Natale tra fede, ragione e mai del tutto piena laicità

A Natale, si tramanda, si è o si deve essere tutti più buoni. Forse perché nello “spirito” della tradizione c’è la ricerca di maggiore imperturbabilità della festa e, quindi,...

A Natale, si tramanda, si è o si deve essere tutti più buoni. Forse perché nello “spirito” della tradizione c’è la ricerca di maggiore imperturbabilità della festa e, quindi, nel ricordare che al mondo continuano ad esserci guerre, ingiustizie, sopraffazioni, sfruttamento e crudeltà quasi inenarrabili, si fa il possibile per alibizzare la propria coscienza in merito e disconnetterla per qualche decina di ore dalle turpitudini quotidiane.

Per oltre duemila anni abbiamo creduto e, sempre meno convintamente, ci lasciamo far credere che Gesù di Nazareth sia davvero nato il 25 dicembre dell’anno Zero per poter dare soddisfazione ad una calendarizzazione degli eventi narrati nel Nuovo Testamento che è la costruzione, decennio dopo decennio dalla nascita del fondatore della religione cristiana (l’abbia lui voluto o meno…), di un revisionismo storico su cui nemmeno la Chiesa Cattolico ha molto da obiettare ormai.

Ma la tradizione, almeno per il momento, rimane e quindi tutti, o quasi, laici e credenti, agnostici come il sottoscritto o fervidi devoti della Verità rivelata rispetto al precedente paganesimo politeista, fanno tanto l’albero addobbato quanto il presepe. In un certo qual modo siamo costretti a festeggiare un compleanno che non esiste, visto che Gesù è nato probabilmente un po’ di anni prima dello Zero da cui si contano decenni, secoli e millenni.

Il fatto che la figura di questo profeta disarmato, pacifico ma non privo di eccessi di ira e di violenza, di cui alcuni Vangeli considerati aprocrifi dal papato narrano una infanzia piuttosto normale come ragazzino, con tutti i suoi vizi e le sue virtù, sia da tantissimo tempo il centro della cultura metafisica occidentale, dello spiritualismo di un mondo che reputiamo “dalla parte giusta della Storia“, è di per sé, con grande probabilità, il dato più affascinante su cui indagare.

La religione cristiana si è imposta nell’Impero romano come culto di Stato ed ha, fin dai primi secoli dalla sua apparizione, stabilito una dualità col potere costituito, divenendo un’ombra onnipresente in ogni ambito della vita pubblica e privata. Se si osserva accuratamente l’avvicendarsi degli esperimenti teocratici nel corso dell’evoluzione umana, ci si renderà bene conto che nessun altro culto ha avuto il carattere ambivalente dato dalla Chiesa di Roma ad una venerazione dell’ultraterreno.

Non esiste nessuna religione, a parte il Cristianesimo, e in questo segnatamente la sua declinazione cattolica, che ha fatto di un uomo un dio, nello specifico, proprio il “figlio di Dio“: nato, oltre tutto, da una donna giovanissima, sposata ad un uomo molto più anziano di lei, ma fecondata dallo Spirito Santo, da una delle tre Persone di cui Dio stesso sarebbe fatto. Siccome il culto nuovo che si andava affermando, soppiantando il paganesimo, aveva la necessità di farlo aderendo in qualche modo alla tradizione, ci si inventò pure la “maternità” di un Dio vivente.

Maria come “madre di Dio“: paradossalmente (ma, apologeticamente, Tertulliano ci apostrofa: «Credo quia absurdum») è quindi madre del Padre di suo Figlio. Le maiuscole aiutano a comprendere il rapporto trinitario che è stato posto a fondamento di un dogma che, in quanto tale, è una verità irragionevole emanata da Dio stesso e, quindi, incontestabile, inconfutabile, non interpretabile. Tutto è ammesso nella mitizzazione religiosa, nel culto postumo la morte del Cristo (dell’unto dal Signore, letteralmente de “Messia“).

Non solo Paolo di Tarso, ma molti studiosi del protocristianesimo collaborano alla redazione di una narrazione che supporti tradizione e innovazione e, quindi, i Vangeli canonici per primi devono rivolgersi tanto ai pagani rimanenti nell’Impero, quanto a giovani generazioni che iniziano ad abituarsi al monoteismo, alla gerarchizzazione tanto delle fonti quanto di un potere che si fa largo nell’amministrazione sociale e civile dello Stato.

Tutto questo non è semplificabile come la “più grande menzogna dello Storia“; anche perché la nostra storia è ricchissima di artefatti, di edulcorazioni e surrogati della realtà. Non è nemmeno vero che tutto sia falso, visto che il Cristianesimo è il frutto di una serie di sincretismi culturali, ideologici, politici e civili che, nella trasformazione dialettica tanto del piano spirituale umano quanto di quello più prettamente materiale, si sostanziano divenendo, in una qualche maniera, una novità che poggia su dati storici.

Ma è certo che la figura di Gesù viene riconosciuta come quella del ribelle nei confronti delle autorità da alcuni, del profeta da altri, del Figlio di Dio da altri ancora. Ciò che andrebbe fatto, con sempre maggiore consapevolezza critica, è demitizzare anzitutto la tradizione stessa: pensare al Cristianesimo come ad una parte fondamentale della nostra “identità” di occidentali, di umani evoluti, sempre dalla parte della verità, della ragione (ma non della razionalità e del buon senso…) e della giustizia, è, questo sì, falso.

Quando si riflette sul carattere laico delle democrazie, in particolare di quella italiana, costretta alla convivenza con un cattolicesimo che ha in Roma la sua sede spirituale e temporale, si esclude istintivamente, proprio perché la tradizione ce lo impone, una fisionomia pedagogica da parte della Repubblica che, pur nel rispetto di ogni culto, possa anzitutto trasmettere ai propri cittadini l’affermazione del principio etico-sociale e civile come naturale ambito in cui sentirsi pienamente riconoscibili anche su un piano propriamente culturale.

Per quanto laica la nostra vita possa essere, il fenomeno religioso sovrasta, in un certo modo, il tutto perché, ancora oggi, pretende di essere il portatore di un’etica superiore in quanto emanazione della volontà divina e non, invece, semplicemente la costruzione di una determinazione tutta umana. Ci illudiamo o speriamo troppo nel momento in cui affermiamo che la laicità è caratteristica dello Stato a tutto tondo. Qualcuno inorridirà ora, proprio perché il senso del sacro dovrebbe essere considerato in relazione alla potenza della Natura, alla sua bellezza ed armonia. Non invece ad una realtà metafisica.

Viviamo in una società che ha bisogno di una sacralità a corrente alternata: l’amore universale proclamato dal Cristianesimo è stato il pretesto per secoli e secoli per imporre un dominio di una parte che si è eletta a potere sovrannaturale, al di sopra addirittura di re ed imperatori e li ha consacrati, facendosi portavoce esclusiva della parola di Dio e del disegno dell’Onnipotente. Per definizione, chi tutto può, tutto sa e in tutto è, non può non essere superiore alla finitudine oggettiva dell’umanità.

L’essere che fosse interprete di questa volontà – ammesso che sia davvero tale – avrebbe indubbiamente una marcia in più rispetto a qualunque altro sovrano, a qualunque altro potente. Il fenomeno religioso, dunque, è fenomeno politico di per sé, visto che non riesce a limitarsi all’espressione di un culto ma adopera lo stesso come instrumentum regni e non può esimersene in quanto la massività della sua essenza è connaturata nel messaggio che porta: diffondere quella che si ritiene essere la verità rivelata da Dio.

Mentre lo Stato non deve convincere nessuno della bontà della propria Costituzione che, nei fatti, dovrebbe essere patrimonio di tutte e di tutti. Sappiamo, purtroppo, che non è così anche, e soprattutto, a causa della malagestione politica dell’amministrazione pubblica piegata agli interessi di parte, al privato, alle consorterie e a fini che, anzi, sfruttano le migliori qualità della democrazia per pervertirla e farne un sinonimo di instabilità quasi per antonomasia. Troppe norme, troppi decisori collettivi. Meglio l’uomo o la donna soli al comando.

Quanto, dunque, la religione sia in grado di stare al suo posto è argomento capzioso: anche se invocato con i più nobili intenti, di per sé stesso il culto è intromissione nelle faccende quotidiane, è ontologicamente presente nella vita di ognuno, seppure con maggiore o minore intensità: perché l’identità che ci è stata data da quando eravamo ragazzi è quella di una tradizione fisiognomicamente ascrivibile alla imperiturità. Nulla potrà mai cambiare in questo senso.

Il Natale sarà sempre il Natale e la religione cristiana non smetterà mai di essere quel cardine risolutivo dell’esistenza, per poterle dare un significato qui nell’oggi, in un presente continuo dove il senza tempo si riflette nella proiezione eterna della vita oltre la morte. Grande, spontanea e arguta intuizione di chi ha manipolato, più o meno consapevolmente, il fenomeno religioso è stata quella di compenetrare la necessità tutta umana del mitigare lo smarrimento per il non senso esistenziale e per altre mille paure con l’estremo senso del qui e ora.

La concretezza tutta terrena del nostro esistere fa il paio con l’incongruità dell’al di là, lasciato alla contemplazione dell’inconscio che non ha un compito razionalizzatore in tal senso: solamente (e non è poco) quello di permetterci di essere noi stessi durante la diurnità. Con tutte le fragilità che ci rimangono e ci pervadono. Lì il lenitivo religioso entra sulla scena e fa il suo mestiere. Non necessariamente tarpa le ali all’espressione del nostro io recondito. Soprattutto se il senso del sacro, quindi di un dio, di un trascendente l’umana finitudine, è vissuto da noi con naturalezza.

Ma, purtroppo, come appare evidente in molti ambiti della nostra giornata, le convenzioni, che sono il frutto primo del tradizionalismo a tutto tondo, ci limitano, si impongono a noi e costringono a pensieri, parole, opere e anche omissioni che non sono nella nostra natura particolare. In questo contesto, sì, la religione è il respiro davvero delle creature oppresse, di un mondo che finisce con lo smarrire la sua anima, la sua psiche primordialissima.

Il cosiddetto “timor di Dio” è la continua alimentazione di una paura pervasa da un tratto escatologico: siamo nell’inferiorità, sovrastati dal potere divino, dall’ultraterreno e, quindi, per quanto possiamo sentirci ed essere liberi nello Stato (che è l’istituzionalizzazione del potere, ma umano e di classe), non lo saremo mai fino a che oltre lo Stato stesso avrà influenza sul singolo e sulle masse una predestinazione dettata dalla religione.

Il laico prescinde, eticamente, da ciò nel comportarsi con rettitudine e seguendo il buon senso civico e la morale. Il credente, necessariamente, associa a ciò il premio che avrà ultraterrenamente: la vita eterna, il paradiso, un eden non ben definito, un luogo dove tutto sarà il contrario della limitatezza data dai confini cui siamo abituati. Il mondo perfetto, capovolto rispetto all’ieri, all’oggi e al domani, non rientra dunque nelle possibilità umane di creare qui le precondizioni perché ci si avvicini a ciò.

Ma sta nell’imponderabile, nell’invisibile, nell’oltre il proprio tempo terreno. La forza della religione è speculare rispetto alla debolezza strutturale umana: non tanto fisicamente intesa, ma più psichicamente tale. Il controllo sociale delle masse, del resto, non è una scoperta recente. I Dieci comandamenti, come esempio tra gli altri, sono regole anzitutto socio-antropologiche: sono comportamenti da tenere in vita per garantire un equilibrio, un ordine nella comunità, rispettando una catena di comando.

Dio, famiglia, forse anche un lontano concetto di patria che, migliaia di anni fa, risiedeva nel concetto della “nazione” come entità popolare propriamente detta. Festeggiamo il Natale conoscendone l’origine storica e la sua evoluzione nel tempo. Anche per chi non ha fede sarà il modo di rientrare nella pienezza di un mondo che non ci è estraneo e non deve esserci estraneo. Basta affrontarlo e viverlo con la giusta dose di critica e di disincanto.

MARCO SFERINI

24 dicembre 2024

Foto di Emre Can Acer

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