Quotidiani e telegiornali, siti di informazione economica e giornalismo politico commentatore anche un po’ gossiparo degli ultimi accadimenti al tempo del Coronavirus, nella piena espansione della “Fase 2 bis“, non fanno che prendersi a pugni come pugili suonati su ring di concorrenze di ipotesi in merito alle priorità del Paese. La prima ricerca, in tal senso, riguarda le “colpe“: le colpe di chi ha sottovalutato il pericolo del Covid-19; le colpe di chi ha invece sopravvalutato il tutto e ha costretto l’Italia ad una chiusura forzata di oltre due mesi; le colpe di chi ha depotenziato nel corso dei decenni la sanità pubblica, l’ha convertita alla privatizzazione generale dei servizi fondamentali per i cittadini e ha trasformato il bene comune, lo stato-sociale in uno stato-aziendale.
Le colpe sono tante, milioni di milioni, ma quella dell’asse di trasformazione privatistico è, fuori da ogni ragionevole dubbio, quella da cui origina ogni contesa che oggi vede contrapporsi le Regioni fra loro e le Regioni con lo Stato. Nessuno vuole diventare il punto di inizio politico-organizzativo dell’epidemia e diventare il “paziente zero” della gestione di una complessità che, oggettivamente, avrebbe spaventato anche il più probo e ligio degli amministratori. La conversione della maggioranza dei servizi pubblici fondamentali per la tutela dell’essere umano e del cittadino a servizi di carattere privato, quindi esclusi dalla categoria universale dei “diritti” e inseriti in quella dei “privilegi“, è – se così possiamo affermare – il punto di svolta, il momento dirimente in cui si è deciso di affidare ad una precisa logica di mercato ciò che, secondo la Costituzione repubblicana, era non defalcabile dalla sfera pubblica nei confronti di ogni singolo cittadino.
L’onda lunga delle privatizzazioni è stata sostenuta dal presupposto quasi ideologico, reso tale dal pensiero unico capitalista, che lo Stato non fosse e non potesse essere quindi in grado di gestire un enorme carico di mansioni sociali che includevano – come è ovvio – una spesa pubblica ingente. Ciò avrebbe significato impegnare le risorse dell’erario verso la loro naturale disposizione: la società, la socialità. Da uno Stato di tipo sociale – che sovente viene stigmatizzato come “Stato assistenziale“, biasimato se assiste i più poveri, i lavoratori, i disoccupati e i pensionati; elogiato se invece assiste le imprese, i padroni e i grandi evasori fiscali – gran parte della politica governativa degli ultimi trent’anni ha lavorato per la conversione della Repubblica in uno Stato di tipo aziendale: il punto di vista era cambiato.
Le istituzioni avrebbero dovuto dimenticare le stagioni di emanazioni di leggi a tutela del lavoro, come il sistema di indicizzazione dei salari secondo il sali-scendi inflazionistico (“scala mobile“), avrebbero dovuto piano piano oltrepassare i confini della “Legge 300” (lo “Statuto dei lavoratori“) per arrivare ad una perfetta identità di vedute tra politica istituzionale e rappresentativa e politica economica. Ciò che era sfuggito fino ad allora, dalla fine della Seconda guerra mondiale arrivando alle soglie degli anni ’80, al controllo padronale, alla ristrutturazione dell’equilibrio dei mercati internazionali sul piano dell’espansione europea, con la formazione conseguente dell’impianto tutto bancario di una sovrastruttura continentale moderna, permettendo l’espansione dei diritti sociali nel mondo del lavoro, doveva ora essere riconquistato.
L’offensiva privatistica degli anni ’80 e ’90, la copertura mercantilistico-liberale della Comunità Europea prima e quella liberista dell’Unione Europea dopo, ha permesso che lo Stato da sociale perdesse quelle minime caratteristiche solidali ed egualitarie che era riuscito a determinare come diritti inalienabili dopo la sospensione totale delle peculiarità singole e collettive di un intero popolo durante la dittatura fascista.
Il tema è delicato e va trattato con prudenza, soprattutto oggi, in un momento in cui viene rimessa in discussione la priorità dell’economia rispetto ai diritti fondamentali citati: primo fra tutti quello alla salute, riconosciuto un po’ universalmente – per riflesso condizionato dall’istinto di sopravvivenza e autoconservazione che va al di là delle speculazioni finanziarie – come il diritto dei diritti, senza il quale nulla è possibile fare, visto che senza salute non c’è vita, non c’è azione, non c’è nulla che possa riferirsi alla possibilità di tornare a sfruttare i lavoratori dipendenti per la produzione di ingenti quantità di profitti privati.
Le misure messe in campo dal governo per la “Fase 2 bis” riguardano cifre esorbitanti: 55 miliardi di euro per sostenere la crisi economica che ha investito settori di produzione grandi e medi e per fare fronte ai bisogni del commercio al dettaglio sia in catene di distribuzione nazionale sia di carattere prettamente locale. Va ad ingrossarsi, ovviamente, un debito pubblico gigantesco, che già misurava il 130% rispetto al Prodotto Interno Lordo del Paese. Qualcuno ha letto in tutto questo una ripresa della funzione sociale dello Stato, come se si fosse tornati auguratamente indietro: dallo Stato aziendale allo Stato sociale, uno Stato “del popolo“, una “Repubblica dei cittadini“.
Non è sfortunatamente così. Semmai è la ricerca di un nuovo ciclo di sviluppo capitalistico che trovi piena espansione grazie ad un dimensionamento della politica istituzionale a misura di impresa (quindi di profitto privato) piuttosto che di lavoro (quindi di salario e di uguaglianza sociale), premettendo, come hanno dichiarato ambienti di Confindustria, che sono necessari interventi di defiscalizzazione e, quindi, di minor costo del lavoro, per riprendere la produzione.
Il livellamento dell’IRAP ne è un esempio eclatante. Dunque, nessuna transizione dallo Stato aziendale moderno, gestito da governi populistico-liberisti, seguenti a governi simili ma ad impronta anche sovranista, ad un nuovo modello di Stato sociale a misura di lavoratrice e di lavoratore, magari superando proprio tutta quella precarietà con misure di riforma strutturale come il reddito di base per tutte e per tutti, una patrimoniale sulle enormi ricchezze di una manciata di italiani Paperonissimi de’ Paperoni e, a buon peso, anche la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Queste misure avrebbero fatto sperare nella conversione da azienda a società per una Repubblica che vede compressi anche i diritti civili nel nome dell’emergenza sanitaria in cui tutt’ora siamo completamente immersi ma che le pubblicità praticamente di ogni azienda mostrano come in ripartenza totale; come se il pericolo fosse passato, il virus fosse scomparso e il peggio stesse alle nostre candide spalle.
Il peggio non è affatto passato, se è vero che convivere col Covid-19 – come faremo da lunedì 18 maggio in poi – vorrà dire affrontare una pandemia con poche mascherine e lavandosi le mani soltanto. Il peggio non è affatto passato se in fabbrica si tiene un metro di distanza e se soltanto dopo lunghe trattative si è riusciti a far passare, da parte sindacale, il diritto a veder riconosciuto il contagio dal virus come infortunio sul lavoro, mentre sono già oltre 40.000 le domande di cassa integrazione straordinaria presentate.
Mentre tutto questo accade nella nostra Italia, la battaglia globale combattuta sul fronte della concorrenza tra grandi settori di produzione vede aprirsi un altro fronte inaspettato: i paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), con ovviamente l’eccezione della Cina, vedono ora spostarsi su loro l’epicentro di sviluppo della pandemia. Il virus è un imprevedibile giocatore compulsivo che bara al tavolo di chemin de fer e che riesce ad ingannare anche la roulette, scompaginando l’economia capitalistica, mettendone in crisi gli assi portanti.
Ma la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale sono pronti e vigili. Nessuno piccolo agglomerato di sfruttatori, in qualunque parte del pianeta si trovi, resterà da solo… resterà indietro…
MARCO SFERINI
16 maggio 2020
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