Napoli, 1982. Una ragazza poco più che adolescente racconta la vita quotidiana del manicomio in cui vive fin dal momento della sua nascita. Il mezzomondo, lo chiama. Non lo fa per noi che leggiamo ma per sé stessa. Sono le sue pagine di diario quelle che abbiamo sotto gli occhi.
A volte confuse, a volte ripetitive, a volte poetiche fino a essere leziose, eppure chiarissime nella volontà di trasmetterci quello che conta, che la ragazza si chiama Elba, come il fiume che attraversa la Germania dell’est, e nel mezzomondo ha trovato un suo modo di viverci, tra pillole e scosse, meglio che nel mondo fuori, quello delle «suore culone», dove a un certo punto è stata mandata per sfuggire al destino di matta per frequentare un corso di studi che la possa portare fuori dai confini dell’ospedale.
Ma il futuro per Elba non ha senso se non nell’infinito presente dell’istituto psichiatrico perché solo lì c’è la sua Mutti, la mamma che vi è stata rinchiusa alla fine degli anni Sessanta perché «disubbidiente, altezzosa, erotica, mendace». E di «immoralità costituzionale, adultera, con istinti morali corrotti», «nullatenente, espatriata, senza famiglia e dunque socialmente pericolosa». Del resto «non reclamata da nessuno, resta in stato di ricovero». Se nessuno la reclama, figuriamoci la figlia che poi si sa: pazza la madre pazza pure lei.
Elba è la protagonista di Grande meraviglia (Einaudi, pp. 304, euro 18), l’ultimo romanzo di Viola Ardone. Un viaggio attraverso gli anni e le storie di chi, da posizioni diverse, ha vissuto, più che la chiusura dei manicomi, la deistituzionalizzazione della malattia mentale. Perché il manicomio, in effetti, quando inizia il racconto di Elba, c’è ancora e funziona perfettamente che significa che continua a somministrare, a seconda dei casi, pillole o elettroshock o coma insulinico e a separare i pazienti in base al comportamento più che alle patologie: tranquilli, agitati, semi agitati, grandi agitati.
La legge Basaglia è stata approvata da quattro anni, nel 1978, Franco Basaglia è morto da due, ma evidentemente qualcosa è andato storto perché entro le mura dell’ospedale psichiatrico di Napoli che nel romanzo viene chiamato il Fascione, tutto è uguale a prima. L’arrivo nella struttura di un «dottorino basagliano», il dottor Fausto Meraviglia, cambierà tutto, ma non come ce lo aspetteremmo. Meraviglia non è un eroe, fa spesso casino, non è sorretto dal sistema sanitario che anzi lo riprende e lo punisce, certamente non è una figura epica, anzi.
Militante radicale, una stranezza visto che il Partito radicale si opporrà alla legge Basaglia, è una figura che lascia più dubbi, forse la meno riuscita di un romanzo che è comunque molto importante perché a pochi mesi dal centenario basagliano riporta l’attenzione non tanto sull’eccezionale figura dello psichiatra veneziano quanto su personaggi e temi che ruotano intorno al mondo della psichiatria italiana in quella fase di passaggio, mai davvero studiata fino in fondo dagli storici, che sono i primi anni Ottanta, quando tutto ancora può cambiare ma spesso non cambia come dovrebbe perché le resistenze sono più forti delle spinte e nessuna riforma, da sola, può sovvertire alcunché.
Così nel libro è costante il rumore di fondo dei discorsi degli infermieri come Colavolpe o Gilette che Elba neppure odia quanto dovrebbe perché alla fine sono la sua famiglia. Infermieri che stanno lì a dire che la malattia esiste eccome e che va presa sul serio e che liberare i matti è la scelta più sbagliata, riecheggiando luoghi comuni diffusi ovunque ma anche la verità di tante province dove i servizi territoriali sono sempre stati insufficienti se non inesistenti anche per colpa di infermieri o medici o amministratori nemici della riforma.
Così come paradigmatiche risultano le figure di alcuni genitori come quello di Aldina, (omaggio non dichiarato a Alda Merini?). O la mamma della Nuova, che hanno lasciato all’ospedale il compito di affrontare vite non conformi alle proprie aspettative.
Ardone riesce a far precipitare in un gesto (quello della madre che dà da mangiare alla figlia anoressica, e perde peso mentre l’altra lo acquista) o in un dialogo, quello fra Elba e Gilette sulla Mutti e il suo destino, questioni storiografiche complesse in modo non didascalico come spesso accade nei romanzi storici sugli anni Settanta dove la sensazione di essere di fronte a un ricalco della realtà, a un déjà vu, è troppo spesso invadente.
Ecco, ci mostra l’autrice, si può fare diversamente. Anche scegliendo temi, storie, strade meno battute per entrare nella realtà e mischiarla alla finzione. Per esempio si possono ricostruire gli anni Settanta e i primi anni Ottanta senza passare da via Fani, non perché non sia uno snodo fondamentale, ma perché da troppo tempo è visto dal cinema e dalla letteratura come l’unico.
E anche se il libro si apre con un verso di Patrizia Cavalli, si sentono risuonare in ogni pagina le parole di Alda Merini, che Ardone non scrive ma che certo sa e che pare la guidino, come una legge morale e poetica, in ogni riga del suo libro: «Sono sempre rimasta fedele alla mia meraviglia: mi meraviglio di un peccato impunito e della grazia inattesa». E noi con lei.
VANESSA ROGHI
Foto di Mariana Montrazi