Uno scenario nuovo si apre in questo 2013. Si volta pagina e si apre una stagione di instabilità politica determinata dal successo di Berlusconi, da un centrosinistra che rimane al palo, dall’irrompente arrivo in Parlamento del movimento grillino e, anche, dalla distruzione della sinistra, di quel poco che ne rimaneva e dallo stop che Monti ha avuto dall’elettorato.
La complicità della legge elettorale nell’ingovernabilità e nella gestione di un Senato che appare davvero ingestibile sul piano di maggioranze e minoranze, finisce per essere marginale – propriamente e meramente tecnica – davanti allo stravolgimento politico cui abbiamo assistito in questi giorni.
La sconfitta della sinistra
Non ci troviamo davanti ad una ennesima sconfitta. Questa volta siamo in mezzo ad un deserto. Non rappresentiamo un punto nemmeno minimo di riferimento per quelle classi sociali più deboli, meno tutelate e dissanguate dalle politiche liberiste di questi anni. Da questo punto di vista, su questo piano, nemmeno il centrosinistra ha raccolto voti dal bacino che potenzialmente aveva Rivoluzione Civile se non con il paventare una utilità del voto come spauracchio contro Berlusconi.
Un Berlusconi che prontamente risorge e che contribuisce a sparigliare le carte in gioco, almeno quelle che erano state messe sul tavolo immaginifico (ma con un potente messaggio subliminale) dai tanti sondaggisti della prima e dell’ultima ora.
Rivoluzione Civile è stato un tentativo coraggioso di aprire uno spazio a sinistra tra un centrosinistra che si preparava a governare con il sostegno di Mario Monti e l’alternativa urlata di un duo che ha degli aspetti comici e anche inesplorati: Casaleggio e Grillo sono i vincitori assoluti di questo 2013 politico. Ma sono anche i padri e i padroni (per dirla alla Gavino Ledda) di un movimento che non ha una linea politica fondata su una visione sociale, su una interpretazione delle contraddizioni economiche basate sulla correttezza scientifica dell’analisi marxista.
Per dirla in parole “povere”, Grillo non considera il lavoro un antagonista del capitale, ma li mette insieme, li fa compenetrare e parla di aziende e di sviluppo tanto quanto parla di salario di cittadinanza.
Grillo è tutto e il contrario di tutto: parla di uguaglianza dei cittadini e poi mostra lati xenofobi documentati ampiamente dalle dichiarazioni parmigiane con Pizzarotti fino ai suoi spettacoli nei teatri dove canzonava gli “extracomunitari” a cui si poteva “dare una passatina” in questura se rompevano le scatole… “Tanto lo fanno”. Concludeva.
La sinistra è in un vuoto pneumatico. Siamo nel vuoto e siamo chiusi dentro delle pareti che ci difendono da una estinzione che in troppi vorrebbero diventasse il non-luogo, quell’ u-topos dove poter relegare i resti antichi e vecchi di una ideologia, di una pratica e di un partito.
Il miglior modo per uscire da questa trappola di retroguardia è quello di dimostrare che la risposta grillina è demagogica, che Berlusconi è un ciarlatano interessato solo a salvaguardare i suoi interessi privati, che Monti è il proconsole dei dettami della BCE in Italia e che il centrosinistra è insufficiente nell’affermazione di una politica di riforme sociali, così stando le cose.
Ma non dovrebbero essere questi tutti assiomi ormai ben presenti nelle menti e nelle coscienze di tutte e tutti noi? Dovrebbero, per dare al tempo almeno la dignità che gli spetta, avendoci mostrato più e più volte nel corso degli anni tutto quanto ho descritto sopra.
Invece manca una coscienza prima ancora di una “coscienza di classe”.
La sinistra perde anche perché i suoi messaggi, i suoi programmi, non sono facili slogan urlati nelle piazze, ma concreti ragionamenti sulla nascita delle problematiche sociali e civili accompagnati dalle conseguenti proposte per una loro soluzione.
Voliamo alto, dunque. Siamo incomprensibili e per questo siamo inefficaci e non intercettiamo il voto popolare che dovrebbe essere naturale avere.
Ma questo alto volo, che non è fatto in cattiva fede e che non vorrebbe sovrastare niente e nessuno, ma condividere esperienze politiche e sociali, finisce per essere come l’avventura di Simon Mago. Ci sfracelleremo al suolo come Icaro se non cambiamo prima di tutto le nostre organizzazioni in luoghi aperti, senza più metafore tra la proposta e la concretizzazione della medesima, ma con una immediatezza che deve farci scrivere un diverso codice comunicativo.
Questo vale anche per l’importanza che oggi ha Internet e la gestione delle opinioni sui social network e con la velocità supersonica della pressione dei tasti… Non siamo più nel tempo delle “lettere al giornale”.
La sconfitta della sinistra, dunque, va indagata in un contesto ampio, che travalica le stesse responsabilità dei singoli dirigenti: tanto di Rifondazione Comunista quanto di Rivoluzione Civile. Per questo penso – lo dico molto chiaramente – che non si deve creare nessuna forca caudina con la richiesta delle dimissioni e, tanto meno, con la loro accettazione.
Le dimissioni della segreteria nazionale di Rifondazione Comunista fossero (e sono) un atto dovuto. Ma fatto salvo questo, non veniamo immediatamente investiti da un lavacro purificatore, non veniamo mondati dei nostri peccati politici, organizzativi, culturali e di qualunque altra natura.
Siamo profondamente sinceri: Paolo Ferrero potrà aver sbagliato scelte politiche, ma di certo non c’era altro da fare se non aderire e contribuire a costruire Rivoluzione Civile in questa fase elettorale. La presentazione in qualunque altro modo del nostro Partito al voto avrebbe avuto un significato ancora più demoralizzante di quello che si è dimostrato avere col disastro elettorale di pochi giorni or sono.
Rifondazione Comunista non può e non deve essere messa in discussione fino a che non avrà più utilità per la sinistra comunista e per la sinistra italiana: oggi Rifondazione ha ancora questa utilità. Come partito comunista, come soggetto che ha – nella miriade di frazionismi sterili e improduttivi – un apparato diffuso su tutto il territorio nazionale. Sciogliere questa comunità di compagne e compagni e lasciarli ad un “libero” destino sarebbe un atto irresponsabile per quanti a sinistra non hanno patria politica e possono trovare in Rifondazione e nei suoi dintorni ancora un approdo a cui aggrapparsi per un cammino comune.
Una rinata rappresentanza del lavoro a sinistra
Il problema della discontinuità tra lavoro e rappresentanza politica del lavoro non può non trovare nel dibattito che faremo in questi prossimi mesi un ruolo che non sia centrale. Si tratta delle ragioni stesse per cui la crisi di una politica frustrata e violentata, depressa e demoralizzata, corrotta e destituita di ogni credibilità si è riversata sul voto di protesta (e non certo di proposta) al movimento grillino.
Ma Grillo non da risposte, come ho già scritto, su questi punti e non può darle per la natura stessa che ha dato alla creatura politica da lui inventata con Casaleggio.
Se allora spetta ancora alla sinistra e ai comunisti dare una rappresentanza politica del mondo del lavoro, occorre dimostrare che questa non è una variabile dipendente dagli umori e dalle contestazioni, ma un rapporto “storico”, un elemento imprenscindibile, visto che solo i comunisti sono i proponenti di un modello di società esattamente opposto a quello attuale e che, quindi, non contempla compromessi con chi sostiene la libertà merceologica, la regolamentazione del profitto e la gestione delle crisi cicliche del capitale.
Ma se proponiamo alla gente questo tipo di elucubrazioni e definizioni, finiamo per essere nuovamente scartati, avvertiti come un Talete che, seppure saggio, cade nella buca mentre guarda le stelle del firmamento.
La verità è che da troppo tempo il nostro Partito era lontano dai luoghi di lavoro, nel loro interno. Per troppi decenni sono state le destre – ad esempio al nord – ad avere paradossalmente più contatti con i lavoratori che un partito come Rifondazione Comunista. Non è qui in discussione l’impegno di tantissime compagne e tantissimi compagni che hanno comunque organizzato circoli di fabbrica o in altri luoghi di lavoro.
E’ in discussione il “sentire”, la percezione elementare, quasi banale, che un lavoratore poteva avere nei confronti di Rifondazione. E questa percezione di inutilità ce la siamo guadagnata con la nostra mancata incisività durante un percorso difficile in cui abbiamo scelto di essere al contempo partito di lotta e di governo.
Abbiamo alternativamente scontentato chi voleva solo la lotta e chi voleva solo il governo. E nemmeno sono stati contenti – e quindi nemmeno ci hanno considerato utili e da considerare elettoralmente – coloro che pensavano che la nostra presenza nelle istituzioni più alte fosse così decisiva da cambiare le riforme che via via venivano fatte proprio contro il mondo del lavoro.
Il liberismo si è fatto strada con i DS e con la Margherita prima e, infine, con la congiunzione dei due partiti nell’anomalia tutta italiana che si chiama tutt’ora “Partito Democratico” e che ha liquidato due culture (cattolica e socialista) per creare un ibrido politico votabile tanto dal più comunista degli ex PCI quanto dal più cattolico degli ex DC.
E’ stato evidente (almeno a noi lo era e lo è) che il PD non poteva in questi frangenti, con queste modificazioni, rappresentare il mondo del lavoro. E sicuramente non poteva farlo di più e meglio di quanto lo avessero già fatto le precedenti svolte occhettiane del PDS e dalemiane dei DS.
La liquidazione della sinistra in Italia, va sottolineato, arriva da lontano.
La coraggiosa esperienza ultraventennale di Rifondazione Comunista è servita proprio ad evitare che a sinistra venisse meno una rappresentanza del mondo del lavoro e, in questi ultimi anni, anche della vasta area del “non-lavoro”, della precarietà e del ritorno ad un regime di trattamento dei diritti sociali come dipendenti dai livelli produttivi di ogni singola impresa.
Per queste ragioni, pensare ad uno scioglimento di Rifondazione Comunista oggi vorrebbe dire abdicare alla necessità di ricostruire una rappresentanza del mondo del lavoro a sinistra e nella sinistra. In una sinistra che va ricostruita ad iniziare dalla sua cultura e dal suo proporsi come elemento culturale oltre che politico.
Non ci sono conclusioni per una analisi provvisoria, molto immediata e che meriterà aggiornamenti su aggiornamenti nelle prossime settimane. Vorrei però che rifuggissimo ogni tentazione autoconsolatoria oppure ogni frase che inducesse ad una autofustigazione permanente per scacciare da noi le peccaminosità politiche che abbiamo commesso.
Quello che ho scritto qui è quanto, a mio parere, serve per rendersi conto che non siamo sul limitare della storia della sinistra e dei comunisti. Siamo in una nuova fase, in un nuovo capitolo di esistenza e di resistenza.
Il capitalismo, con Grillo o senza, continua a fare il suo sporco lavoro di sfruttamento delle risorse naturali e umane del pianeta. E preoccupa non poco che gli alti vertici di Goldman Sachs dichiarino (come riportato oggi da “La Stampa”) che la prorompenza dei grillini in Parlamento e sulla scena politica porterà una ventata di aria nuova. Forse agli alti piani di qualche grattacielo hanno annusato l’aria che tira e si stanno preparando a parlare con Casaleggio.
MARCO SFERINI
3 marzo 2013