«News from Natoland», l’avanzata verso il disastro

Atto d'imperio. Qual è la realtà sul ruolo dell’Alleanza atlantica a guida statunitense nella crisi ucraina?

Di seguito pubblichiamo un intervento di Tariq Ali – «News from Natoland» – uscito su “Sidecar”, il blog della “New Left Review”, editato dall’autore per “il manifesto”.
L’analisi è precedente al riconoscimento da parte di Putin dell’indipendenza di Donetsk e Lugansk, e prende in esame proprio il ruolo nella crisi della Nato e della propaganda mediatica. Ma anche le voci che si oppongono alla narrativa dominante.

Dal 3 dicembre 2021, quando il Washington Post ha dato la notizia – basata su qualche foto aerea di tende in un campo e altri scampoli di intelligence statunitense utilmente selezionati – il mondo anglofono è stato sottoposto a una campagna mediatica fortemente orchestrata, che strombazza a tutto volume la «imponente» e «imminente» invasione russa dell’Ucraina. In assenza di notizie vere e proprie da riportare, vengono puntualmente tirati fuori ufficiali senza nome della difesa statunitense per fare dichiarazioni, e a figure della Nato e della Ue (Stoltenberg, Borrell) viene richiesto di colmare le lacune.

Titoli di prima pagina che insistono ogni giorno sulla minaccia della guerra vengono supportati da un leale coro di opinionisti, sorprendentemente unanimi nei loro giudizi.

Sotto traccia, si era già rivelato lo scopo principale dell’amministrazione Biden. Gli ufficiali americani stavano «spingendo i paesi europei» a «elaborare una ricetta comune» contro la Russia, come aveva annunciato tre settimane prima un articolo del New York Times altamente debitore alle informazioni della sicurezza statunitense.

A Londra, la stampa mainstream si è buttata sulla notizia, con il Financial Times in prima linea che eccedeva affidabilmente perfino i falchi di Washington, seguito a ruota dall’Economist. Anche la London Review of Books si è sentita in dovere di unirsi al coro con un pezzo particolarmente aggressivo, il cui autore era evidentemente inconsapevole del fatto che è stata la Georgia, e non la Russia, a invadere l’Ossezia del Sud nel 2008.

Quali sono i cliché offerti dai guerrafondai? In primo luogo, che Putin è la fonte unilaterale dell’aggressione, e che all’improvviso sta mobilitando una vasta forza d’invasione per un’azione «imminente». Secondo: l’espansione della Nato non è negoziabile. Terzo: nell’«ordine internazionale fondato su regole» (da leggersi: guidato dagli Usa) non è ammissibile che i confini vengano ridisegnati con la forza. Infine, che la sovranità nazionale deve restare inviolata; l’Ucraina deve poter determinare la propria politica estera. Ma qual è la realtà?

Innanzitutto, lungi dall’essere unilaterali, le forze mobilitate dalla Russia sono le medesime attivate la scorsa primavera in risposta a “Defender Europe”, l’esercitazione di due mesi della Nato che ha coinvolto 28.000 soldati americani ed europei lungo i confini della Russia, spalleggiati da un’operazione navale anglo-statunitense nel Mar Nero di ostentata aggressività. La contro mobilitazione russa dal proprio lato del confine era, come riconosciuto dagli Stati uniti all’epoca, una «procedura operativa standard».

Mosca si è inoltre allarmata quando l’amministrazione Biden ha strizzato l’occhio alle operazioni di guerra condotte con droni dall’Ucraina nel Donbass nell’ottobre 2021, anche se le armi aeree sono strettamente proibite dagli Accordi di Minsk – e anche se i letali effetti di escalation sortiti dai droni erano stati resi evidenti dalla guerra del 2020 dell’Azerbaijan nel Nagorno Karabakh.

L’amministrazione Biden aveva inoltre intensificato le esercitazioni della Nato nella stessa Ucraina – ne è un esempio quella dell’estate 2021 al confine fra Odessa e Crimea: “Cossack Mace”.

In termini militari e da una prospettiva più vasta, sono le forze Nato a essersi messe sull’offensiva, avanzando per quasi 1300 km a est negli ultimi trent’anni, penetrando in profondità oltre i confini dell’ex Unione Sovietica, e ora nel cuore delle zone di lingua russa. La risposta del Cremlino è stata inizialmente ingenua e troppo lenta dato che sia Eltsin che Putin erano desiderosi di credere alle rassicurazioni statunitensi, e poi – dopo la spinta diplomatica di Bush e Blair nel 2008 per espandere la Nato in Ucraina e Georgia – spesso inadeguata e maldestra nel formulare una risposta più risoluta.

Ma l’espansione della Nato – che ha subordinato al comando militare statunitense il cuore dell’Europa capitalisticamente avanzata – è una strategia imperialista deliberata, non una questione di difesa nazionale. Il militarismo liberal-internazionale di Washington – dividendo il mondo in stati “buoni” e “cattivi”, e invocando un cambio di regime in questi ultimi – è una ricetta per la guerra, come ha osservato Stephen Walt.

Il grido unanime dei commentatori – «nessuna sfera d’influenza per la Russia!» – omette che questo è dovuto al fatto che gli Usa presumono di comandare la sfera globale. Laddove sono implicati gli interessi statunitensi, ridisegnare i confini con la forza non è un problema – è il caso del via libera all’occupazione turca del nord della Siria, per non parlare di Cipro, o di quella di Israele nel sud del Libano e nelle alture del Golan, o del protettorato di fatto di Stati uniti e Israele nell’Iraq settentrionale.

Conseguentemente, all’interno dell’«ordine fondato su regole», la sovranità nazionale è a piacere di Washington. Il linguaggio adottato da funzionari come Victoria Nuland, mentre seleziona il nuovo primo ministro ucraino dopo il rovesciamento del filo russo Yanukovich nel 2014, la dice lunga sulla realtà dei fatti.

Nell’isteria generale, dovremmo essere grati di posizioni anche solo leggermente dissidenti. Oltre a Walt, Simon Jenkins mette in guardia dal fatto che il trattamento della Russia da parte della Nato è virtualmente una garanzia di un riflesso sciovinista. Come Anatol Lieven, Jenkins sostiene che l’unico modo per procedere sia l’implementazione degli Accordi di Minsk – ampiamente bloccati dalle obiezioni di Kiev allo status speciale per il Donbass – oltre alla fine dell’espansionismo della Nato, il ritiro russo e il ripristino dei confini ucraini.
Opponendosi alle narrative di un’aggressione unilaterale russa, Adam Tooze amplia l’analisi che aveva sviluppato in Crashed.

Facendo l’anatomia delle realtà all’interno della “sfera d’influenza”, Peter Beinart auspica un riconoscimento del fatto che l’Ucraina resterà uno stato cuscinetto. Rajan Menon e Thomas Graham hanno proposto una moratoria di 20-25 anni sull’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Robert Kaplan invoca la “finlandizzazione”. Ross Douthat si interroga su come l’amministrazione Biden potrebbe condurre una ritirata di successo.

Più analiticamente, David Hendrickson ha evidenziato l’approccio «super-aggressivo ma al contempo super-cauto» dell’amministrazione Biden, che segue il copione di Anders Aslund e di altri all’intransigente Consiglio Atlantico per «ripristinare il rispetto di Mosca per l’ordine internazionale fondato su regole» – ulteriore militarizzazione della regione da parte della Nato, progressiva integrazione dell’Ucraina nei confini esterni dell’Alleanza, ridiscussione dello status di Donbass e Crimea e fine di Nord Stream 2 – con un’attenzione speciale per l’Ucraina «sin dal principio», come hanno detto degli ufficiali di Biden, evitando al contempo, sotto pressione dei falchi cinesi, un impegno su vasta scala delle forze statunitensi. Questo ha significato equipaggiare gli alleati del Vecchio Mondo per l’azione.

Se i media britannici sono stati i più accaniti d’Europa, i politici del Regno unito non sono stati da meno. La propaganda guerrafondaia di Boris Johnson – e il convinto sostegno datole dal leader laburista Keir Starmer – è stata analizzata da Oliver Eagleton.

Ora Starmer si è lanciato in un attacco al movimento per la pace del Regno unito, Stop the War – uno dei pochi gruppi impegnati contro l’attuale escalation – e ha assicurato ai lettori del Guardian che «la fedeltà del partito laburista alla Nato è incrollabile», come se i vergognosi precedenti durante la Guerra Fredda o nell’epoca Blair dessero adito a dubbio alcuno.

I milioni di persone che nel 2003 hanno manifestato in Europa e negli Stati uniti contro l’imminente invasione dell’Iraq non erano sostenitori di Saddam, il cui regime autoritario era stato alimentato, coltivato e armato per molti decenni dagli Stati uniti e i loro alleati nella Nato.

Prevedevano giustamente la carneficina e la distruzione che Bush e Blair avrebbero inflitto al Medio Oriente, e si battevano per fermarle. E non dimentichiamoci del sostegno dato dai membri della Nato ai torturatori reali e agli assassini al potere oggi in Arabia Saudita e in Marocco, che hanno gettato lo Yemen in un bagno di sangue. Se la demagogia moralista è la base della guerra, perché gli spacconi di Londra non sono rimasti in Afghanistan?

E ricordiamoci anche qualche altro evento. Chi ha supportato l’aggressione omicida di Putin in Cecenia nel 1999-2000, ed è stato a guardare felice mentre la capitale Grozny veniva rasa al suolo? Clinton e Blair – quest’ultimo arrivando in gran fretta a Mosca per essere il primo a congratularsi con Putin per la sua successiva vittoria alle elezioni – mentre gli altri membri della Nato stavano a guardare.

La Russia all’epoca era considerata una fedele subordinata, dato che sosteneva l’Occidente nella maggior parte delle questioni – non ultima l’apertura delle proprie basi per dare manforte all’occupazione Nato dell’Afghanistan. La raffinata analisi di Tony Wood sulla New Left Review ricostruisce per filo e per segno il ruolo di Putin nella tragedia cecena, così come la collusione dei membri della Nato dell’epoca.

A essere cambiato è il fatto che l’espansionismo con il pilota automatico della Nato l’ha messa sulla rotta per inghiottire Ucraina e Georgia, cosa che la raison d’état russa è tenuta a opporre.

Al contempo, la goffa risposta militare russa potrebbe aver contribuito a vanificare il principale punto di forza che aveva in Ucraina: l’amicizia di metà della popolazione di lingua russa o filo russa. Nel 2008, quando Bush e Blair si facevano araldi della politica della “porta aperta” della Nato per l’Ucraina e la Georgia al summit di Bucarest, appena il 20% degli ucraini era in favore dell’ingresso nella Nato.

La maggioranza era divisa fra il sostegno a un’alleanza militare con la Russia e il mantenimento dello status neutrale sancito dalla Costituzione ucraina del 1990 (alterata dal governo Zelensky nel 2019 per fissare gli obiettivi dell’ingresso in Europa e nella Nato).

Nel 2014, dopo la sollevazione di Maidan, l’annessione russa della Crimea e la guerra a bassa intensità in corso nella regione del Donbass, il supporto per la Nato era salito al 40%, ma un altro 40% di ucraini era ancora contrario. (I sondaggisti ucraini a questo punto escludevano le popolose regioni di Donbass e Crimea, cosa che ha influenzato le statistiche).

Nelle regioni occidentali – più integrate nei network economici europei a causa dei lavoratori migranti in Polonia – c’è ora una maggioranza in favore dell’ingresso nella Nato. Ma come ha scritto Volodymyr Ishchenko, molti ucraini pensano che entrare nell’Alleanza eroderebbe ancora di più la sovranità del Paese, incrementando al contempo le tensioni con la Russia e le divisioni interne fra ucraini, e trascinando il Paese in un’altra delle “guerre infinite” statunitensi – una delle quali si è appena conclusa con un’umiliante sconfitta.

I mastini da guerra dei media occidentali si congratulano con se stessi del fatto che, se non altro, la loro offensiva propagandistica ha unito la Nato. Non è proprio così. Gli implacabili riflettori sulla crisi delle ultime 12 settimane hanno anche messo in evidenza le sue crepe.

Il capo della marina tedesca, l’ammiraglio Kay-Achim Schönbach, è stato costretto alle dimissioni dopo aver detto, a un think tank militare a New Delhi, che Putin non vuole altro che un po’ di rispetto: «Dio mio, dategli rispetto! Costa così poco, praticamente nulla. Sarebbe semplice dargli il rispetto che desidera e che merita. La Russia è un paese importante, antico. Perfino noi, l’India, la Germania, abbiamo bisogno della Russia. Ne abbiamo bisogno contro la Cina».

La risposta di Berlino è stata immediata. La nuova ministra della Difesa, Christine Lambrecht, una socialdemocratica sul genere di Starmer, ha spogliato immediatamente Schönbach di ogni compito e titolo. In modo imbarazzante, tuttavia, un alto ufficiale in pensione delle forze armate tedesche ed ex presidente del comitato militare Nato, il generale Harald Kujat, ha subito dopo rilasciato un’intervista televisiva (rapidamente scomparsa online): «Se fossi ancora in carica avrei preso le parti dell’ammiraglio Schönbach, e avrei cercato in ogni modo di impedire la sua rimozione…

Dev’essere nel nostro interesse ottenere risultati pratici, lavorare a una de-escalation e giungere a un rilassamento delle tensioni con la Russia, tenendo ovviamente in considerazione gli interessi della sicurezza ucraina». Perfino dentro il mondo della Nato ci sono differenze: Johnson-Starmer predicano la guerra, molti tedeschi sono in favore del dibattito. Le élite italiane temono che ulteriori sanzioni contro la Russia potrebbero danneggiare l’economia. È il caos. Sarebbe meglio per gli europei smettere di avanzare, come sonnambuli, verso un nuovo disastro.

TARIQ ALI

da il manifesto.it

Traduzione di Giovanna Branca

categorie
Guerre e pace

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