Agguantare un lembo anche scucito o strappato del proprio passato per riviverlo. Ma poi in che modo? Provando a cambiarlo sulla base dell’esperienza ottenuta, consapevoli degli errori o, comunque, di ciò che magari avremmo, col senno di poi di cui son piene le fosse, voluto evitare? Chi non ha mai avuto un rimpianto? Chi non si è mai detto: «Se potessi, tornerei indietro per…». La sperimentazione dell’esistenza nostra è la caratteristica prima del vivere: per poter veramente dire di essere vivi, quindi di assaporarci in quanto tali e nei contesti in cui ci troviamo, occorrerebbe anzitutto avere a disposizione un’altra occasione.
Nella prima esistenza si impara a scontrarsi e incontrarsi, avvicinarsi e allontanarsi a sentimenti, emozioni, situazioni, fratture, ricomposizioni, novità e consuetudini. Nella seconda vita si potrebbe fare tesoro di tutto ciò per dedicarsi, diciamo così…, con più leggera spensieratezza all’essenza stessa di ciò che noi siamo per noi stessi, per gli altri e per il mondo che ci ospita, contiene e comprende. Invece, per quanto ne sappiamo, già avere questa vita è una possibilità che non è affatto scontata. Esistiamo perché si sono create le condizioni del nostro esistere. Ma saremmo potuti anche non nascere.
Non ci saremmo dovuti porre gli antichissimi dilemmi umani sulla solitudine nell’Universo, sul senso dell’essere, della materia e sul più ontologico concetto di “dasein“, di quell'”esserci” che è heideggerianamente il successo di una dialettica, per l’appunto, esistenzialista che, a tratti, ha un quanto di ozioso e di vizioso, cortocircuitando le proprietà intellettive e materiali, psichiche e fisiche entro il contesto della nostra presenza, dell’esistenza che precede l’essenza. Una seconda vita ci permetterebbe, qualora ne avessimo consapevolezza già nella prima, di trascurare fin da subito le problematiche che ci piovono addosso ogni giorno.
Ma, così facendo, non impareremmo nulla, perché saremmo consci del fatto di avere un’altra opportunità: quella per vivere nella pienezza di questo verbo che diviene concetto sostanziale. E quindi, paradossalmente, se avessero contezza di poter puntare su un secondo capitolo in cui avere libero arbitrio senza condizionamenti, fondandoci sull’esperienza precedente, non avremmo proprio in questa ulteriore possibilità la disposizione adatta per poter fare tesoro e mettere a frutto l’esperienza accumulata, rimediando ad errori, sbagli, incomprensioni.
L’obiettivo, un po’ favolistico e fiabesco, dovrebbe essere quello di migliorarci, recuperando tutta una scala di valori impossibile da acquisire se non mediante l’inciampo, il precipitare delle condizioni e delle situazioni a causa delle nostre imperfezioni date da un serrato confronto con i termini di paragone che possiamo fare tra noi e il resto della società, tra noi e l’esistente, tra noi e noi stessi: quando pensiamo, ripensiamo e ci arrovelliamo su quello che comporta il continuare a vivere “nonostante tutto“. Più utile, a questo proposito, è ritenere che sia avvalorabile la tesi delle metempsicosi, della trasmigrazione delle anime.
La cancellazione della memoria è la ripartenza dal “via” di una nuova vita che, quindi, ci sembra sempre nuova, sempre la prima in cui ci troviamo e mai un ulteriore passaggio spazio-temporale in cui siamo passati chissà per quale misteriosa disposizione o legge naturale. Ed allora sì, come asseriscono i buddisti, il passaggio di corpo in corpo per l’anima è una mutevolezza, per così dire, “subcosciente“: impara ad elevarsi oltre la materialità fisica senza ricordare i livelli per cui è transitata. In questo modo l’acquisizione dell’esperienza è un bagaglio utile perché sedimenta in noi ma non è accessibile al conscio, al nostro “io“, al “razionale” diurno.
Nel percorso intellettual-intellettivo e, dunque, letterario di Albert Camus si ritrovano parte di questi interrogativi o, se vogliamo, di queste elaborazioni prettamente concettuali, affidate ad un piano metafisico che è impossibile trascurare, proprio perché non vi è aderenza alla realtà, ma solo vicinanza, sovrapposizione o sottoesposizione, a seconda dei punti di vista da cui si parte nel considerare il particolare e il tutto. Che cos’è una esistenza, si domanda il grande scrittore. Che cos’è quindi una nostra particolare esistenza. Il nostro modo di vivere, chiaramente inteso nel senso come sintesi di tutte le sperimentazioni che quotidianamente facciamo.
L’idea che possa esservi una predestinazione, un fato che volontariamente o meno guida le nostre azioni, non è solamente una astrazione che rimane iperuranicamente appesa alla volta celeste del mistero universale. Più di tutto si tratta di una specie di archetipo a cui affidarsi per giustificare tutta una serie di azioni che compiamo e che la conformazione interiore del nostro inconscio dispone in un angolo nascosto ma non oscuro. I nostri dubbi sono parte dell’esperienza sensibile e, per dirla con Cartesio, sovente ci ingannano tanto quanto le certezze che possiamo presumere di far derivare dai nostri chiarissimi sensi.
L’esistenza, pertanto, è una continua lotta tra la storicizzazione delle nostre esperienze e l’oblio, l’abbandono nel mistero, nell’irrisolvibilità della vita a cui è impossibile dare un senso (uno dei tanti che le si possono affibbiare, figuriamoci “il” senso per antonomasia). Carmelo Bene si interroga davanti a milioni di telespettatori che lo seguono come se fosse un marziano, un artista un po’ fuori dal tutto, dal contesto, dall’essere (e quindi dall’esserci): ci siamo immersi nel fondo dell’abbandono in quanto tale, come espressione del lasciarci cadere da ogni aggancio col reale, col sociale, col familiare, con il consueto e con il quotidiano?
L’esistenza è, proprio perché separata da sé stessa da mille convenzioni giornaliere, deprivata di sé medesima e invivibile pur apparendo a noi vita. Ogni giorno noi “pensiamo” di vivere, ma ci lasciamo invece “sopravvivere“. Subiamo l’esserci e proprio quando affermiamo “io sono“, è lì che maggiormente ci neghiamo e ci spogliamo della nostra peculiarità: la capacità di uscire dai tracciati previsti, dai terreni battuti da millenni di camminamenti, stracolmi di orme e pestoni che hanno insudiciato la libertà di negarsi e di non farsi trovare. Di sfuggire per un attimo alla regolarità della ciclicità del buon senso comune.
Camus evidenzia quest’ombra dei passi che è ombra dei giorni, quasi epifenomeno di un trascinarsi di esistenze che sussistono materialmente e precedono qualunque eccesso, qualunque oscenità (nel senso dell’al di fuori dalla scena) con la pesantezza del riferimento quasi esclusivo alla bontà del tuttologismo: sapere di tutto, saper rispondere ad ogni quesito, ad ogni problema che diventa “il” problema del momento; così si perde di vista che ogni questione è un arbitrio quasi sempre affidato al nostro autorigenerante bisogno di un nonnulla di incertezza che ci permette di andare avanti.
Un moto tutt’altro che rettilineo. Un moto zigzagante che prescinde dalla bellezza con cui Camus intende riformare la quintessenza dell’esistenza: non soltanto l’esteriorità come preservazione delle belle anime che mostrano quanto tutto ciò che ci circondi sia pregevole agli occhi (pubbliche virtù e vizi privati), ma una beltade interiore, intima, suggellante la compenetrazione tra il senso intimo del mistero che ci percorre e il senso del sacro (molto pasoliniano) che pervade la Natura e ci uniforma a lei in una libertà così tanto libertaria da permetterci di umiliarla e degradarla ad utilità materiale di un antropocentrismo annichilente.
Senso e significato della vita stanno nell’affrancamento dai doveri, dalle imposizioni, dalla bruttura della ragion d’essere e non di quella invece del non dover essere qualcosa, qualcuno che gli altri si attendono che noi siamo per consolidarci nell’irregimentazione della “normalità“, per l’appunto nel docile, mesto, servizievole e tanto esecrato da CB “buon senso comune“. L’imparare a vivere è tema per un’epica della vita stessa: della prima che ci fosse data come successivo incosciente viatico del metodo da introitare nell’inconscio per poter meglio essere ed esserci nel secondo passaggio.
Meno stretto del precedente, più abitabile dagli istinti, dalla mancanza a cui ogni tanto ci si dovrebbe affidare per depensare e depensarsi soprattutto: resettare e riavviare da capo. Con lo stesso computer, ma con una memoria nuova e, pur tuttavia, con una parte del disco fisso che ne conserva l’esperienza precedente. La similitudine molto moderna forse riesce a far comprendere meglio le parole di questi (s)ragionamenti: non perché siano il frutto di onanismi cervelloticamente privi di qualunque parvenza di significato, ma perché proprio siano quello che intendono essere. Al di là di una ragione che non arriva a comprendere tutto (capire e includere, quindi).
Il misterioso, morfeico pallore di una sonnolenza che agita il nostro sedimento nell’angolo buio che, giorno per giorno, ci crea e ci fa essere per ciò che siamo: con tutte le nostre apparenti contraddizioni. Incessante lotta di (in)coscienza tra l’espressione genuina delle metafore oniriche del sonno e la cruda sembianza dell’oggettività della veglia. Noi “stiamo” davvero poco nel nostro “stare“. Ci affidiamo a noi stessi forse soltanto quando siamo incoscienti tra le ombre della notte e, appunto, abbandonati a noi medesimi. Privi di condizionamenti e prassi, di iter e pratiche, di morali ed etiche, di abitudini.
Per il resto ci riteniamo esistenti soltanto perché ci percepiamo materialmente tali, ma trascuriamo il fatto che siamo ogni giorno, ogni momento “abitati” e attraversati da pensieri di altri coevi a noi, così come lontanissimi dalla nostra qui presenza-assenza. Si potrebbe argomentare che in fondo, viviamo “a caso“, preda delle casualità e che, quindi, non possiamo realmente esistere in una radicalità conoscitiva, quasi auto-gnoseologica, introspettiva tanto quanto in grado di addivenire al senso del limitrofo (pur sempre limitato) che ci circonda. Giocasta lo dice ad Edipo: il vivere senza una mira, senza un fine, senza precostituzioni di sorta, è meglio.
Lì, nella tragedia greca, il caso è ai limiti della catarsi, visto il destino che toccherà al re. Ma la casualità non è l’abbandono, è la rassegnazione alla vita per quel che tanto di cialtronismo che ci rivela, che ci obbliga a vedere e che non soddisfa nemmeno lontanamente le inquietudini dell’essere prima ancora dell’esserci. Per questo, parlare di radicalità della consapevolezza, meglio ancora dell'”autoconsapevolezza” è un modo improprio per tentare una descrizione dell’incoscienza come fenomeno non di sprezzo delle situazioni, ma come punto di partenza dell’antitesi a ciò che siamo costretti a subire.
Prima fra tutte la convenzionalità del quotidiano. La rottura degli schemi, tuttavia, non è sufficiente a far deflagrare la deprimente abitudinarietà della ciclicità: casa, lavoro, figli, obblighi morali, obblighi civili, obblighi di mille altri tipi, doveri, diritti, più o meno finte libertà. Si può anche fingere di essere vivi quando si risponde a tutti questi stimoli indiretti, ma non si può negare che il sapore più denso, pornograficamente al di là del principio di piacere, stia nel dimenticarsi di sé stessi per qualche attimo e nel precipitare così nella vera “in-coscienza“. Non per fuggire, ma per provare a tornare ad uno stato neonatale di atarassia, quando ancora si sentono solo dei suoi e non si vede ancora.
MARCO SFERINI
22 dicembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria