Tra i termini chiave che hanno segnato il dibattito pubblico e delle scienze sociali nell’epoca della globalizzazione un posto centrale è senz’altro occupato dal «neoliberismo». Cosa si intende precisamente con questa categoria e quali fenomeni concreti e tendenze teoriche possono essere ricomprese sotto di essa? È ancora utile parlare di neoliberismo o, populismo e sovranismo, in fondo, non costituiscono ideologie e pratiche politiche alternative?
Sono queste le domande fondamentali con le quali cerca di misurarsi l’agile libro di Giulio Moini, Neoliberismo (Mondadori, pp. 200, euro 14,00). Attraverso un’analisi storico-critica Moini mette in luce come le radici teoriche del neoliberismo stiano innanzitutto nella reazione al keynesismo e allo statalismo che si dipana, tra gli anni ’30 e gli anni ’70, non solo sul piano accademico, con le opere di Mises, Hayek o Friedman, ma anche attraverso una molteplicità di think tanks, fondazioni e programmi divulgativi che hanno costituito un movimento di lenta ma decisa ricomposizione del campo conservatore, proprio negli anni di maggior successo del «capitalismo democratico».
Quattro, invece, le tappe che ne hanno segnato il progressivo successo nel campo politico: la dittatura di Pinochet, i governi di Thatcher e Reagan, l’ascesa del «New Labour». Il baricentro del neoliberismo – e del progetto della globalizzazione come del connesso capitalismo finanziario – è dunque il mondo anglosassone.
Due sono i punti che, tra gli altri, appaiono più interessanti nello sforzo definitorio di Moini: il neoliberismo certamente mette al centro il mercato e l’individuo come gli elementi di base della sua visione non solo dell’economia ma anche della società e della politica. E dunque, si pone come forza di trasformazione multiforme – cioè non riducibile ad un’unica formula o pratica politica – dei mezzi come dei fini dello Stato. Chiamato non a ritirarsi ma, sulla base di una retorica scientista e tecnocratica, a guidare la trasformazione neoliberista. Ma il cuore di questa proposta è un altro: il neoliberismo è una teoria sulla conoscenza e sull’ordine sociale che fa del mercato il paradigma di una società fondata sugli scambi mercificati, unici in grado di produrre, per complesse aggregazioni, decisioni collettive ed istituzioni sociali efficienti e far fruttare al meglio la miriade di informazioni individuali, altrimenti disperse e inutilizzabili.
La libertà del mercato, la libertà assoluta di scegliere e di competere contro l’idea di qualsivoglia «pianificazione» o limitazione etico-politica deliberata, rifonda tutta l’esperienza umana e il suo rapporto con la conoscenza e la trasformazione del mondo. Strettamente connesso a ciò è il ruolo del neoliberismo come principio di integrazione, funzionamento e sviluppo del capitalismo contemporaneo, verso gradi crescenti di finanziarizzazione e mercificazione del globo.
Il neoliberismo è dunque una categoria interpretativa fondamentale per cogliere e ricostruire i complessi nodi tra economia, politica e società nella contemporaneità. Tuttavia, il neoliberismo non è solo questo: nella sua declinazione politica forte, quella di destra parzialmente distinta da quella riformista, della «terza via» di Blair e Clinton, esso è la riaffermazione di valori profondamente conservatori, tutti incentrati su una restaurazione del principio di autorità, contrapposto al libertarismo post-68. Il neoliberismo ha dunque bisogno del culto del profitto come dell’autorità e, all’estremo, dell’autoritarismo, per affermarsi e legittimarsi.
Ecco perché, secondo Moini, il populismo contemporaneo e il sovranismo non sono teorie e pratiche alternative al neoliberismo o rivolte contro le ingiustizie della globalizzazione ma loro evoluzioni: l’autoritarismo e il gretto conservatorismo del sovranismo sono una radicalizzazione, necessaria ad una determinata fase di ricomposizione della società capitalista post-crisi del 2007, dell’originario autoritarismo neoliberale.
Ed è sul terreno di questa contraddizione fondamentale tra asserito culto della libertà individuale e sua riduzione a pura condizione di mercato, che si rinnova la partita per la trasformazione in senso progressista della società, anche nel mondo sconvolto dalla pandemia.
FRANCESCO ANTONELLI