Non è facile trovare uno ‘slot’ per parlare con uno dei quattro ragazzi – tre e una ragazza – promotori delle «6000 sardine contro Salvini». Primo evento a Bologna il 14 novembre e poi una valanga di piazze autoconvocate. Ma non si può dire che siano stati «travolti» dagli eventi. Mattia Sartori – trent’anni, ricercatore nell’ambito dell’energia rinnovabile – è rimasto misteriosamente pacato e riflessivo, nonostante la sovraesposizione di questi giorni.
L’antipopulismo, la compostezza del linguaggio la capacità di ribaltare il discorso ovvero di rappresentare Salvini come un leader fragile. Dica la verità: c’è una teoria dietro la pratica della sardina?
No, c’è la normalità di quello che pensavano in tanti. Ma non era mai scattata la scintilla. Però poi ripensandoci era fisiologico: quella frattura sociale che si sta creando nel paese doveva scattare.
Qual è stato il punto di rottura?
Non un momento preciso. È successo negli ultimi anni, ogni volta che qualcuno di noi ha subito il linguaggio aggressivo e violento. Non è un caso che fra le sardine ci siano tanti cittadini con coscienza ma anche tantissime persone vittime di bullismo mediatico.
Siete nati sui social ma teorizzate la materialità della relazione politica: stare stretti in una piazza.
È una delle cose che abbiamo creato di cui non avevamo capito la portata. Gli esperti ci fanno notare che siamo riusciti a collegare il reale con il virtuale. È un messaggio potente. Abbiamo usato una strategia precisa. L’evento di Bologna è stato gestito in una maniera ponderata: prima solo ‘metti un click’, poi ‘facci vedere che sei una persona reale’, poi il volantinaggio per tramutare il virtuale in reale, infine l’incontro. Il vantaggio è stato che fino all’ultimo ci chiedevamo se lasciare ‘6000’ nel titolo dell’evento. Avere fissato l’asticella così in alto ci ha imposto di lavorare molto. È stata questa la magia.
Chi ha «ponderato» la strategia?
Tutti e quattro. Io all’inizio ho proposto la cosa, però tutti i passi successivi, venivano revisionati da tutti e quattro. Tutte le idee venivano vagliate, moltissime scartate, altre modificate.
Mi dà la sua parola d’onore che dietro non c’è un guru della comunicazione politica?
Sì. Ma questo è l’altro messaggio dirompente: quattro persone normali, che sanno usare facebook e che si sono interessate di politica, possono farlo. Vuol dire che tutti possiamo fare qualcosa.
Nel vostro «manifesto» c’è scritto che il populismo fra i principali bersagli. Perché?
Probabilmente abbiamo parlato a una fetta di popolazione che non si sentiva più ascoltata o chiamata in causa. Per anni si è parlato solo a quella parte rabbiosa, scontenta, fragile e impaurita, e nessuno ha parlato a chi avrebbe recepito un messaggio più complesso. Il nostro messaggio è complesso. Non a caso il nostro inno, «Come profondo il mare» di Lucio Dalla è una canzone bellissima. Ma molto complessa. È stata un’idea di Giulia. Quando abbiamo letto il testo e l’abbiamo ascoltata abbiamo detto: è lei.
Insomma ha ragione chi vi descrive come indifferenti a chi non capisce messaggi complessi, alle diseguaglianze sociali su cui i populisti costruiscono le fortune?
Le piazze delle sardine sono piene di persone che odiano le diseguaglianze. E una grande componente è il mondo lgbt, femminista, degli immigrati. Non è casuale. Sono persone che hanno subìto l’aggressione del linguaggio populista di destra e della Lega. È chiaro che ancora non siamo alla fase in cui estraiamo contenuti dalla piazza. A Roma, il 14 dicembre, quando lo faremo, verrà fuori.
«Ancora»? Quanta strada c’è ancora da fare per le sardine?
Una strada che ogni giorno presenta curve inaspettate. È un esperimento e ogni giorno abbiamo una variabile in più per arrivare alla soluzione. Il tema che stiamo affrontando adesso, oltre ai problemi logistici e pratici, è fare emergere i contenuti e cercare di dare una continuità senza «scadere» in un partito politico. I belli che fanno una brutta fine non sono così belli.
Siete un marchio in franchising, nelle diverse città avete cose comuni, il no alle bandiere di partito. Ma a Taranto, domenica, potrete restare silenziosi come a Bologna?
Taranto non nasce da noi ma dal coordinamento delle sardine pugliesi che hanno deciso di fare il primo abbraccio, la prima nuotata a Taranto. All’inizio ero dubbioso. Poi ho parlato con loro ed ho capito che il messaggio sarebbe stato potente. Loro dicono: portiamo lo stile delle sardine in una terra che negli ultimi anni è stata divisa da tutte le promesse della cattiva politica. Non c’è una politica in grado di unire le mamme che hanno perso i figli agli operai che vogliono lavorare. Portiamo una medicina diversa in un territorio malato di una malattia legata al populismo di chi nega le risposte complesse. Senza bandiere sarà più facile per i tarantini ritrovarsi in un’idea di società e di una politica più seria. Per noi a Bologna c’è un’urgenza elettorale, da loro un’urgenza di vita.
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DANIELA PREZIOSI
GIOVANNI STINCO
foto tratta dalla pagina Facebook delle Sardine di Genova