«Dopo la fine della guerra fredda un sistema globale di stabilità bipolare ha lasciato il posto ad una più complessa e imprevedibile varietà di forze, ivi compresi imperi in declino e potenze in ascesa, una situazione che invita al confronto con l’Europa del 1914» (Christopher Clark, I sonnambuli, 2013). Nota ancora Clark: «Coloro che ebbero la responsabilità delle principali decisioni (…) camminarono verso il pericolo con passi guardinghi e calcolati».
Oggi si può leggere sulla stampa che l’Ue potrebbe sparire prima dell’ingresso dell’Ucraina (Medvdev); che l’esercito inglese deve prepararsi a combattere in Europa (il Capo dell’esercito britannico); che saranno ripresi i sacri confini del 1991 (Zelensky); che la Lituania blocca i treni per Kaliningrad dopo aver sentito Bruxelles; che la Russia avrà operativi entro la fine dell’anno i missili ipersonici Sarmat, armi di incredibili potenza distruttiva (Putin); che la Russia è il nemico e la Cina è avvertita (Ambasciatore italiano alla Nato), che per avere la Nato allargata ad ex Paesi neutrali come Finlandia e Svezia vendiamo, letteralmente, il popolo curdo al massacratore Erdogan baluardo sud atlantico.
Dove stanno i limiti della «cautela»?
I «sonnambuli» del 1914 non erano a conoscenza degli effetti che il salto di qualità delle tecnologie belliche avrebbe avuto sui caratteri catastrofici della guerra verso cui si stavano incamminando. L’ultimo conflitto tra potenze europee nel continente risaliva al 1870. I decisori attuali ne hanno, invece, piena contezza e avanzano con calcoli ottenebrati da una lucida follia.
L’odierna crisi, è ovvio, si svolge in un contesto assai diverso rispetto a quella del 1914, e non solo per la presenza della variabile nucleare, ma anche perché è cambiato il rapporto Europa-mondo, e di conseguenza i caratteri dei diversi imperialismi. In particolare il rapporto tra imperialismi continentali e concezione di dominio imperiale del mondo, anche se i due aspetti s’intrecciano nel viluppo costituente la crisi. Non è cambiata, però, la logica della relazione imperialismi/nazionalismi come componente essenziale di tale viluppo.
Il meccanismo sistemico della componente nazionalista si muove a seconda delle variazioni concernenti gli interessi delle oligarchie che hanno governato e governano le repubbliche ex sovietiche, Russia ben compresa. Il nazionalismo grande-russo, naturalmente, è elemento determinante nella tensione tra le identità con la manipolazione costante della storia «patria». Un’identità manipolabile e manipolata, ma costruita su basi storiche reali. In altre esperienze di micro-nazionalismi si è andati spesso ben oltre un uso spregiudicato dell’«invenzione della tradizione».
Nel 1991, al momento della fondazione delle nuove statualità (il termine «indipendenza» è del tutto fuorviante rispetto al risultato di uno scioglimento consensuale gestito dagli stessi gruppi dirigenti delle repubbliche sovietiche), la strada di coltivare le pulsioni nazionalistiche era pressoché obbligata.
Ciò è avvenuto, però, in un quadro in cui gli stati «nuovi» altro non erano che le vecchie circoscrizioni politico-amministrative sovietiche. In un quadro, cioè, nel quale i confini erano disegnati secondo una progettualità del tutto interna ai meccanismi di una statualità costruita sull’interdipendenza di tutte le componenti. Componenti delle quali la base etnico-linguistica era fortemente parziale e necessariamente convivente con altre realtà dello stesso genere.
D’altra parte dopo il 1991, il nazionalismo più spinto era l’unica forma di legittimazione su cui screditate oligarchie già sovietiche potevano, e possono, contare con sicurezza.
Si tratta però di una operazione da apprendisti stregoni; tali pulsioni quando entrano in un contesto di conflittualità aperta diventano facilmente incontrollabili. I confini, anche se fortuiti, diventano sacri custodi di una naturalistica e antistorica «ucrainità», «uzbekinità», ecc. Per quei confini dulce et decorum est mori.
Oggi le logiche di tali pulsioni s’intrecciano con un sistema di relazioni internazionali già conflittuali alla fine del secolo scorso e giunte ad un punto in cui la tentazione di sciogliere nodi globali nel locale (per ora) del martoriato terreno ucraino viene apertamente sostenuta.
È difficile, quindi, confidare in «passi guardinghi e controllati». La sinergia tra gestione militare del mondo e del dollaro da parte degli Stati uniti e della loro appendice Nato, l’imperialismo territoriale della tradizione Grande russa, il micronazionalismo assoluto dei nuovi stati che si definiscono come entità basate sulla monodimensionalità di una nazione, formano un composto instabile e tendenzialmente esplosivo.
Nella manifestazione dei nuovi nazionalismi seguiti alla dissoluzione dell’Urss non c’è nessuna traccia di progettualità concernente la sfera della democrazia sociale e dunque, anche politica. Il nazionalismo ha sostituito, con successo, il programma di emancipazione dei subalterni. Il nazionalismo ha assunto la stessa funzione avuta dall’antisemitismo al tornante dei secoli XIX e XX. Giustamente, allora, fu definito come «il socialismo degli imbecilli».
Questo giornale (8 giugno) ha pubblicato sulla guerra in Ucraina uno degli interventi più incisivi per definire il punto di vista del nostro campo (F. Contini, Il conflitto nel racconto della badante). Ecco è di lì che bisogna ripartire, dalle ragioni di coloro, i subalterni, che saranno gli sconfitti di questa guerra, chiunque tra i belligeranti risulterà vincitore sul campo di battaglia. Ammesso che un campo dove misurare la vittoria o la sconfitta ci sia ancora.
PAOLO FAVILLI
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