La notizia della distruzione della moschea al-Nuri di Mosul è stata accompagnata dalle celebrazioni per l’imminente sconfitta dello Stato islamico. Per molti, quella moschea scelta da al-Baghdadi come palcoscenico per l’investitura a Califfo dell’umma islamica incarnava l’utopia del progetto statuale dell’Is. Distrutte le sue mura, crollato il minareto di al-Hadba, verrebbe meno anche l’ambizioso progetto di al-Baghdadi. È così solo in parte. Non solo perché, come ha ammesso il generale Joseph Martin, a capo della coalizione a guida americana contro l’Is, «la battaglia per la liberazione di Mosul», cominciata 8 mesi fa, «non è ancora finita». Ma soprattutto perché la storia dello Stato islamico, la resilienza e la flessibilità strategica dei gruppi che l’hanno preceduto, suggeriscono cautela.
La distruzione della moschea al-Nuri segna uno spartiacque. È qui infatti che è stato messo in scena il più importante spettacolo del jihadismo contemporaneo. Il 29 giugno 2014, l’allora Stato islamico in Iraq e nel Levante pubblica due video che mostrano la conquista e l’irrilevanza dei confini stabiliti dai patti di Sykes-Picot, l’Asia agreement con cui dopo la prima guerra mondiale Francia e Inghilterra si spartiscono la regione.
In un successivo comunicato audio, il portavoce al-Adnani annuncia la nascita dello Stato islamico, retto dallo «sceicco, il combattente, lo studioso che pratica ciò che predica, il devoto, il leader, il guerriero, il discendente dalla famiglia del Profeta, il servo di Allah». Il 4 luglio Abu Bakr al-Baghdadi si esibisce sul pulpito della moschea di al-Nuri, presentandosi come il Califfo Ibrahim. Nel panorama jihadista, il video di quell’esibizione, pubblicato il giorno successivo, desta clamore. Molti danno credito a quel piazzista di merci contraffatte, impacchettate dentro involucri teologici.
Il Califfo vende un prodotto che nessun altro gruppo jihadista – tanto meno al-Qaeda – era riuscito a ottenere: uno Stato vero e proprio, dotato di una macchina amministrative e burocratica; l’avveramento delle profezie, che vendica le umiliazioni subite e restaura la gloria perduta. «Oh musulmani, correte nel vostro nuovo Stato. Sì, è il vostro Stato. Accorrete – dice al-Baghdadi – perché la Siria non è per i siriani, e l’Iraq non è per gli iracheni. La terra è di Allah».
Sceglie la moschea di al-Nuri in omaggio al padre putativo del movimento, il jihadista giordano Abu Musab al-Zarqawi. Già leader di al-Qaeda in Iraq, al-Zarqawi era un profondo ammiratore di Nureddine al-Zanqi, fondatore della moschea e fiero oppositore dei fatimidi, la dinastia sciita sconfitta nel 1171 da Saladino. Più di 800 anni dopo, al-Zarqawi e poi al-Baghdadi ne ereditano il feroce settarismo confessionale, aggiornandolo. Al-Zarqawi lo invoca e lo pratica fino al 7 giugno 2006, quando viene ucciso. L’intelligence ritiene che il suo gruppo sia destinato a evaporare, come oggi si pensa dell’Is. Quattro mesi dopo nasce lo Stato islamico di Iraq. Non siamo «gli eredi di Sykes-Picot», insistono i barbuti, ma «i figli del profeta Maometto». Quel progetto statuale rimane però solo sulla carta. Gli anni dal 2007 al 2010 sono segnati dal «ritiro rurale» nelle aree desertiche, anni di ripiegamento, di insorgenza classica, non di controllo territoriale, tanto meno di amministrazione statuale. Il «ritiro rurale» è oggi, insieme al consolidamento dei fronti regionali fuori dal Califfato, una delle possibili vie d’uscita di al-Baghdadi dall’erosione dei territori controllati in Siria e Iraq. La rotta l’ha indicata il portavoce al-Adnani prima di essere ucciso. Nel maggio 2016 al-Adnani derubrica la territorialità – fin lì centrale nella propaganda – a elemento secondario.
Lo Stato islamico non può essere ridotto alle terre che controlla e governa, dice, perché incarna un’ideologia e un’utopia che resistono alla pressione militare. Le sconfitte sono apparenti. La vittoria finale posticipata. Come per Saladino, come per i suoi predecessori che hanno lottato per espandere l’Islam fuori dalla penisola araba, le sconfitte sono una prova divina. Indispensabili per distinguere gli autentici fedeli dagli ipocriti. In quest’ottica, gli ipocriti prenderanno la perdita della moschea al-Nuri come un pretesto per abbandonare la lotta. Per i veri devoti, sarà l’occasione per intensificarla. «Perché la vera sconfitta – ammoniva al-Adnani – è la perdita della volontà e del desiderio di combattere».
GIULIANO BATTISTON
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