Nella repentinità dei commenti coccodrilleschi che seguono sempre alla morte di una grande personalità, tanto della cultura quanto della politica, tanto dell’economia quanto della società, in generale si finisce sempre con l’esagerare sia nel settore detrattioriale sia in quello elogiativo e panegiricheggiante. E’ un dato di fatto molto comune, trasversale, interclassista. Usiamo pure tutti gli aggettivi che vogliamo, così è, così continuerà ad essere.
Non fa differenza il coro di celebrazioni agiografiche che ricordano la figura di un uomo come Giorgio Napolitano: un comunista di altri tempi che, oggi, alcuni giornalisti, per l’appunto frettolosoamente, definiscono il primo del PCI ad essere arrivato al Quirinale e ad aver ricoperto, per la prima volta nella storia della Repubblica, quella carica per due volte. Anzi, per una volta e mezzo, visto che del secondo mandato fece solamente i primi due anni.
Per meticolosa precisazione, Napolitano fu il primo ex comunista a divenire Capo dello Stato. E lo fu quando del PCI in Italia c’era la memoria storica di un grande partito di popolo, di lotta e di grande opposizione politica e sociale. La stagione del comunismo italiano era già stata superata da quella trasformazione che anche i “miglioristi” come re Giorgio avevano appoggiato nella mutazione radicalmente genetica che portò alla nascita del Partito Democratico della Sinistra (PDS).
Il sogno di una vita si avverava: fare del PCI qualcos’altro da sé, un partito riformista e trascinarne la comunità, il Paese nel Paese di pasolinana rimembranza, verso lidi socialdemocratici, abbandonando la radicalità – comunque riformatrice – di una pratica dei comunisti in Italia che aveva ereditato fino alla fine degli anni ’89 il lascito berlingueriano della distinguibilità morale, dell’intransigenza e dell’austerità di un’etica che doveva distinguersi dalle compromissioni democristiane con i poteri economici e con tutto il largo giro di malaffare che avrebbe, di lì a poco, travolto il Pentapartito e i suoi governi.
Nell’intervento al XX Congresso del PCI a Rimini, nel gennaio del 1991, nel pieno del biennio di una crisi epocale per l’Europa e il mondo, che avevano assistito alla fine di un primo multipolarismo dell’era moderna e al troneggiare tronfio della rivincita statunitense di un capitalismo che muoveva i suoi primi, importanti e deleteri passi liberal-liberisti, Lucio Libertini scriveva:
«Io spero ardentemente che in questo senso il Congresso abbia una svolta, perché ritengo preziosa l’unità che in forme nuove è oggi possibile. Perché sarebbe terribile e imperdonabile disperdere l’enorme patrimonio umano, sociale e ideale del Partito comunista italiano. Vedete, io rispetto il diritto del compagno Napolitano, e di altri, di dirsi socialista riformista, e cerco nel dissenso di cogliere il valore dell’esperienza che vuole compiere.
Ma credo sia giusto che altri riconoscano il nostro diritto e il nsotro dovere di lavorare senza chiuderci nella pratica odiosa delle correnti, per la rifondazione comunista, per una teoria e una pratica della democrazia, della libertà, dell’emancipazione umana che io credo più di ieri appartenga al futuro».
La potenza della dialettica interna al PCI fu, va detto con estrema limpidezza e senza infingimenti, sempre riconosciuta reciprocamente da tutti gli appartenenti al grande partito dei lavoro e della causa del progresso sociale. Nell’anche aspro confronto tra Napolitano e Berlinguer, proprio sul posizionamento del partito entro i termini di confronto politico con le altre forze della sinistra e del centrosinistra (ad iniziare dal PSI di Craxi, passando per la Nuova Sinistra prima e la cosiddetta “estrema sinistra” poi), non venna mai meno la correttezza e la vicendevole stima.
I tempi cambiarono rapidamente, con un liberismo che imponeva all’Italia ed all’Europa non solo più la fedeltà nordatlantica come base di distinzione nei confronti del mondo sovietico e della minaccia rappresentata dall’URSS rispetto a quello che, con una presunzione etica veramente ampollosa, si autodefiniva “il mondo libero e democratico“, ma anche e soprattutto una piena adesione all’incontrovertibile dogma mercatista e finanziario.
Napolitano, Fassino, Occhetto, D’Alema, Veltroni, Iotti e molti altri ex dirigenti del PCI divennero, in fondo, ciò che erano un poco sempre stati: degli istituzionalisti a tutto tondo. Non che fosse una loro caratteristica precipua. Ma di sicuro un tratto distintivo rispetto ad una renovatio di una sinistra in Italia che intendeva ancora guardare ad un piano sociale prima ancora che al compatibilismo con le tesi del libero mercato e con la presunzione di innocenza concessa al teorema del salvifico ruolo di quelle privatizzazioni che sostituiranno il pubblicismo nella teoria e nella pratica del PDS prima e dei DS poi.
In questo preciso ricollocamento di una parte del riformismo italiano dal progressismo alla conversione liberalsocialista (piuttosto che veramente socialdemocratica, per lo meno nella declinazione mitteleuropea e scandinava del termine) sta, senza ombra di dubbio, la ragione di una rivisitazione tanto delle idee quanto delle pratiche che furono dei comunisti italiani prima e dei post-comunisti italiani poi.
In sostanza, le contingenze di uno stretto attualismo dei capovolgimenti planetari di allora hanno inciso, per una buona parte, nella trasformazione involutiva (è chiaramente un punto di vista politico, volutamente di parte) dal PCI al PDS ed anche nelle ulteriori camaleontizzazioni in cui la sinistra in Italia è rimasta vittima per spirito di conformismo, di adeguamento e di opportunismo nei confronti di una modernità ideologica che, sposando l’alternanza piuttosto dell’alternetiva, ha finito col somigliare sempre di più alla destra.
Napolitano è stato, tra gli altri, senza possibilità di smentita, un protagonista della liquidazione del comunismo italiano: non tanto del suo portato storico, cui ha appartenuto appieno, con tutte le specificità che ha dimostrato lungo la ultracinquantennale esperienza di deputato, senatore, Ministro dell’Interno, Presidente della Camera dei Deputati e, infine, Presidente della Repubblica Italiana. Quanto, nell’accompagnare, passo dopo passo, il nuovo corso con una autorevolezza che gli va riconosciuta in quanto sintesi della capacità politica che si era guadagnato sul campo e quella che gli era stata concessa sulla fiducia da compagne, compagni ed elettori.
Una fiducia di un popolo comunista e di sinistra che si è andata sempre più separando da un Napolitano sempre meno uomo di parte e di partito e sempre più uomo delle istituzioni e, da questo punto di vista, completamente dedito ad un interclassismo praticato, a dire il vero, non soltanto con l’arrivo al Quirinale e la necessità di rappresentare una terzietà ineludibile.
Già negli anni del tentativo di compromesso storico con la DC, immediatamene – o quasi – dopo il colpo di Stato che aveva deposto Salvador Allende in Cile e instaurato la feroce dittatura militar-fascista ultracapitalista di Augusto Pinochet, mentre Berlinguer tentava la saldatura tra autonomia dei comunisti nella lotta e dialogo con il resto dell’arco costituzionale, rimanendo su posizioni di difesa dei valori e delle esigenze della classe lavoratrice e degli sfruttati tutti, Napolitano teorizzava la diminuzione dei salari per aumetnare le possibilità di una rirpresa economica generale, nazionale.
La rappresentanza della destra del PCI, dell’ala cosiddetta “migliorista“, che guardava all’unità di intenti con il PSI e a spostare dunque i comunisti fuori dall’orbita del sovietismo – cui comunque la critica berlingueriana non lesinava nessuno sconto riguardo le contraddizioni tra diritti umani, civili e sociali che risultavano inconciliabili nel capitalismo di Stato dell’URSS – gli venne attribuita naturalmente.
Mentre Ingrao era l’ala sinistra del partito e Berlinguer quella, per così dire, “montagnarda“, di un centrismo conciliatore e unificante, Napolitano era l’uomo apprezzato dagli americani, da Kissinger, da coloro che in lui scorgevano il comunista con il quale era possibile dialogare oltre gli schemi preconcetti di un anticapitalismo che, nonostante tutto, resisteva nel grande popolo che aveva vissuto le stagioni di Togliatti e di Longo.
Con la fusione tra cultura socialdemocratica, liberalismo e cattolicesimo sociale nell’anomalia tutta italiana rappresentata dal PD, Napolitano sceglie di rimanere “indipendente“, pur riconoscendosi nella nuova sincretizzazione politica che apre all’innovazione definita con aggettivi tutti a stelle e strisce: alternanza, governismo, stabilità politica, compatibilità economica, riforme condivise, liberalizzazioni, privatizzazioni, mobilità e modernizzazione.
E’ lui il principale ispiratore del governo Monti, uno di quelli che hanno massacrato i diritti del mondo del lavoro e delle pensioni. Un tecnicismo delle parti nel nome di quella unità “patriottica” che piace tanto al post-comunismo che vorebbe giganteggiare con le destre sul versante di una cultura economica nazionale entro un europeismo che, invece, pensa esclusivamente a diventare una grande centrale cassafortizia priva di qualunque scrupolo per i paesi più deboli e indebitati.
Riesce sempre più difficile, a chi nel 1991 si oppose alla svolta della Bolognina e alla fine del PCI, riconoscere in Napolitano un comunista al Quirinale. Esattamente come lo appellano oggi molti giornali che lo ricordano con un eccesso di generosità politica, con qualche tratto certamente involontario di revisionismo storico dettato da un pressapochismo comunque non passabile sotto silenzio.
E riuscirà ancora di più complicato vedere in Giorgio Napolitano un uomo della sinistra riformista allorché fermerà il tentativo di Pierluigi Bersani di formare un governo sorretto da una maggioranza parlamentare in entrambe le Camere, provando ad interagire con il crescente, istrionico e pericoloso populismo pentastellato.
La prudenza di un Capo dello Stato è certamente giustificabile con quella terzietà citata poco sopra. Ma alcune decisioni e alcuni sferzamenti dell’attività parlamentare e dell’improduttività dei partiti in una tenzone continua e molto autereferenziale, sostanzialmente sembreranno, più che un richiamo al legittimo e necessario dibattito democratico, un richiamo all’ordine, un dettame veramente monarchico.
Il suo istituzionalismo si fece progressivamente avanti e sopravanzò l’uomo di parte e di partito che era stato. Alcuni tratti del socialista riformista che aveva provato ad essere rimasero, ma molto tenui rispetto al suo nuovo carattere universalista e decisametne accondiscendente verso il sistema economico dominante.
Va apprezzato un umanesimo che, proprio intrinseco al passato di comunista, ogni tanto emergeva con sincera commozione.
Nel maggio del 2009, durante le celebrazioni del “giorno della memoria” riguardante le stragi del terrorismo e tutto quello che ne conseguì, si rivolse con commozione a Licia Pinelli per riabilitare la memoria di suo marito e per esigere che gli fosse restituita quella dignità che dal quarto piano della Questura di Milano gli era stata negata. Così come era stata negata all’Italia intera da una stagione di chiaroscuri, di ombre, trame ed efferatezze tutte portate avanti per sovvertire quella Repubblica che Napolitano, indubbiamente, ha amato.
Addio, dunque, all’ultimo grande anziano di un comunismo e di una sinistra che non ci sono più. Bisogna innovare, rinnovare, continuare a rifondare per arrivare ad una nuova stagione del progressismo italiano, del comunismo come anticapitalismo moderno, come necessità per l’oggi e per il domani.
Addio a Giorgio Napolitano, addio (senza rimpianti) al migliorismo italiano.
Sincere condoglianze alla moglie e ai figli.
MARCO SFERINI
23 settembre 2023
foto: screenshot You Tube