Eroe per alcuni, despota per altri, un eroe divenuto despota per i più. «Un’icona della liberazione» ha tagliato corto Emmanuel Mnangagwa, il suo successore alla guida dello Zimbabwe, nel dare ieri la notizia: Robert Mugabe, 95 anni, è morto in un ospedale di Singapore. Nel tweet in questione c’è la classica «immensa tristezza» e lo stesso affetto omertoso usato da Mnangagwa in occasione del benservito che nel 2017 lui stesso, da ex vice – dopo essere stato rimosso, dacché era diventato l’ultimo ostacolo alle brame di successione della moglie di Mugabe, Grace – aveva dato all’anziano leader, da 37 anni al potere.
Ma questi sono solo gli ultimi fotogrammi di una lunga storia. Mugabe poteva credibilmente essere ricordato per l’epopea del ragazzino assetato di istruzione che osa l’inaudito in un paese in cui la segregazione razziale difficilmente si distrae; il giovane insegnante che si ritrova in Ghana proprio mentre si manifesta la vertigine pan-africanista di Kwame Nkrumah; il nazionalista nero della prima ora, incarcerato dal regime razzista di Ian Smith che approfitta dei dieci anni trascorsi in cella senza un’accusa precisa per prendersi due lauree; lo stratega che organizza la guerriglia e non dà tregua all’avversario finché non arriva il momento – nel 1980 – di mettere le gambe sotto al tavolo dei negoziati, per trasformare la Rhodesia in Zimbabwe.
Dopo la vittoria Mugabe ebbe anche il buon gusto di non impedire l’ingresso nel nuovo parlamento a Ian Smith, che pure nel 1966 gli aveva negato il permesso di lasciare il carcere per il funerale della figlia di 3 anni.
Ma qui finiscono i possibili motivi d’ispirazione per un altro leader che come lui aveva frequentato l’università sudafricana di Fort Hare, Nelson Mandela. E iniziano quelli per cui Mugabe, una delle grandi illusioni del marxismo pan-africano, verrà più probabilmente ricordato: ad esempio il format nord-coreano adottato per il suo regime, che non si ferma allo straculto della personalità e all’addestramento dei suoi pretoriani a Pyongyang; le sorti sanguinose della frattura all’interno del Zimbabwe African National Union, a cui aggiungerà la particella Patriotic Front (Zanu-PF) e il massacro delle popolazioni Ndebele nel Matabeleland («fu un momento di follia», disse in occasione dei funerali di Joshua Nkomo nel 1999); la dissociazione in base a cui all’Onu Mugabe difendeva con passione le ragioni dei paesi oggetto di aggressioni di stampo imperialista mentre in patria adottava metodologie brutali per togliere ossigeno al dissenso; il disastro economico a cui ha abbandonato il paese, che costringerà molti a cercare fortuna oltre il fiume Limpopo, in un Sudafrica economicamente rampante ma che – altro passaggio illusorio nella storia della regione – si è rivelato assai meno ospitale del previsto.
Persona non grata a molti, Robert Mugabe è stata una discreta spina conficcata nel fianco di Londra, con i suoi discorsi ad alzo zero che culminarono con l’uscita dal Commonwealth, quando però ne era già stato sospeso. Ma, paradossalmente, diversi aspetti della sua personalità trasudano autentica britishness: i modi ostentati da gentleman, l’eloquio non privo di raffinatezze nella lingua dell’ex dominatore, l’amore quasi filosofico per il cricket, il versante più sobrio del suo guardaroba.
Sempre più populista e meno popolare, fece molto rumore con la stura data alla requisizione dei latifondi ancora controllati dai bianchi, misura presa in modo tardivo e allo stesso tempo precipitoso, giusto per dare una mancia ai suoi fedelissimi, che si rivelò del tutto improduttiva per la popolazione castigata dalla crisi. Più che la fascinazione per Mao, comune ad altri leader africani, in Mugabe c’è l’adesione entusiasta alla logica degli investimenti cinesi, gli stessi che molti anni dopo spingeranno al decisivo passo avanti il suo vice.
Quando nel 2012 girarono voci sulla sua morte, lui disse che sì, era morto e resuscitato molte volte, a differenza di Gesù che lo aveva fatto una volta sola. Di vite ne ha avute almeno due, ma per effetto della profonda metamorfosi che da un certo punto in poi ha corroso la sua promessa di giustizia. Il combattente per la libertà che si è preso sulle spalle le aspirazioni di un intero popolo diventerà presto un tiranno megalomane, ostaggio di un entourage corrotto e di una passione compulsiva per il potere assoluto.
Tra le infamie minori ma non meno significative che gli sono state attribuite, c’è anche il disappunto manifestato per l’invito rivolto a Bob Marley, nell’aprile 1980, per suonare alla festa dell’Indipendenza. Le malelingue sostengono che avrebbe preferito Cliff Richard, melenso cantante pop inglese. Ma è lecito supporre che non gli sarebbe dispiaciuto un pianista classico, perché non sopportava che venissero sostituiti i vecchi luoghi comuni tribalisti con altri, a base di treccine e marijuana. E pazienza se grazie a Marley (cfr. Zimbabwe, dall’album Survival del 1980) la sua lotta di liberazione aveva appena impattato con un immaginario tanto più vasto, che andava ben oltre i confini dell’odiato impero britannico. Una certa intolleranza forse era dovuta al fatto che anche grazie alle idee diffuse da Marley c’erano stati già sotto il regime di Ian Smith tentativi “musicali” di anticipare i tempi, con una sorta di Woodstock locale che non venne capita da nessuno, se non come pericolosa distrazione. Esuberante e profondamente conservatore, come potrebbe esserlo oggi un Boris Johnson, Mugabe non ha mai perso occasione d esibire le sue riflessioni omofobiche, a proposito di diritti schiacciati.
Tra vecchi leader delle indipendenze africane gli sopravvive il solo Kenneth Kaunda, ex presidente dello Zambia e suo coetaneo.
MARCO BOCCITTO
foto tratta da Wikimedia Commons