No alla guerra, per un mondo nuovo. Intervista a Dmitrij Palagi

Verso il dodicesimo congresso di Rifondazione Comunista
Dmitrij Palagi

Un congresso è il momento più alto nella vita di un partito, dove si confrontano, e talvolta si scontrano, visioni e pratiche politiche diverse. In queste settimane le iscritte e gli iscritti a Rifondazione Comunista sono chiamati ad esprimersi tra due documenti. Il primo, “Fuori la guerra dalla storia”, vede tra i principali sostenitori Stefano Galieni coordinatore della segreteria nazionale e uno dei due coordinatori del WG Migration della Sinistra Europea, il secondo, “No alla guerra, per un mondo nuovo”, ha tra i maggiori rappresentanti DMITRIJ PALAGI della segreteria nazionale nonché Consigliere comunale a Firenze. Galieni e Palagi accettano di incontrarsi, per una volta virtualmente, sulle pagine de La sinistra quotidiana, rispondendo alle stesse domande.

L’Italia è passata dall’avere il Partito Comunista più grande dell’Occidente ad una manciata di piccoli partiti che assieme non raggiungono l’1%. La dico male: cosa è andato storto?

Ha vinto quella parte del gruppo dirigente del PCI che ha voluto sciogliere la più grande organizzazione comunista dell’Occidente, per inseguire un percorso liberale moderato, distruggendo il sistema proporzionale. L’illusione della fine della storia ha minato la capacità di pensare al futuro. Il neoliberismo si è appropriato del mito di progresso, per poi farlo schiantare di fronte alle sue contraddizioni, tra devastazioni climatiche, guerre e aumento delle diseguaglianze. A questo si aggiunge un sentimento di nostalgia che ci impedisce di immaginare ciò che vorremmo e che potrebbe rispondere ai nostri bisogni. Serie televisive e musica investono molto sugli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, con un’operazione culturale che legittima l’idea della politica ormai svuotata di potere, in cui la società è altro rispetto alle istituzioni. La forza di un “vaffanculo” è potente proprio per questa estraneità tra popolo e palazzo. Abbiamo contribuito a questo, senza riuscire ad aggiornare un’analisi sul potere, mentre scientemente il sistema sostituisce questa categoria con quella del governo. Le comunità sono spesso rifugi, non banchine da cui salpare per il sole dell’avvenire. La solitudine non si traduce in domanda di cambiamento, anche perché viene dato per scontato che le cose domani andranno peggio di oggi, per non parlare dei “bei tempi andati”. Lo sguardo di decolonizzazione ci ha però insegnato che anche i “trenta gloriosi” hanno avuto un costo enorme per popolazioni che oggi si affacciano in un mondo che dobbiamo confidare diventi sempre più multipolare.

Alle comuniste e ai comunisti in Italia le cose sono andate storte, ma in generale direi che il mondo è cambiato e il contesto offre sempre opportunità, per agire su vecchie e nuove contraddizioni. Scrollarsi di dosso il senso di sconfitta e avere consapevolezza che c’è un problema più profondo del consenso elettorale è imprescindibile. Anche perché la storia va comunque avanti, con o senza di noi. Senza di noi va avanti peggio, si tratta di dimostrarlo a chi ne pagherebbe le conseguenze.

Rifondazione ha sostenuto direttamente il secondo Governo Prodi, da allora ha cambiato tante liste (solo per citare le elezioni politiche: La sinistra, l’Arcobaleno, Rivoluzione Civile, Potere al Popolo, Unione Popolare), ma non è più tornata in Parlamento. È stata quell’unica, e peraltro breve, parentesi governativa a segnare le sorti del PRC?

Non l’unica, ma è stata certamente fondamentale nel determinare tante delle nostre difficoltà di oggi. Dopo il sangue di Genova 2001 abbiamo proposto un’idea di permeabilità dei palazzi ai movimenti, in una fase in cui il centrosinistra gestiva la globalizzazione del nuovo millennio, perdendo però sempre più sovranità, in modo subalterno rispetto all’egemonia dell’individualismo neoliberista. Anziché costruire un sistema di conflitti capaci di esprimersi e ottenere risultati, abbiamo alimentato l’illusione della scorciatoia elettorale. Non è con un Ministero che ci si garantisce di poter incidere. Non è stata l’unica volta che abbiamo governato, ma è quella che ha segnato conseguenze peggiori. Quando diamo i volantini ci sono due reazioni molto diffuse. C’è chi ci chiede “ci siete ancora?” e chi ci rinfaccia o non ci perdona quel secondo Governo Prodi. Il Movimento 5 Stelle invece ha potuto presentarsi come forza antisistema indisponibile a qualsiasi alleanza, governare con la Lega e poi essere una delle gambe del fronte progressista. Perché? Perché si muove su un piano politico diverso, dove la comunicazione conta più della trasformazione della società, senza infatti ormai rappresentare più un argine al forte astensionismo che ha segnato anche le ultime regionali. Per noi il problema è diverso, se non ci vogliamo ridurre a essere un comitato elettorale. Alle persone interessa più come pagare le bollette che l’esito di un voto, dobbiamo dimostrare l’utilità delle nostre azioni e costruire insieme a loro le proposte: il consenso elettorale è conseguente al consenso sociale, alla costruzione di un senso delle nostre prospettive. In questi primi congressi chi sostiene il documento 1 ha chiaramente detto che il problema è la linea politica scelta nel 2008, invece per noi è necessario riconoscere che i problemi principali sono stati l’insufficiente cura del Partito e aver concentrato la questione dell’alternativa sul piano strettamente politico-elettorale. Guardandoci intorno, anche all’ex GKN di Campi Bisenzio, troveremo facilmente chi dopo il 2008 ha lasciato il Partito perché non riteneva la nostra azione sufficientemente conseguente rispetto all’indicazione di ripartire “in basso a sinistra”. Il problema è non aver fatto abbastanza e non aver creduto fino in fondo in una rigenerazione nelle pratiche e nelle ragioni d’essere di Rifondazione. Dare la colpa alla linea politica è un modo per cercare scorciatoie e non voler affrontare i problemi che è invece necessario affrontare.

Il congresso si svolge in un clima di guerra, la “terza guerra mondiale a tappe” come l’ha definita Papa Francesco. Ucraina, Russia, Palestina, Libano, Siria, per non parlare delle ignorate guerre in Sud Sudan e in Centrafrica. Secondo te perché non si sviluppa in Europa, e in Italia in particolare, un forte movimento pacifista? Sembra che l’unica contrarietà alla guerra, in particolare sul fronte ucraino, provenga da destra.

I movimenti per la pace esistono e non provengono da destra. Organizzazioni sindacali, ANPI, ARCI e tante altre realtà hanno riempito le piazze in più occasioni. Certo, il quadro si è fatto più complesso. Tra il 2010 e il 2020 si sono registrate tantissime mobilitazioni, che partivano da istanze di sinistra. Alcune hanno determinato situazioni opposte a quelle per cui erano partite, basta pensare al Brasile o alla Tunisia. Nella crisi del potere l’alternativa è stata proposta dalle destre reazionarie e fasciste, sempre pronte a proporre i propri quadri dirigenti a favore della difesa degli interessi del capitale. Il tema della pace si è declinato troppo sul piano morale. Il ripudio antropologico deve basarsi sulla consapevolezza che le vittime innocenti hanno il sangue dello stesso colore, a prescindere dalla lingua che parlano. Le destre non sono contrarie alla guerra. Sono a favore di una sorta di alleanza feudale tra grandi signori, occidentali e possibilmente bianchi (oltre che maschi). Trump propone una più equa distribuzione dei costi della NATO, trovando il favore di chi si immagina a trarre consenso da nuove pulsioni belliciste costruite su sentimenti di paura. In assenza di prospettive politiche di chiara alternativa, domina la confusione. Il centrosinistra su questo ha un’ambiguità enorme e noi, come il Movimento 5 Stelle o altre realtà, non abbiamo ancora saputo svolgere un compito all’altezza di questa fondamentale sfida storica. La società può esprimere una contrarietà alla guerra, ma senza alternativa mancano gli obiettivi. Per questo è importante il multipolarismo solidale di cui scriviamo nel documento. Può aumentare le contraddizioni del capitalismo senza vedere scoppiare definitivamente la terza guerra mondiale. Mentre in Italia ci sono persone che rinunciano a curarsi, peggiora la qualità della vita, si mettono a rischio la nostra salute e la nostra stessa sopravvivenza, questo Governo trova i soldi per spendere più in armi. Imponiamo un ribaltamento di priorità, fuori da ogni campismo e senza immaginare che ci sia semplicemente uno scontro tra imperialismi. La geopolitica e l’economia non spiegano tutto. Altrimenti non servirebbe la politica. Ci sono poi le menzogne sistematiche, da quelle di Bush jr. su Afghanistan e Iraq, passando per quelle sulla contendibilità della Crimea.

Se fossi stato un elettore statunitense per chi avresti votato?

La domanda ricorda quelle che si fanno per le elezioni comunali, in cui ci chiedono cosa faremmo “in caso di ballottaggio” tra PD e destre. In questo caso bisogna partire dal contesto. Sono una persona di pelle bianca, eterosessuale, nata nella parte del mondo più ricca. A che titolo potrei avere dubbi, rispetto a un Partito Repubblicano che sul piano della politica interna aumenta discriminazioni e odio? Trovo inconcepibile l’ipotesi di votare Trump, ma al tempo stesso sono consapevole di quanto il Partito Democratico sia distante dalla mia idea di politica. Elly Schlein ha fatto la volontaria durante la campagna di Obama? Io non ho mai pensato che Obama rappresentasse una svolta, come la Libia ci ricorda (tra i tanti esempi che si possono fare). Hollywood rende interessante appassionarsi a certe dinamiche (da House Of Card a West Wing), ma l’esclusione di parti importanti di elettorato negli USA dovrebbe interrogarci sugli spazi della militanza negli Stati Uniti, dove alcune dinastie sono costantemente al potere. Per decolonizzare l’immaginario dobbiamo guardare a luoghi in cui la sfida del potere si articola in modo più profondo, come l’America del Sud.

Oggi in Italia governa Giorgia Meloni e più di un nostalgico fascista. Gli episodi di “rigurgiti”, più o meno espliciti, sono quotidiani. Come si risponde alla richiesta di “unità antifascista” che proviene da larga parte di quello che era l’elettorato di Rifondazione?

Praticando l’unità sui temi e con efficacia nella costruzione di un radicamento sociale capace di togliere ossigeno alle destre, che non può prescindere da una collocazione chiara come forza di alternativa. Chi si astiene non chiede unità antifascista. C’è una paura fondata sulla deriva delle democrazie occidentali, che però sono già in discussione, nel momento in cui le agenzie finanziarie possono decidere se un esito elettorale è accettabile o meno. Non serve essere l’ennesima sfumatura di rosso di uno stesso orizzonte. L’antifascismo è, o era, patrimonio anche di liberali e democristiani, ma non per questo si deve governare insieme. La nostra ragione di esistere nella società può essere l’efficace contributo a una lotta che non è per fortuna una nostra esclusiva. C’è stata una fase in cui antifascismo militante e istituzionale si contrapponevano, oggi rischiamo che entrambi si esauriscano in una debolezza inevitabile con la perdita dei testimoni diretti della Resistenza. Dobbiamo anche far sparire l’idea che cantare Faccetta Nera, o inneggiare a braccio teso, sia una provocazione al potere. Nelle scuole purtroppo capita, perché il corpo docente è ritenuto “tutto di sinistra”. Alcune date e mobilitazioni non devono essere vuota ritualità. Le limitazioni della libertà di manifestare il 25 aprile, per paura dell’antisemitismo ci chiariscono molto bene quali sono i rischi a cui andiamo incontro. Se ricordare la Shoah diventa senza significato per le nuove generazioni, magari provenienti da comunità arabe, non riusciamo a contrastare l’antisemitismo. Portare i nostri contenuti rafforza le mobilitazioni e l’unità si pratica proprio nel riconoscere le pluralità.

Elettoralmente sembra che fuori da una coalizione non ci sia spazio e dentro quello spazio, magari male, è già stato occupato. Come conquistarlo col PD più a sinistra dalla sua fondazione, il M5S entrato nella Sinistra Europea, i buoni risultati di Alleanza Verdi Sinistra e Potere al Popolo che, all’interno di numeri modestissimi, sembra più attrattiva nei confronti delle generazioni più giovani?

Il sinistrometro non serve a nulla. Come chi dà le patenti di comunismo. La politica non attrae e c’è uno spazio enorme nella società per ricostruire le ragioni di un’alternativa, di fronte al partito unico della guerra. Se anche rifacessero una sorta di Democratici di Sinistra del XXI secolo, quello non sarebbe il nostro spazio. Pensare che la democrazia si fondi sull’alternanza del bipolarismo uccide ogni possibilità di alternativa. I risultati elettorali di oggi vanno letti in numeri assoluti, non in percentuali. Anche le culture politiche devono tenere conto che siamo a un quarto nel primo secolo del nuovo millennio. Alleanza Verdi Sinistra ha avuto la capacità di tenere in piedi un simbolo anche commissariando ed allontanando una parte del suo corpo militante. Un cinismo lecito in politica, che guarda solo alle elezioni e offre strumenti a singole individualità che poi ritroviamo nelle lotte che anche noi sosteniamo. Se Rifondazione non torna a svolgere una funzione all’altezza del suo compito, continuerà a non esserci spazio nell’alternativa tra momento elettorale e pratiche sociali, come se fossero due cose distinte. L’attrazione parte dalla chiarezza del progetto, dall’essere un luogo in cui sii sperimentano pratiche da verificare puntualmente, con campagne e verificare del radicamento sociale.

Oltre alle cose emerse in questa intervista, quale è un punto qualificante del documento congressuale che sostieni?

La capacità di comprendere che la comunicazione non si esaurisce in qualche circolare organizzativa. La linea politica deve svilupparsi sapendo quanto pericoloso sia il potere, quanto il capitalismo sia in grado di assorbire le critiche che gli vengono mosse, superando le contraddizioni a scapito delle persone e del pianeta, ma sapendo rimanere sempre in piedi. L’attenzione posta al Partito parte dalla consapevolezza che su questo abbiamo mancato di costruire strumenti adeguati alla linea politica che avevamo scelto. Come scriviamo nel documento, occorre far funzionare testa e gambe, ma anche la voce.

È ancora attuale il comunismo?

Sono ancora attuali Platone, Aristotele e Seneca. Darei qualche secolo di possibilità in più anche a Marx, anche se non è corretto assimilarlo ai filosofi, “che hanno interpretato il mondo”, mentre si rendere necessario agire per cambiarlo. Fino a che ci sarà una persona oppressa, allora avrà senso l’aspirazione di liberazione che è l’essenza del comunismo, come superamento in positivo di un capitalismo che sta devastando il pianeta in cui viviamo. Pensare poi che i testi del passato siano una sorta di libro sacro, in cui è stato predetto l’avvento del sole dell’avvenire, o in cui è scritto come si organizza la rivoluzione nel 2025, sarebbe fare un torto alla storia delle lotte che ci hanno consegnato i tanti passi in avanti di cui godiamo.

Ultimamente scrivo più di cinema che di politica e mi piacerebbe chiudere con una domanda che non c’entra nulla col Congresso di Rifondazione. Film preferito?

Spero di doverlo ancora vedere, perché non è il passato il posto migliore in cui vivere. Heat – La sfida è stato il primo “film preferito”, fino a Million Dollar Baby. Però non vedo l’ora di uscire da una sala cinematografica con una risposta nuova, che non cancella quelle precedenti.

MARCO RAVERA

redazionale

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