci sarà la ripresa non sarà sufficiente lo studio basato sulle statistiche. Le statistiche funzionano quando i mutamenti hanno un ritmo lento, ma perdono efficacia dinanzi a svolte improvvise e radicali come quelle in corso.
Bisognerà anche rompere la gabbia della subalternità del pensiero alla tecnica e della rinuncia , avvenuta nel corso di questi anni almeno dalla caduta del muro in poi, all’articolazione che la storia ha sempre offerto al pensiero umano.
Sul piano della soggettività è entrato in crisi l’individualismo esasperato mentre sarà del tutto insufficiente occuparci di alcuni temi politici che pure sono emersi all’interno di questa crisi come punti nevralgici: la fiscalità, il decentramento dello Stato, il valore complessivo del “pubblico” rispetto al “privato”.
Ci sarà da riflettere sull’acquisizione di una nuova nozione di “senso del limite” che ci arriva dall’aver vissuto una tragedia epocale ma non basterà neppure quella riflessione per giungere a un livello di elaborazione sulla quale poggiare una prospettiva di “pensiero lungo”.
Servirà una ripresa di costruzione dell’ideale.
Un ideale che rompa l’idea dell’ineluttabile soggezione all’esistente proponendo anche di riappropriarci del senso del limite, senza che ciò significhi ritorno all’indietro.
Non basterà richiamarci ai canoni novecenteschi. Sarà necessario lavorare, usando tutti gli strumenti disponibili, intorno al rapporto tra cultura e politica.
Il rapporto tra cultura e politica accusa ormai da molti anni un ritardo particolarmente vistoso rispetto alle necessità dei tempi.
Un rapporto quello tra cultura e politica che è stato infatti ormai ridotto all’assemblaggio di un insieme di tecnicismi. Ciò è avvenuto in diversi campi da quello accademico, per arrivare a quello istituzionale, economico e soprattutto della comunicazione laddove la politica appare ormai confusa con l’economicismo e il giurisdizionalismo astratto.
Si tratta invece di ripartire per una ricognizione di fondo, prescindendo dal proposito di sviluppare una “ricerca di parte”. L’ambizione di questa ripresa di ricerca dovrebbe essere quella – prima di tutto – di intrecciare i diversi insegnamenti che ci vengono dalla storia della “filosofia politica”.
Il risultato dovrebbe essere quello di provocare una riflessione complessiva con il superamento delle settorializzazioni e degli schematismi oggi imperanti.
Schematismi imposti appunto dall’egemonia della “sociologia dei numeri”. Schematismi che, alla fine, hanno danneggiato non soltanto la qualità degli studi e delle ricerche, ma soprattutto la qualità dell’“agire politico”.
Nel compiere questa operazione intellettuale il primo traguardo dovrà essere quello di ricostruire una sorta di percorso nella storia del pensiero politico, cercando di riassumerne le fasi più importanti, individuare i passaggi al fine di orientare l’idea di una dialettica possibile.
L’esigenza di ricercare questo equilibrio tra “storia del pensiero politico” e realtà “dell’agire politico”, nasce dalla convinzione che il pensiero politico sia un “pensiero concreto”, coinvolto attivamente nel mondo, sia come critica dell’esistente, cioè come de-costruzione, sia come costruzione, cioè come progetto di edificare un ordine migliore, ovvero rispondente a criteri di legittimità diversi da quelli dell’ordine presente.
Servirà legarsi a un filo conduttore, coscienti del fatto che il pensiero politico non si sia rivolto sempre ai medesimi problemi attraverso le medesime categorie.
Insomma, è necessario mettere in rilievo che la concretezza del pensiero politico consiste proprio nel fatto che esso aderisce alle drammatiche discontinuità dell’esperienza storica, e anzi le riconosce, le interpreta, le mette in forma.
Sarà importante anche sottolineare la coesistenza della storia del pensiero con la geografia del pensiero, rivolgendosi quindi all’illustrazione tanto dell’evolversi delle tradizioni intellettuali che innervano la riflessione politica quanto alle specificità, rilevanti e riconoscibili, con cui ciascuna delle grandi aree geografiche le ha sviluppate e interpretate.
Occorre mostrare, come, di volta, in volta nel corso della storia si sia strutturato quello spazio nel quale si sono attuate le relazioni tra i sistemi politici; la globalità nelle scelte, il rapporto tra la politica e la guerra (o la pace), la relazione fra l’ordine interno e l’ordine (o disordine) esterno.
Si deve avere fiducia, ed è questa l’unica nota di ottimismo permessa, nell’importanza e nell’efficacia formativa della storia del pensiero politico, nel suo senso più vasto, lavorando per costruire strumenti che ci mettano in grado di decifrare i momenti di crescita e di crisi, di dramma e di trionfo, di chiusura localistica e di apertura universale della nostra civiltà intellettuale e politica.
Sarà necessario accingersi ad affrontare la complessità assolvendo a un compito rispetto al quale, dal mio modestissimo punto di vista, ben pochi altri possono essere giudicati più importanti e affascinanti.
Un lavoro da cui deve uscire la riattualizzazione nella capacità di individuazione della qualità delle contraddizioni sociali favorendo così l’elaborazione di una teoria del cambiamento all’altezza del presente e del futuro.
Una teoria del cambiamento appare indispensabile per affrontare ancora il senso dei nostri inalterabili richiami storici alla relazione tra democrazia e uguaglianza e dell’evocazione di un adeguato concetto di progresso morale, sociale, economico evitando le trappole di cui appare disseminato il futuro.
Ricostruire l’idea di progresso: questa la sola sintesi possibile per indicare la necessità e l’urgenza di aprire un discorso molto difficile in questo momento di apparente invisibilità dell’orizzonte.
FRANCO ASTENGO
2 aprile 2020
Foto di Evgeni Tcherkasski da Pixabay