Mentre il Paese scopre il “modello Lombardia” come sinonimo di “sottovalutazione” dell’epidemia, di mancato avviso ai medici di base del pericolo del contagio fin dal 23 gennaio, quando una circolare del Ministero della Salute avvisava dell’emergenza imminente i vari Presidenti di Regione, il dibattito si avvita sulla velocizzazione, sulle tanto agognate “riaperture“.
E’ comprensibile. A nessuno, tanto meno a me, piace rimanere recluso in casa per mesi e mesi. Fuori sembra che ci sia una Italia del tutto immobile, invece poi si scopre che il 50% dei lavoratori si reca in fabbrica o in ufficio, che proprio tutto così fermo non è il Bel Paese e che gira ancora troppa gente senza alcun motivo, in spregio a chi vorrebbe tutelarsi maggiormente rimanendo a casa e non può invece farlo; oppure in maggiore spregio ancora nei confronti di quei medici, infermieri e operatori sanitari che rischiano sul serio minuto per minuto, non giorno per giorno, la loro vita nei reparti Covid-19, sulle ambulanze e nei pronto-soccorsi.
Mentre l’Italia, a poco a poco, scopre il dramma delle residenze protette per gli anziani dove sono morti centinaia di cittadini abbandonati a loro stessi, privati delle garanzie minime per la loro tutela sanitaria, lontani dai loro cari, quasi insabbiati da ordini scritti e non scritti di evitare non tanto il contagio del Coronavirus quanto quello del panico e della paura, mentre tutto questo emerge dalle carte di una Magistratura che non si ferma e che apre fascicoli su omicidi colposi plurimi e diffusioni di epidemia, il dibattito sulla riapertura prorompe dalle televisioni, da Internet, si fa largo perché esige il salvacondotto su cui è scritto: “Ripartenza economica“, “Evitare la bancarotta“, e così via…
Dalla voglia di stagione turistica, di balneazione, feste e ritmi ballabili in spiaggia o in montagna fino alle esigenze dei padroni, mascherate da necessità di evitare il tracollo del Prodotto Interno Lordo in quanto bene comune, passa in cavalleria il fatto che i contagi sono sempre migliaia e i morti sempre circa 500 al giorno. Si levano tante voci, regione per regione: sotto la bandiera di San Marco si dice che “Il lockdown da noi è praticamente già finito“, mentre a Milano si vorrebbe riaprire quasi tutto. A Torino sono più spaventati e restano cauti. In Emilia Romagna il Presidente della Regione che ha sconfitto i sovranisti, vuole mandare nei campi a lavorare coloro che recepiscono il reddito di cittadinanza: otto, dieci ore di lavoro per 700 euro al mese. Vogliamo chiamarlo “sfruttamento” della forza-lavoro o è troppo “rétro” come concetto, troppo di sinistra?
In Sicilia, visto il basso indice di mortalità del virus, si spinge nel senso opposto a quello di poche settimane fa: riaprire, riaprire, riaprire. Mentre in Campania si pensa addirittura “…a chiudere i confini…” regionali creando una sorta di nuovo piccolo Regno delle Due Sicilie per evitare che dal Nord discendano al sud gli untori vacanzieri in vista del periodo estivo. Oddio, qualche ragione ce l’ha pure De Luca, vista l’ingestibilità complessiva del fenomeno in corso: se con le disposizioni del Decreto Conte dell’11 marzo si sono viste comunque decine di migliaia di trasgressioni, per i motivi più stravaganti e disparati, l’accelerazione verso la riapertura produttiva e sociale del Paese porterebbe, senza ombra di dubbio, ad una recrudescenza dell’epidemia, ad una risalita degli infetti e al riempimento nuovamente dei posti in terapia intensiva.
Che fare, dunque? Attendere ancora pazientemente che la quarantena sconfigga il virus col contenimento degli spostamenti? Riaprire i parchi e permettere la passeggiatina calcolata sempre e solo singolarmente dal cittadino medio e mai come fenomeno che diventa “di massa“, visto che interessa tutte e tutti? Riaprire a macchia di leopardo, magari nelle regioni del Sud e non in quelle dove l’indice di contagio, il famoso “R” , è al di sopra dell'”1“?
Nessuno ha una soluzione unica per l’intera Italia. Sarebbe impossibile averla pronta e spalmabile su tutto il Paese. Ma quello che appare evidente è la fretta con cui si preme sull’acceleratore della riapertura per soddisfare tutte le esigenze economiche e sociali dello Stivale.
La vita reale ai tempi del Coronavirus viene soppiantata dal bisogno fisiologico delle persone di poter riappropriarsi della precedente vita: una esistenza considerata “normale” e che ci ha condotto ai livelli di limite della sopravvivenza vera e propria in cui vegetiamo oggi, languendo nelle nostre case, distribuendo il tempo su lunghe lande deserte in cui ci inventiamo il da farsi per non morire di noia, follia o disperazione se i pensieri si affastellano su malattie, contagi e reparti di terapia intensiva.
Il paradosso è proprio questo: uscire dall’emergenza oggi, così velocemente, vuol dire soltanto ripiombare nell’emergenza altrettanto velocemente. Lo chiamano “loop” oggi. Va di moda. In realtà è un cortocircuito da cui si esce soltanto se la fermata viene prolungata, pur nella differenziazione da luogo a luogo, soprattutto nelle regioni dove il virus ha mostrato e dimostrato tutta la sua energia contagiosa e dove ha fatto strame – come avrebbe ben detto il Padre Dante – vicendevole tra abitanti di una stessa terra, dove ha lasciato le macerie fatte di pile di bare incasellate sui camion dell’esercito e portate via col favore della notte per evitare altri sconquassi psicologici alla popolazione.
Ma quello che si tenta di nascondere, anche benevolmente, alla vista di chi soffre è sempre peggio della realtà cui si può assistere. Ed infatti le immagini di Bergamo le ha viste il mondo intero, non solo l’Italia.
Rimanere fermi, passivi. Non riaprire velocemente niente se non laddove si è scientificamente certi che le riaperture non produrranno la diffusione del contagio tale da produrre nuove Codogno, nuovi focolai difficilmente gestibili da isolare.
Riaprire, chiudere per riaprire ancora, riaprire per poi dover richiudere. Siamo entrati davvero in un infinito che scorre su sé stesso e sembra averci tolto ogni potere sulle nostre vite, sulle nostre esistenze e sulle decisioni da prendere. Ma dovrebbe essere ormai chiaro che avere come punto di riferimento il PIL per risolvere la questione Coronavirus è non solo sbagliato ma controproducente: potrà risollevare le sorti del profitto dei padroni, mascherato da necessità di riattivare il motore produttivo, riaprire quindi tutti quei luoghi dove oltre a faticare ci si diverte. Dalla fabbrica alla spiaggia, dall’ufficio alle piste da sci.
La domanda finale è solo questa: qual’è la priorità? I medici risponderanno correttamente: la salute pubblica, di ciascuno, di tutti. Il governo cosa risponderà? Sarà capace di proseguire con una risposta che elimini i particolarismi regionali? Questa è al momento la priorità. Una linea chiara, decisioni univoche e non interpretabili o emendabili. Una linea chiara, lineare, che guardi alla salute dei cittadini e non ai profitti dei confindustriali.
MARCO SFERINI
18 aprile 2020
Foto di Manuel Darío Fuentes Hernández da Pixabay