Netanyahu, la forza e la spada: il piano espansionista continua…

Itama Ben-Gvir applaude. La considera una “azione morale“, forse l’unica possibile per rimettere le cose a posto. A lui quella tregua con Hamas proprio non era mai andata giù;...

Itama Ben-Gvir applaude. La considera una “azione morale“, forse l’unica possibile per rimettere le cose a posto. A lui quella tregua con Hamas proprio non era mai andata giù; tanto da farlo dimettere dal sanguinario gabinetto di guerra di Netanyahu che non è certo un moderato nella lotta imperialista e suprematista del sionismo contro il popolo palestinese, per l’affermazione del Grande Israele. Adesso la destra israeliana, che più destra non si può, ha i suoi oltre quattrocento morti su cui ballare la macabra danza di un orrore senza fine.

Il piano di Trump, di fare della Striscia di Gaza un enorme resort di gran lusso, è sempre lì. Ben-Gvir si spertica le mani in applausi. Lo dichiara a pienissimi polmoni, col tono mascellarmente muscolare di sempre: Hamas deve essere distrutto. Delenda est. Con ancora più ferocia rispetto all’anatema catoniano nei confronti della civiltà cartaginese. Guai a vinti, nessuno deve sopravvivere o rimanere in un luogo in cui s’è deciso di fare tabula rasa della popolazione e della sua storia. Così corpi, menti, visibile e invisibile si intrecciano e aleggiano tra tanti, troppi mancati sensi di colpa.

Dell’Occidente anzitutto. Che rimane a guardare nel migliore dei casi, che fomenta (caso mai ve ne fosse bisogno) il governo di Netanyahu ad andare avanti, a proseguire nella devastazione totale di quella porzioncina di terra chiusa da ogni lato, reclusa in sé stessa, prigione a cielo aperto ad ogni bombardamento su scuole, case, campi profughi. Non c’è un centimetro quadrato di spazio in cui si possa anelare ad una timida sicurezza per sé stessi e per i propri cari. L’ONU – la tanto anatemizzata e maledetta dai sionisti modernissimi dell’oggi – stima che siano un milione i bimbi palestinesi che – letteralmente – cercano di sopravvivere.

Chi difende la politica israeliana e il diritto dello Stato ebraico ad esistere deve fare una scelta: o difende un Israele altro da Netanyahu e da questi criminali contro l’umanità, oppure si rende oggettivamente anche solo mentalmente ed istintivamente complice di un regime del terrore che gareggia con i più esperti signori dell’attentatismo a buon mercato. La tregua, pertanto, finisce qui. Restano nelle mani di Hamas una sessantina di ostaggi. Le fonti bene informate dicono, però, che quelli ancora in vita sarebbero meno di trenta. Il “Families Forum” scongiura il premier israeliano di non riprendere le ostilità. Troppo tardi.

Così come Netanyahu non si riferisce più a nessun parametro costituzionale quando tratta temi legati alla giustizia interna al suo paese (e che lo riguardano in prima persona… vedasi il “Qatargate” che giornalisticamente è stato sollevato e su cui indaga persino lo Shin Bet), altrettanto fa dando alla nuova offensiva il carattere dell’ineluttabilità. Non si poteva fare altrimenti. Come asserisce Ben-Gvir. Distruzione totale, niente altro. Non c’è spazio per nessun atto diplomatico. Si sono ripresi qualche decine di ostaggi per calmare un po’ la turbolenza dei parenti e ora si riprende.

Strenght and Sword” (“La forza e la spada“). Questo è il nome della nuova tempesta di fuoco su Gaza e sulle altre città della striscia. Erano più di due settimane che nulla entrava e nulla usciva dal lembo di terra martoriata: senz’acqua, cibo, medicinali. Senza corrente elettrica. I palestinesi si trovano oltre la “twilight zone“: non c’è nemmeno quasi più parola che possa descrivere l’orrore in cui – come i bambini citati dall’ONU – cercano di sopravvivere di minuto in minuto. Riesce difficile dare una qualche ragione ad Hamas, ai suoi proclami di guerra e di terrore.

Ma dall’altra parte cosa c’è? Solo guerra, solo terrore, solo quella volontà genocidiaria che Israele non fa che dimostrare in quanto tale ogni maledetto giorno che nella Striscia di Gaza passa senza che si possa affermare: oggi non è morto nessuno. Due torti non faranno mai una ragione. Ed infatti, Hamas e il governo di guerra di Netanyahu sono oggi nemici della pace, del futuro di due popoli. Ed in particolare, vista la sproporzione di forze militari e belliche in campo, di quello palestinese. Tocca tornare a parlare di equilibri regionali che si frantumano. Anche se forse in pochissimi si erano illusi che la tregua potesse davvero reggere a lungo.

La guerra in Ucraina lambisce le coste di uno tre attori importanti nella scena del Medio Oriente in fiamme: la Turchia. Un paese che ha provato la mediazione. Il secondo, ma non per meno importanza, è ovviamente l’Iran. E poi c’è Israele in quanto soggetto-oggetto della questione. Oculati analisti chiamano questo trittico una triangolazione di interessi che si rendono evidenti tanto nei rapporti regionali propriamente riferibili all’area mediorientale, quanto in quelli più latamente definibili come problemi del “mondo arabo“. Mentre l’IDF bombarda Gaza, sulle montagne tra Libano e Siria è in atto un’altra sorta di guerra.

Quella tra truppe regolari del Paese dei Cedri, Hezbollah e nuovo esercito siriano formato dei combattenti del regime che ha sostituito Assad. Lotte di lungo corso che, oggi, vogliono esprimersi nella cruda resa dei conti e che aumentano il tasso di instabilità nella regione: non di meno gli Houthi yemeniti. Trump li fa attaccare, loro rispondono con la copertura internazionale iraniana. In questo vero e proprio ginepraio di intersezioni locali e globali, la ripresa del conflitto nella Striscia è una notizia che deve allarmare.

Prima di tutto sul piano meramente umanitario. Non si può ignorare nemmeno un morto, ma quasi quattrocento persone assassinate dalle bombe israeliane in meno di un giorno non faranno che esponenzializzare il conflitto fino alle più estreme conseguenze; tutto ciò ci avvicina sempre di più ad una visione – seppure disomogenea nel suo insieme – globale di guerra che, invece di diminuire nella sua intensità altissima, aumenta ancora di più. La tregua con Hamas era stata venduta dal gabinetto di guerra come una vittoria di Israele, un preludio ad un redde rationem soltanto rimandato.

Se sia venuto già il tempo di questa rendicontazione mortifera finale con l’organizzazione islamica che governa Gaza, è difficile poterlo concretamente affermare: ma le incursioni aeree che durano da decine di ore vanno comunque in questa oggettiva direzione. Se una domanda ci si deve fare, tra le tante, è questa oggi: chi ha rotto la tregua? Hamas non liberando gli ostaggi secondo i piani americani? Oppure Israele per poter avere mano libera nella resa dei conti con i palestinesi? I reciproci scambi di accuse sono la premessa dell’impossibilità a dare uno straccio di franca risposta in un contesto in cui la menzogna – congenita al fenomeno bellico – regna sovrana.

Col trascorrere del tempo, la guerra ha sommato in sé stessa tutta una serie di preoccupazioni che Israele ha riguardo la propria sicurezza e che si riverberano sulla tenuta democratica del paese. La questione palestinese, in realtà, se affrontata con i crismi del rapporto diplomatico – mai preso veramente in considerazione né da Netanyahu né da Hamas – avrebbe potuto dare ad entrambe le parti in causa una occasione di sviluppo di una fase di dialogo capace di attenuare le tensioni storiche provando a superare quelle più recenti.

Invece la narrazione che il governo israeliano ha continuato a vendere ai propri cittadini e al mondo è stata quella di una necessità di risolvere una volta per tutte non la convivenza difficile ma l’esistenza della stessa come problema. Dell’opportunità di una confederazione tra Stati o di un’altra soluzione che potesse avvicinare le posizioni non si è mai più parlato perché Israele non l’ha mia contemplata come ipotesi; perché l’ANP è strutturalmente fragile e marginalizzata (oggi più di prima…); perché Hamas ha fornito a Netanyahu tutti i pretesti possibili per innescare la fase genocidiaria.

L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, un ritorno preannunciato come portatore di una politica di nuova aggressività nei confronti del popolo palestinese, ha dato man forte a quello che pareva un governo di guerra in crisi, destinato ad essere sostituito da un nuovo esecutivo che guardasse alla soluzione politica piuttosto che a quella conflittuale e omicidiaria su vasta, vastissima scala. Il tema un po’ globale del riarmo non è per niente estraneo anche alla questione israelo-palestinese.

Per prima l’Italia continua a fornire armi ad Israele. Si stima che, dopo il 7 ottobre 2023, il nostro Paese abbia mandato a Tel Aviv armi per un valore di quasi cinque miliardi di euro. Gli esperti citano a proposito l’invio di elicotteri, artiglieria navale e diversi tipi di munizioni. “Altreconomia“, che ha studiato a fondo il tutto, riporta dati davvero impressionanti: mentre a Gaza imperversava l’attacco sempre più violento contro la popolazione ed Hamas (la distinzione deve poter avere un qualche valore attuale nel racconto pure impreciso degli eventi…), l’Italia ha continuato a mandare ogni tipo di armamento allo Stato ebraico per continuare un’azione di devastazione messa sotto accusa dalla Corte Penale Internazionale.

La pretesa impunità che il gabinetto di guerra di Netanyahu si attribuisce sarebbe suffragata dalle ragioni della rappresaglia per i massacri compiuti da Hamas nei kibbutz e alla festa nel deserto. Ma il termine “rappresaglia” è sembrato fin da subito molto riduttivo, in particolare se riferito ad una risposta che non ha mirato a colpire i singoli capi dell’organizzazione terroristica islamista, ma che è stata data nei confronti di tutta la popolazione palestinese considerata – molto opportunamente – complice. Quel piano di espulsione di oltre due milioni di persone dalla Striscia non è stato accantonato.

Fonti giornalistiche parlano di piani redatti sulla base di incontri tra la Casa Bianca e Il governo israeliano sulla base dei quali si disporrebbe una nuova nakba palestinese in Siria. Tramontate le ipotesi egiziane e giordane, ora qualcuno inizia a guardare al regime di Aḥmad Ḥusayn al-Sharaʿ come ad un interlocutore compiacente in tal senso. Ma il fronte siriano, almeno per il momento, è occupato nella stabilizzazione della nuova forma di Stato e nella lotta citata con le forze libanesi e con Hezbollah.

La ripresa delle ostilità da parte di Israele avviene con un beneplacito americano che non è un nulla osta in merito, di cui oltretutto Tel Aviv non ha alcun bisogno per continuare la sua guerra contro i palestinesi, ma una conferma del pieno sostegno trumpiano ad una propaggine dell’imperialismo occidentale in terra mediorientale. L’insicurezza sarà la cifra costante anche di questa nuova fase di guerra: soprattutto per lo Stato ebraico. I palestinesi, purtroppo, hanno sempre meno da perdere se non le terribili giornaliere sofferenze che gli vengono imposte.

MARCO SFERINI

18 marzo 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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