Non lo so se si può fare la classifica delle immagini di guerra, se una madre che piange col figlioletto in braccio è più crudele come messaggio massmediatico rispetto ad una famiglia completamente annientata mentre cercava scampo oltre la linea di combattimento tra russi ed ucraini. Non so nemmeno se contino il numero delle vittime di una parte piuttosto che dell’altra per stabilire chi commette più atrocità nella scala dell’orrore del conflitto.
Ma i morti sono vivi che hanno smesso di essere tali, che hanno sofferto nell’andarsene da questo mondo in cui l’umanità progredisce regredendo, si modernizza medievalizzandosi, anzi… ritornando proprio ad uno stato primordiale, cavernicolo, primitivo.
Non so neppure perché sto scrivendo queste righe: credo perché, lontano duemila chilometro dalle bombe e dai cannoni, dai tappeti di sangue per le strade di Kherson, Mariupol, Kharkiv, Dnipro e Kiev, posso permettermi di guardare il tutto con un certo distacco. Forse. Perché questa intercapedine emotiva, giorno dopo giorno, cronaca dopo cronaca, si assottiglia sempre di più e impedisce di essere lucidi quanto occorrerebbe per analizzare senza troppa empatia la guerra sul campo.
Ma noi sul campo non ci siamo. Per fortuna. O forse iniziamo ad esserci, nelle retrovie di una globalizzazione che ci vomita ogni cosa addosso e che non risparmia nessuno con le conseguenze belliche: prezzi che schizzano alle stelle, isterismi di massa nei supermercati dove sono iniziati gli accaparramenti di pane, pasta, olio, pelati, zucchero… Per paura che aumentino, è la motivazione ufficiale che senti dalle interviste in televisione. In realtà, a questo timore più che comprensibile e giustificato si associa l’altro spettro: quello del rimanere senza viveri, del rimanere senza provviste.
Forse i racconti dei nostri nonni non sono stati sufficienti a farci entrare in assoluto nel dramma della guerra, ma ci hanno trasmesso un timore per la fame più che per la sete, per la lunghezza temporale di un conflitto: si sa quando inizia (o per lo meno si crede di saperlo…) ma per davvero non si sa quando avrà termine. La guerra in Ucraina ha tutte le caratteristiche di quelle novecentesche, della prima metà del secolo scorso.
E’ probabile che, con una tale somiglianza, abbia indotto soprattutto i più adulti a premunirsi, ad isterizzarsi senza volerlo, ispirati malevolmente da una comunicazione devastante, veramente cannibale, capace di divorare ogni informazione e di rigettarla un attimo dopo con tante scuse per aver preso un granchio.
Mentre qui, nell’Occidente tanto amato da Zelens’kyj e tanto odiato da Putin, le discussioni si sprecano, i civili muoiono sepolti dalle macerie, centrati dalle bombe e dai missili russi che piovono sulla gente che aspetta di comperare il pane, che si è rifugiata in un teatro a Mariupol, che davanti e dietro a quel teatro ha scritto sulla strada a caratteri cubitalissimi “BAMBINI“, una scritta che vale come la croce rossa per avvisare gli eserciti in lotta che lì la guerra non dovrebbe arrivare.
Ed invece la guerra li ha scovati, li ha stanati e non fa distinzione. Come la bomba di De André in “Girotondo“: «Sian grandi o sian piccini li distruggerà, sian furbi o sian cretini li fulminerà». E cominciano ad esserci troppe poche, marcondirondero… Davanti agli ospedali pediatrici, nelle strade dove passano i carri armati spavaldi, pensando di essere al sicuro, protetti da una aviazione che è, sì superiore a quella di Kiev, ma che poco può contro i droni venduti dalla Turchia all’Ucraina. I russi li riconoscono come se fossero dei cecchini in carne e ossa, ne urlano il nome: «Bayraktar!». Pochi secondi e il blindato salta per aria. Ne esce a mala pena un sopravvissuto che si rotola al ciglio della strada.
Sono immagini crude. Come le classifichiamo nella scala Richter del terremoto bellico? Ormai si usano tutti i social per mostrare la guerra che ha imbruttito l’innocenza, che ma malvagizzato ogni cosa e ha fatto del più tranquillo degli ucraini dei moderni resistenti il cui ideale è vivere tra le braccia dell’Occidente, sotto l’ombrello della NATO, affermando valori democratici che sono traditi costantemente dalle potenze che si proclamano “libere” e che questa libertà la esportano con le guerre, con un imperialismo che differisce da quello di Putin solo per latitudine e longitudine, per provenienza storica e per ristrutturazione economica nel post-1989.
Non bisognerebbe morire né per Putin e la sua Russia revanchista, né per i sogni neoatlantici ed occidentali di Zelens’kyj. Non bisognerebbe proprio morire, ma alcuni cronisti ci parlano anche di tanti soldati consapevoli dei limiti del loro governo, delle provocazioni reciproche tra Mosca e Kiev, di due presidenti che hanno giocato una partita lunga anni e che oggi i nodi sono venuti al pettine, perché le due visioni di mondo che hanno sono diametralmente opposte.
Putin vorrebbe che l’Ucraina rimanesse nella sfera di influenza russa e che il confine di questa non retrocedesse fino quasi al Caucaso, ma rimanesse ben saldo alle frontiere del dopoguerra novecentesco, quando l’URSS arrivò a toccare le estremità dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, penetrando nel cuore dell’Europa con l’acquisizione della Galizia e della Rutenia Subcarpatica. Compensazioni territoriali pretese da Stalin, esattamente come la Russia Bianca già della Polonia.
Zelens’kyj invece vorrebbe sfuggire da questa morsa imperiale panrussa e ridisegnare davvero i confini geopolitici dell’Europa e dell’Unione europea. Ed è proprio su questa contesa, che affonda le sue radici fin dalla nascita dei primi Stati russi che avevano proprio in Kiev il loro centro, la loro capitale politica e anche religiosa, che oggi si regge una guerra che è scoppiata apparentemente all’improvviso ma che, se osservata dal punto di vista di un ucraino e di un russo, ha un ben diverso significato da quello che pretendiamo di attribuirle noi con le poche conoscenze storiche e geopolitiche che ci forniscono i mezzi di comunicazione di massa più diffusi.
Non esiste un metro universale per valutare tutte le pieghe e i chiaroscuri di una guerra. Particolarismi, false verità e spregiudicatezze di ogni tipo prevalgono su una corretta informazione che non si può pretendere in un contesto in cui la deformazione della vita è la ragione dell’esistenza dei conflitti. Altrimenti come si potrebbe anche soltanto fingere di accampare una giustificazione per reggere al confronto con le tante altre ipocrisie della storia umana nel corso dei millenni.
Ed è per questo che i giochetti delle parti, delle tante guerre microscopiche che dentro la guerra si creano e si alimentano molto consapevolmente, come la finta dialettica tra posizioni pregiudizialmente opposte o il semplificazionismo banalizzante che condanna ogni tendenza critica come una “equidistanza impossibile“, come una propria svendita al nemico, come una tendenza carsica al tradimento dei valori dell’Occidente cui non si può deviare, pena l’accusa di collaborazionismo con i peggiori tiranni.
La classificazione etica nella politica di guerra è un altro enigma cui la storia non ci ha dato una soluzione definitiva: il soggettivismo delle interpretazioni prevale su un oggettivismo dei fatti con tutta la muscolarità di un linguaggio della prepotenza che fa il paio con il contenuto che descrive.
L’informazione disinformante è a volte facile da scovare (come nel caso de “La Stampa” di Torino che pubblica in prima pagina una foto di un bombardamento ucraino contro Donetsk attribuendolo senza dirlo esplicitamente – e proprio per questo ancora più colpevolmente – ai russi), mentre altre volte si insinua tra le pieghe del giornalismo perbene, quello che “non può non avere ragione” perché veicolato dei visi amichevoli, democraticissimi e superimparziali di chi fa programmi di intrattenimento o di approfondimento culturale su Rai Storia.
La Russia sta conducendo una guerra di aggressione verso un popolo che potrebbe essere altrimenti libero se saprà divincolarsi dall’uno e dell’altro («Relinquo vos liberos ab utroque homine», avrebbe sentenziato il monaco dalmata Marino divenuto santo, icona e nome della più piccola famosa repubblica europea): dall’oriente russo, oligarchico ed autoritario, e dall’occidente liberale ma pure liberista, tollerante verso le libertà civili ma attento coercitore di quelle sociali.
La verità sta nella sofferenza della gente che rimane ferita, amputata di arti e di parti di vita. La verità sta nella morte, nella distruzione, nel cinismo delle grandi potenze che non si fanno scrupolo alcuno di schierarsi ora con questo regime democratico, ora con quel regime invece oligarchico, populista o apertamente reazionario e neofascista. Lo ha spiegato molto bene il professor Orsini in televisione, tacciato anche lui, dalla coerentissima linea del Piave che separa filo-occidentali buoni e critici della guerra cattivi cattivi.
Questa è una posizione scomoda, dalla parte di un torto non voluto, ma imposto dal benpensatismo di chi sceglie da che parte stare per avere una parte in questa storia, senza preoccuparsi poi tanto se all’alternanza delle opinioni possa far fronte, quindi esistere, una alternativa, una “terza via” del pensiero critico pacifista.
Questa è una posizione scomoda, ma è l’unica in cui possiamo stare.
MARCO SFERINI
18 marzo 2022
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