Sparare e prendere bene la mira. Prenderla bene, mi raccomando. Perché se ci fosse stato nostro figlio dentro la gip campagnola di piazza Alimonda, il grande pericolo di un ragazzo che si avvicina con un estintore (proprio per ripararsi da una pistola puntata vista in quel momento contro di sé) sarebbe tale da mettere fine ad una vita.
Che importa quale? Per puro caso si trattava di Carlo. Potevo esserci anche io quel giorno, alle 17.27, in quel preciso istante dietro ad una camionetta che poi mi sarebbe anche passata addosso, una volta a terra, per fuggire da scontri di piazza.
A distanza di sedici anni c’è ancora qualcuno che pensa che Carlo fosse un nullafacente, un vagabondo delle idee, un romantico perdigiorno, come spesso mi sento io, lì in quel dato momento per evitare di assumersi chissà quali responsabilità la vita gli avrebbe dovuto consegnare.
Era andato, come me e come tanti altri, Carlo a quelle giornate del G8 genovese per una legittima, moralmente, civilmente e costituzionalmente tale, protesta di massa contro coloro che, imbellettati, potenti e sorridenti, si riuniscono attorno a grandi tavolate, mangiano in lussuosi banchetti, facendo credere alle enormi masse di proletari moderni di voler migliorare la vita di tutti quando, invece, pensano giustamente (secondo il dettame capitalistico) a rinforzare le difese dei profitti di grandi gruppi economici, a tutelare i rapporti internazionali tra quei poteri che chiamiamo “Stati” e che non rappresentano la povera gente.
E se vi sentite offesi da questa definizione, se preferite essere chiamati “altro dai padroni”, o “altro dai capitalisti”, fate pure. Ma sempre prestatori di forza lavoro siete. Se potete esserlo. Perché ora avanza la categoria dei “neet”, di quei giovani tra il 15 e 30 anni che non studiano e non lavorano. Sono quindi incasellati in questo nuovo inglesismo che ci porteremo dietro a lungo nelle discussioni che faremo sulla scia di un mondo che peggiora di giorno in giorno in quanto a misurazione di eguaglianze e che, di contro, migliora notevolmente se il termometro politico ed economico è quello, invece, delle diseguaglianze.
Carlo, come me nel giorno del corteo dei migranti, era andato al corteo come lo aveva fatto Franco Serantini nella Pisa del 1972 o come Giorgiana Masi, oppure come mille e mille altri giovani che non si vedono più ormai nei cortei.
Anzi, non si vedono proprio più cortei, né bandiere di Che Guevara, né bandiere rosse in generale.
Non c’è più la protesta e, quindi, non ci può essere nessuna rivolta che nasca da un sentimenti di oppressione. Dunque, se ne deduce – forse semplicisticamente, ma pur sempre un grammo di verità esiste in tutto ciò – che l’avvertimento dello scontro di classe è pericolosamente sceso sotto il livello dell’inconsapevolezza e, quindi, se ne deduce altrettanto che, nonostante noi comunisti e la sinistra (vera) in generale si provi a rianimare questo luogo politico diasporizzato, minimizzato e inconsistente, non esiste quella che ho spesso definito “una domanda di sinistra”. Una domanda di un riferimento politico che manca indubbiamente per colpa propria, ma anche per responsabilità di chi non la cerca e trova soluzioni così banali e semplicistiche da far precipitare il Paese nel pressapochismo, nella fine dell’analisi, nel principio – ormai avanzato – della considerazione superficiale dei fatti.
Carlo è, a sedici anni di distanza, simbolo dell’ultima grande rivolta di massa perché, purtroppo, oggi può avere 39 anni come tutti i suoi coetanei di allora. Ma solo un cippo in piazza Alimonda. Un cippo che qualcuno vorrebbe far rimuovere. Memoria scomoda quella di Carlo. Bene che sia così: un cuneo piantato nel rimorso mai provato di tante e tanti che gestirono i giorni del G8 con la prepotenza delle armi e che cercarono il sommovimento, provocando i manifestanti, interrompendo cortei legittimamente autorizzati.
Per mostrare, poi, le immagini del Blocco nero, tambureggiante, sconosciuto al movimento no-global. Estraneo per davvero agli anticapitalisti che reggevano lo striscione e le bandiere che trasudavano ovunque il programma: “Un altro mondo è possibile”.
E quella possibilità oggi è la vera invisibile della quotidiana storia politica, sociale ed economica dei nostri tempi. Siamo rimasti ancora in molti a crederci ma siamo trattati come “gli ultimi dei mohicani”. Eppure tutto ciò è forza, perché eravamo, siamo e saremo dalla parte di quel “torto” brechtiano che è dunque ragione. Che è amore per gli sfruttati, i peregrini di mezzo mondo, i proletari di tutti quei paesi in presunta pace o in vera guerra che fuggono e che vengono numerizzati, odiati, offesi, fatti fenomeno di paura ed epifenomeno costante dietro alle nostre spalle di un timore onnipresente pronto a scatenarsi al primo grido di “invasione”, di incertezza sociale, di rabbia personale fomentata dalle televisioni, dai giornali, dal protagonismo dei “social network”.
Sparare e prendere bene la mira. Quanti oggi sparano contro sé stessi senza accorgersene. Ogni giorno. Sono colpi di pistola con silenziatore dell’illusione della risoluzione dei problemi sociali e singoli con ricette di destra, con sogni liberisti trasformati in moderni comizi di avanzamento di un progresso che non esiste se non per i padroni, i finanzieri e i grandi banchieri.
Sparare e prendere bene la mira non è nemmeno l’incipit di un post offensivo. E’, in qualche modo, l’opportunità che ho avuto di scrivere ciò che provavo nel leggerlo. E di questo ne ringrazio l’autore: mi ha fatto nuovamente comprendere che venticinque anni di vita politica sono pochi e che, quindi, l’impegno comunista di una vita, continua.
MARCO SFERINI
21 luglio 2017
foto di Alberto Sguerso