Noi, che non accarezziamo il pelo del lupo

Il Presidente della Repubblica ha tenuto un discorso breve nella fine d’anno: appena dieci minuti. Se ne sono meravigliati un po’ tutti. Eravamo abituati ad almeno venti minuti, a...

Il Presidente della Repubblica ha tenuto un discorso breve nella fine d’anno: appena dieci minuti. Se ne sono meravigliati un po’ tutti. Eravamo abituati ad almeno venti minuti, a volte mezz’ora. Invece Mattarella ha scelto l’essenzialità, la concisione, l’immediatezza.

Credo che questi siano i pregi di un metodo discorsivo che nel merito poi non ha sorpreso molto: la prammatica fa sempre un po’ parte di questi annunci appunto di rito alla Nazione; ed in quanto inserito in un contesto di consuetudine, un discorso che deve toccare tutti i punti salienti della politica e della socialità di un anno intero non può non avere delle cadute di attenzione su questo o su quel tema che più piacerebbe ascoltare approfondito a Tizio rispetto a Caio.

Dunque, l’approccio verso i discorsi presidenziali di fine anno dovrebbe essere sempre molto distaccato, poco interpretativo, ed invece si tende sempre a leggere tra le righe ciò che il Capo dello Stato non può dire esplicitamente ma che invece può indicare con qualche locuzione abbozzata e fatta di parole non dirette: non delle mezze verità, ma degli accenni che vengono lasciati cadere per permettere a ciascuno di trarne una sorta di terapeutico insegnamento sociale, civico e persino morale. Questo è viatico su cui si muove l’istituzionalità che deve essere formale, neutrale e garantista per dettame costituzionale.

Tuttavia, Mattarella, pur in una manciata di minuti, si è espresso molto chiaramente su temi come il lavoro: ci ha ricordato che è il più grande dramma, il problema principale della società italiana. Una affermazione quasi di principio, visto che nel sistema capitalistico il dramma del lavoro è il dramma per antonomasia, perché il lavoro vuol dire sfruttamento e non diritto, vuol dire vessazione e non affrancamento dai bisogni, vuol dire utilizzo delle capacità manuali ed intellettuali altrui da parte di un padrone singolo o collettivo (investitori, consigli di amministrazione, amministratori delegati, tutti corifei al servizio del padrone) per trarne il massimo profitto nella più spietata arena della concorrenza.

Dire che il lavoro è il problema dei problemi è certamente un riconoscimento nobile di una situazione che rende l’Italia uno dei paesi europei all’ultimo posto per tutela dei diritti sociali, per formazione di brevetti, per valorizzazione delle eccellenze non solo manuali ma soprattutto intellettive, ma, alla fine della fiera, è una banalità se non si circostanzia un attimo il motivo per cui il lavoro è mortificato e i lavoratori costretti a piegare le loro capacità di laureati alla costrizione massima di una non-scelta di impiego che li porta a sedere in un molto teatrale casermone fatto di mille computer, di altrettante cuffiette, tastiere e mouse per proporre contratti telefonici, del gas, dell’elettricità…

Ma i discorsi presidenziali non possono essere analisi politiche, tanto meno possono essere analisi cattedratiche che un uomo di cultura come Sergio Mattarella potrebbe benissimo fare.

Un altro punto che ha toccato la vita giovanile è stato il paragone con gli storicamente celebri “Ragazzi del ’99”. Chissà quanti concittadini hanno compreso immediatamente che si trattava dei giovani italiani nati nel 1899 e massacrati nella Prima guerra mondiale piuttosto che dei loro figli nati nel 1999…

Ma anche a questi il Capo dello Stato si è riferito, con un appello giusto e sacrosanto: andate a votare, esercitate un diritto conquistato con quella Costituzione che compie proprio 70 anni quest’anno, poiché è entrata in vigore il 1° gennaio del 1948.
Chissà quanti italiani sanno che quello che Mattarella ha opportunamente definito “il periodo di pace più lungo che abbiamo vissuto” risale alla fine della Seconda guerra mondiale e che in Italia è stato mantenuto tale anche grazie all’apporto della Costituzione.

Soltanto un anno fa qualcuno tentava di stravolgerla completamente ma veniva respinto anche dai nuovi “ragazzi del ’99”, anzi del ’98…, e veniva ricacciata indietro la volontà di creare una repubblica dove il Parlamento sarebbe stato alle complete dipendenze del potere esecutivo, del governo.

I “Ragazzi del ’99“, quelli del Piave, del Carso, della “vittoria mutilata“, sono stati portati ad esempio come alto valore morale espresso nel massimo sacrificio: dare la vita per la Patria. Del resto l’inno di Mameli lo proclama (povero Mameli…) ad ogni cantata: “Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, sì!“.

Una retorica spaventosa, che non ha il benché minimo valore di coesione sociale nell’unità nazionale, ma solo il riconoscimento nazionalista che si rifà il più delle volte alla pagina dittatoriale del ventennio fascista, dell’esaltazione maschilista, muscolare e tenace dell’italica gens, di un rifacimento ai fasti di Roma imperiale che solo un regime naturalmente ottuso come quello di Mussolini poteva osare portare a paragone con le proprie eroiche imprese di morte in Africa e poi in gran parte d’Europa.

Ma i ragazzi di oggi, quelli del 1999, fanno invece molta fatica a comprendere dove vivono, perché si trovano a dover immaginare il futuro invece che a scorgerne le linee di direzione dettate da un percorso di vita quanto meno distinguibile dai primi momenti dell’istruzione pubblica fino alla pubblicazione della tesi di laurea. La debolezza del sistema borghese, il suo indolente e placido cullarsi nella ingenerosità della crisi economica, connaturata nel sistema, hanno reso fragili le fondamenta democratiche ed egualitarie istituite dalla Costituzione e dalla fondazione della Repubblica.

In questa fragilità si è insinuato il pericolo di una nuova rivincita dei disvalori di una destra che trova sfogo libero er il suo odio grazie all’abdicazione da parte della sinistra moderata del suo ruolo socialdemocratico. Aver accarezzato per decenni il pelo del lupo del mercato porta i suoi effetti oggi: il lupo perderà anche il pelo, ma il vizio gli rimane ed è sempre pronto a farsi carezzare da chiunque se ne stia bravo accanto a lui, da chiunque lo tema mostrandosi suo servo fedele.

E così, ogni coscienza critica e sociale, ogni coscienza di classe, ogni percezione della condizione salariata, di disperazione costante, invece che diventare lotta organizzata ed essere e sentirsi rappresentata da una forza politica comunista, di alternativa sociale, si è mutata in rabbia contro la politica, contro la “casta“, contro le istituzioni e nella disaffezione che proprio quei giovani del 1999 ora avvertono e dichiarano affermando che non andranno a votare a marzo. Pare, secondo gli istituti eminenti di statistica, che siano ben sette su dieci. Il 70 per cento dei diciottenni italiani quindi diserterà le urne.

Il compito che abbiamo davanti è difficilissimo, perché noi comunisti dobbiamo ancora una volta lavorare per intercettare l’insoddisfazione e riconvertirla in una percezione reale del problema di classe, facendo comprendere ai poveri che sono poveri e che nella povertà non c’è disonore e vergogna ma che, semmai, proprio la condizione dello sfruttamento ci mette tutte e tutti nel solco di una ritrovata condivisione di valori che si erano dispersi e nella rivendicazione di diritti che sono stati, nel tempo, accomunati ai privilegi e quindi tolti di mezzo con la “modernità” delle riforme di struttura in nome della libertà di impresa, di mercato, di investimento.

Il nuovo anno ci mette davanti la prova delle elezioni politiche, ce la sbatte in faccia senza troppi infingimenti: Potere al Popolo!, la lista che stiamo costruendo come quinta opzione, come elemento di aggregazione alternativa tanto alle destre quanto al PD e ad una certa sinistra che ripropone l’antifona del centrosinistra, deve poter trovare lo spazio dell’azione e quindi deve poter essere rappresentata da noi in tutti i territori possibili. Sapendo bene che ogni nostro sforzo sarà sovrastato dalla martellante campagna mediatica che privilegerà il confronto tra i quattro poli “più importanti” e oscurerà completamente noi.

Facciamone un elemento di orgoglio e di forza, di rabbia e di pervicacia nel dimostrare che l’oscuramento non è solamente un dettame dei tempi televisivi bensì una precisa ragione politica, un comportamento non deontologico ma pur sempre una direttiva generale acquisita da chi deve evitare di mostrare alla gente posizioni che sono la critica sociale, comunista, antiliberista e, quindi, il disvelamento di una semplicità che sarebbe sotto gli occhi di tutti ma che non può essere mostrata da chi, ovviamente, vive beatamente in questo sistema e, pertanto, non ha alcun interesse economico, quindi politico, a far sì che qualcuno si accorga dell’inganno.

La ribellione è possibile e la sfida è accettabile. Noi l’abbiamo accettata, con tutte le sue lacune e deficienze e, per questo, la porteremo avanti prima, durante e dopo il voto. Buon anno a tutte e tutti voi!

MARCO SFERINI

foto tratta da Pixabay

categorie
Marco Sferini

altri articoli