Tutto ad un tratto sembra che la metà di ogni cosa sia regola. Forse anche meno della metà. Perché a girare ora per le nostre piazze e vie, a dare un’occhiata alle spiagge mentre si passeggia sulle riviere e a rivedere la comparsa dei riti della “movida“, pare che le regole sanitarie siano andate tutte a farsi dare una santissima benedizione. Anche se non si sa bene in quale santuario.
“Movida“, termine spagnolo, che vuol dire “movimento“. A me piace pensarlo di più come una sorta di crasi tra le parole: “movimiento” e “vida“. Subito dopo la fine del regime del generalissimo Franco, la movida era il ritorno alla libertà, sinonimo popolare per ogni recupero di spazio e di agibilità democratica nonostante la monarchia.
L’oppressione falangista di troppi decenni aveva confinato soprattutto le menti degli spagnoli in una controdinamica personale e collettiva: l’asfissia provocata dalla dittatura se ne era andata. Si poteva tornare a respirare, a gestire la propria esistenza senza vincoli che imbrigliassero la volontà: di muoversi per l’appunto, di agire, di pensare per iscritto, di esprimersi in pubblico, di ritornare ad essere non più sudditi del tiranno golpista ma nemmeno cittadini pienamente liberi di una rinata repubblica.
La movida, dunque, per me è libertà, anche se non la frequento, non la amo come fenomeno esclusivamente modaiolo, da dandy dal sapore moderno ricco di un giovanilismo quasi esclusivista che impone anche al più senior dei senior di adeguarsi a determinati standard.
Il coronavirus ne aveva decretato bruscamente la fine: non per un colpo di Stato nato in qualche zona coloniale come nel 1936 nell’Africa spagnola. Semplicemente per una chiusura totale dettata da un virus. La libertà si può perderla anche a causa di disastri naturali, di incidenti personali e la si può recuperare soltanto se si ha una forza di volontà e una determinazione critica nel rivedere errori del passato che però non è propria di tutti i caratteri.
Del resto, come si può affermare che ciò sia una colpa. Ognuno è unico nel suo genere ed esprime questa sua unicità cercando di farsi largo in una società che a volte non comprende, a volte disprezza volutamente, altre volte subisce adeguandosi al corso degli eventi, lasciando agli altri il compito di modellare il destino anche proprio.
Gli schemi delle protezioni sanitarie sono stati una limitazione delle libertà costituzionali. Dettati però dalla Costituzione stessa, per proteggere la popolazione: come abbiamo potuto osservare, soprattutto le fasce più deboli sul piano fisico: anziani e persone con patologie che abbiamo imparato a definire “pregresse“.
Adesso quegli schemi, quelle direttive – molte delle quali sono ancora in vigore – sono lasciati al liberissimo soggettivismo di ciascuno. Ma non è detto che la libertà rubata dal singolo sia sempre buona soltanto perché è libertà di fare e di agire senza attendersi qualche sanzione o punizione, senza ritenere – soprattutto – di essere giudicato da tante dita puntate e da tanti sguardi che ti fissano mentre passi per strada. Più della legge, sovente, vale il giudizio moralistico della società: ancora di più, purtroppo, ha forza di condizionamento il pregiudizio…
E’ comprensibile che, dopo una primavera passata completamente tra le mura domestiche, si voglia vivere l’estate in piena spensieratezza. Soprattutto i giovani stravolti da una didattica che non conoscevano, sconvolti dall’implosione di tutte le forme di relazioni sociali che fino ad oggi avevano conosciuto e forse dato per scontato non potessero, non dovessero mai mutare.
Ma il virus non la pensa così. Non è scomparso. Vive e non lotta insieme a noi. Anzi, lotta contro noi. Sarebbe bene tenerlo a mente e mettere in pratica molto semplicemente le precauzioni del caso: il che vuol dire rispetto vicendevole, l’indossare la mascherina sempre e comunque quando si incontra qualcuno, anche all’aperto. Togliersela per mangiare un gelato, per sedersi da soli su una panchina all’ombra di un bell’albero per godersi il fresco del mattino o quello del vespro, magari osservando il mare che è lì a due passi. Magari leggendo anche un bel libro.
La mascherina soffoca un po’ tutto. E’ vero. Ci impedisce di respirare correttamente, cela i nostri lineamenti, la nostra riconoscibilità nei confronti degli altri e comprime persino il tono della nostra voce. I nostri sensi vengono smezzati e, in poche parole, sono repressi da un gesto però di rispetto, di altruismo. Chi indossa la mascherina infatti, a meno che non ne abbia una del famoso tipo FFP2 (e senza valvola!), protegge gli altri dal Covid-19, molto poco sé stesso.
Se tutti le avessimo avute, indossate per tempo, forse il virus avrebbe decelerato la sua corsa molto prima di questo fine di giugno in cui il caldo inizia a farsi sentire con virulenza. Si spera di riacquistare la libertà grazie alle alte temperature: ma che depotenzino la carica virale del nuovo coronavirus è, per usare ancora una termologia usata e abusata alla grande in questi mesi, una “evidenza scientifica” che manca.
Mettere la mascherina, vista la curva discendente dei contagi, è da stupidi oggi? Sembrerebbe quasi di sì se si osservano i comportamenti un po’ generali della popolazione. Comportamenti che sono quasi inevitabili nel momento in cui la percezione che ne deriva dall’ascolto dei telegiornali, dalla lettura dei quotidiani e, soprattutto, dalle notizie che si reperiscono su Internet diviene quel “senso comune” che finisce, giorno dopo giorno, per somigliare sempre più ad una verità scientifica mai data, mai detta che tende ad esorcizzare i timori di ciascuno, il “panico” del singolo individuo per evitare quell’implosione della “massa” (studiata e descritta da Elias Canetti nella sua opera “Massa e potere“) che reprime la voglia di fuga dell’uno nei confronti del molteplice.
E’ una sorta di istinto collettivo che sente di dover fermare qualunque altro istinto distinguibile dal resto della società che mette così in essere meccanismi di difesa per rimanere compatta e unita davanti alle avversità. Lo abbiamo potuto osservare proprio nei mesi della chiusura totale, soprattutto in marzo, il mese delle grande crescita della curva dei contagi: è stato il momento più duro, quando si sono messe in atto le peggiori paure di una vera e propria diffusione totalizzante del virus.
Le contraddizioni sulle cosiddette “evidenze scientifiche” che mancavano e che tutt’ora si faticano a vedere, l’assenza di qualunque certezza che potesse schermarci con sicurezza dal rischio di essere infettati, sono tutti fenomeno che hanno indotto il panico, la violazione delle zone rosse di singole persone, di piccoli gruppi famigliari che, con i pretesti più strampalati (e per questo sinonimo e sintomo di disperazione) fuggivano verso regioni dove si registravano meno contagi, dove l’onda del Covid-19 pareva non arrivare.
La fuga verso il Sud, invece, è stata quasi “di massa“, ma provocata da un istinto singolo, non organizzata da una comunità storicamente e socialmente data, ma – si potrebbe dire – “improvvisata“. Tuttavia una massa contro un’altra massa. Una ennesima dimostrazione che l’analisi sociologica di Canetti vale soprattutto oggi, laddove manca l’opposto di noi stessi, il cosiddetto “bisogno del nemico“, per poter rimanere “massa“, quindi uniti, quindi tanto psicologicamente quanto materialmente più forti davanti alle avversità.
Bisogna prestare attenzione alla necessità sociale del nemico: se da un lato cementa l’identità, la compattezza degli individui, dall’altro crea delle vere e proprie “cristalizzazioni” che Canetti vede nelle forme più differenti assunte nel tempo da ristrette cerchie di persone: corti principesche, clero, oligarchie di vario genere, caste militari e, su tutto ciò, la dicotomia tra distinte classi sociali.
La lotta di classe, potrà anche sembrare curioso, c’entra anche con il coronavirus, perché il virus cessa di essere tale nel momento in cui diventa un fenomeno per l’appunto “di massa” e assume i connotati di una nuova rivoluzione in termini economici, quindi di rapporti di proprietà, di gestione delle ricchezze e delle povertà. Del resto, le dichiarazioni del presidente dei Confindustria Bonomi hanno reso del tutto palese l’offensiva padronale nei confronti non tanto dei lavoratori singolarmente intesi, quanto dei provvedimenti politici tesi a mitigare l’impatto della crisi sanitaria sul complesso mondo del lavoro.
Ecco che, osservata da questo punto di vista, anche la semplice movida ribelle alle buone norme di contenimento della pandemia appare come un piccolo elemento di un più grande schema che interessa globalmente l’intera umanità, tutti gli esseri viventi.
Del resto, come la natura tenta di tenere armoniosamente unita la sfera su cui viviamo (nonostante la nostra deleteria presenza plurimillenaria), così il più ristretto campo del civismo deve legarsi ad una visione egualitaria dei diritti. Anche quelli fondati sul principio della primazia della salute pubblica. Uno sviluppo sociale non può prescindere dall’individuo. Ma non può nemmeno prescindere dalla massa.
Per questo, l’educazione civica, il rispetto reciproco, sono sinonimo di uguaglianza nella Repubblica e sono espressione culturale di una comunità che può rimanere compatta, unita senza aspirare a quella unicità di conformazione tanto cara ai sovranisti, la cui parola d’ordine non è “differenza nell’uguaglianza” ma “adeguamento alla maggioranza“.
Mettersi la mascherina, laddove necessario, non deve essere un comportamento spinto dalla norma, dalla Legge. Deve essere un atto istintivo. Per questo, profondamente civico, civile e sociale al tempo stesso.
MARCO SFERINI
24 giugno 2020
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