Molteplice abitudine: soggettiva e oggettiva, intrinseca ed estrisenca

Tempo fa, quando ancora era viva la mia cagnolona Bia, potevo osservare ogni giorno, anzi ogni mattina di ogni giorno, un signore che sedeva sempre sulla stessa panchina dei...

Tempo fa, quando ancora era viva la mia cagnolona Bia, potevo osservare ogni giorno, anzi ogni mattina di ogni giorno, un signore che sedeva sempre sulla stessa panchina dei giardini. Probabile che abbia pensato che anche io avessi una abitudine, perché mi osservava passare così come io osservavo lui.

Passeggiavo mentre il sole si alzava oltre l’orizzonte. Lui se ne stava a leggere il giornale davanti al mare e mi faceva un cenno col capo al mio passaggio. Non ci siamo mai parlati. Solamente questo scambio di sguardi che era un rispetto dettato da un incontro solitario, vista l’ora e la quasi completa assenza di altre persone intorno.

Stava sempre sulla stessa porzione di panchina, mai al centro, mai a destra. Sempre sulla sinistra (ma anche questo dipende dal punto di vista di chi osserva così come da quello di chi è osservato). In ogni stagione, salvo naturalmente nei giorni in cui tirava troppa tramontana o imperversava Giove Pluvio, lui era lì e io altrettanto. Quel saluto espresso attraverso la mimica dei volti e il reclinare il capo reverentemente, aveva un qualche cosa di antico e di nuovo ogni volta che, senza averlo concordato, lo esprimevamo, appunto, per abitudine.

L’abitudine può essere quindi, in un certo senso, creata da noi, unendo alle nostre preferenze un contesto piacevole durante la giornata, oppure può venire vissuta su una spinta più esogena, da qualche impulsi per l’appunto esterno che ci colpisce e che ci fa apprezzare una data circostanza, inducendo una ripetizione quasi necessaria per provare nuovamente quella sensazione piacevole.

Il signore seduto sulla panchina, intento a leggere il suo quotidiano, passava in quel modo forse una mezz’ora, forse un’ora rilassandosi.

Io invece, pur magari apprezzando, soprattutto in inverno, l’evitamento dell’uscire nelle fredde ore del mattino per consentire a Bia di fare i suoi bisogni, ero in qualche modo costretto alla mia abitudinarietà. L’anziano lettore dello stesso quotidiano di ogni giorno poteva invece permettersi di scegliere. Buon per lui. Ma, ripensando ad allora, sinceramente, sarei ben contento di uscire anche sotto la più forte ventata marina e il più intenso scroscio di temporale pur di avere accanto Bia. Ha scritto Virgilio: «Omnia fert aetas (Ogni cosa il tempo porta via)»…

L’abitudine, dunque, che cos’è? Nella definizione data dal vocabolario Treccani risulta così espressa: «Tendenza a ripetere una determinata azione, a rinnovare una determinata esperienza; si acquisisce per lo più con la ripetizione frequente dell’azione o dell’esperienza stessa».

Partiamo dunque da questo punto piuttosto evidente: senza ripetizione di una data azione non c’è esperienza e, senza questa, pare difficile anche che possa parlarsi di abitudine e di abitudinarietà. Ci si riferisce qui all’ambito dell’animalità umana, ma non è escluso che anche gli animali non umani seguano – per così dire – una tendenza in tal senso.

Diverse volte e da più punti di vista (29 dicembre 2024, 17 novembre 2024, 27 ottobre 2024, 8 settembre 2024, 18 agosto 2024 per citare alcuni articoli…) abbiamo trattato del comportamento, ad esempio, della materia: si potrebbe, per un attimo prescindere dal rapporto meccanicistico che le attribuiamo come intrinsecità scientificamente spiegabile nel rapporto tra causa ed effetto, ma piuttosto, se non del tutto, ignota nell’essere appunto caratteristica di ogni elemento che compone ad esempio l’Universo nell’esistente nel suo complesso complicato e, per questo, tremendamente affascinante nello stimolare dubbi e ricerche continue.

Si potrebbe, ergo, attribuirle una sorta di abitudine a comportarsi in un determinato modo: ma pur sempre nell’ambito dell’esperienza ci troveremmo, ossia di azioni di cui non conosciamo l’origine prima ma di cui possiamo chiaramente osservare gli sviluppi. Sempre uguali o simili al punto da essere assimilabili ad un concetto di uguaglianza, seppure piuttosto lato sul terreno scivoloso della meticolosa definizione accademica di uguaglianza e di similitudine.

I greci avevano un nome ben preciso per definire l’abitudine: la chiamano ἕξις (“héxis“), ossia “attitudine“, facendola derivare dal verbo ἔχω (“éco“) ossia “avere“; questo perché l’attitudine, sinonimo di abitudine, era un qualcosa che si acquisiva.

Mediante la ripetizione comportamentale che, quindi, era anche mentale e, pertanto, coinvolgeva l’intera nostra essenza: intelletto e corpo, volontà e determinazione della medesima tramite una pratica che Aristotele nelle Κατηγορίαι (“Categorie“) include nelle modalità dell’essere: il possesso è una delle dieci caratteristiche che gli sono proprie e proprio a questa è afferente il concetto di abitudine come espressione dell’avere, dell’esprimere un “accidente” entro la sostanza che noi siamo (e che è la prima delle categorie).

Il contrario di abitudine è un concetto molto poco usato nel parlato, perché spesso il contraltare di ciò che facciamo ripetitivamente è, molto più semplicemente, il non fare, il “disabituarsi” progressivamente, a volte senza nemmeno accorgersene. Se giocassimo con la filosofia, potremmo includere nell’abitudine la disabitudine stessa, chiamandola anche più propriamente desuetudine e ritenendo quindi ascrivibile all’abitudinarietà qualunque fenomeno derivante dall’esperienza.

L’empirismo la farebbe un po’ da padrone in questo frangente e ci verrebbe da supporre che una vera conoscenza del nostro essere derivi appunto non dall’apriorismo, ma esclusivamente dal consueto, dal ripetuto.

Ma non serve qui perdersi in disquisizioni che sono autonome dal tema che stiamo trattando. Piuttosto, visto che abbiamo incluso l’origine della trattazione dell’abitudine nelle dissertazioni ellenistiche antiche, non possiamo prescindere da quelle del mondo latino e romano: non ci discostiamo molto dalla categoria del possesso declinata da Aristotele nell’Ὄργανον (“Organon“).

Infatti, si parla di habĭtus (dal verbo habere), e dunque l’abito è qualcosa di cui noi siamo primariamente forniti e che, sovente, ci cuciamo addosso senza saperlo, perché agisce per noi l’istintività, la capacità naturale di prescindere dalla volontà manifesta, individuabile e riconoscibile in quanto tale.

L’abito è sinonimo primo di abitudine e viceversa ed esprime anzitutto il comportamento, il portamento di qualcosa che ci caratterizza e ci distingue dagli altri: le abitudini, per antonomasia, sono singolari, sono nostre e nessuno ce le può strappare via se non facendo una sorta di violenza tanto al nostro tempo quanto al nostro essere, all’esprimerci anche mediante l’utilizzo dei modi in certe circostanze, così come l’adoperare cose, il relazionarsi con altre persone del tutto diversamente da come farebbe il nostro amico, il nostro parente più stretto, un semplice conoscente.

Se a passeggiare in riva al mare con Bia non fossi stato io ma un’altra persona, è probabile che il saluto col lettore sulla porzione di sinistra della panchina sarebbe risultato essere di altro modo, di altra espressione. Oppure potrebbe anche non essersi mai concretizzata una quotidiana abitudinerietà simile.

L’abitudine, per questo, non è una caratteristica ontologica, presente aprioristicamente nella nostra essenza: anche se Aristotele la pone entro il perimetro dell’avere nell’essere; semmai è un istinto che pare più facile accostare all’ente piuttosto che all’essere medesimo. Ma questi due concetti, prettamente ontologici, non possono essere nettamente separati.

E ne consegue che, almeno per il filosofo stagireta, l’essenza include la qualità del comportamento come elemento caratterizzante e non disgiungibile completamente in un processo di autonomizzazione o di indipendenza dei comportamenti, separando ad esempio l’abitudine dalla relazione, dal luogo, dall’agire in quanto fare, in quanto volontà che include anche l’istintività.

L’abito è un modo di essere, intransitivamente e letteralmente citando il verbo latino da cui proviene il termine. Ed è, pertanto, una qualità che ci diviene propria con il raffronto costante che abbiamo, giorno per giorno, con la realtà. L’abitudine, dunque, non sarebbe pienamente esplicabile come qualità umana se non esistesse altro dall’umano medesimo.

La sua esistenza è legata alla dialettica intrinseca dell’esistenza come pluralità di incontri: noi e gli altri, noi è la natura, noi è persino la nostra parte inconscia che, ovviamente senza essere evidente, ci fa diventare incessantemente ciò che siamo senza poltrire in una staticità in cui, troppe volte, pensiamo di poterci pensare e quindi accomodare con troppa disinvoltura.

In tempi più recenti, se così si può dire riferendosi a quello che Immanuel Kant pensava dell’abitudine, si arriva a classificare la stessa come espressione di un imbolsimento mentale, di una pigrizia anche emozionale e, quindi le si attribuisce un valore negativo. Abituarsi significa aggirare la capacità critica dello spirito e l’iniziativa contestuale di una volontà che è indotta ad aumentare soltanto mediante una curiosità che è, di per sé, slancio oltre la comodità della conoscenza contestuale.

Sostanzialmente, l’abitudinarietà oggi risulta più che altro quella che, molto sbrigativamente, viene definita una sorta di “comfort zone“. Chiaramente questa interpretazione è riferibile più che altro alla ripetitività dei gesti, delle azioni che costano una certa fatica tanto intellettiva quanto pratica e manuale: lo sforzo che si mette in essere è, di per sé, piena consapevolezza della necessità di mettersi in una condizione di difficoltà, per quanti vantaggi ne possano derivare.

La mente – sostiene Kant – si trova nel suo pieno vigore nel momento in cui esercita la capacità critica verso l’esistente e verso sé stessa, superandosi ogni volta che le è possibile nell’elaborazione di nuovi concetti, mediante una osservazione delle cose, dei fatti e dei nostri simili senzienti che oltrepassa lo sguardo puro e semplice, mentre arriva alla soglia del vedere per sapere qualcosa in più, per aumentare la stessa capacità di conoscenza.

L’abitudine, ovvio, intesa come ciclicità dell’osservazione, sempre uguale e sempre coerente col prima, con l’ora e col dopo, non è di stimolo all’azione critica di un occhio della mente che osserva tramite i sensi umani per prendere coscienza del reale e dell’oggettivo. Il rischio è che la capacità critica sia fermata prima ancora di potersi esplicare in quanto tale.

Il punto in questione è proprio la qualità dell’abitudine, piuttosto che la sua quantità. Non quante volte si è abituati ad abituarsi all’andare delle cose, ma piuttosto come e perché ci si abitua e si trascende dall’osservazione meramente critica. Per non fare torto a nessun concetto filosofico, a nessuna scuola di pensiero, si potrebbe affermare una distinzione tra abitudine intrinseca ed estrinseca. La prima altro non sarebbe se non la istintiva propensione a considerare usuali certi comportamenti tanto della natura quanto di noi medesimi.

La seconda, invece, sarebbe una forma di condizionamento esterno nei nostri confronti dato dalle circostanze, assunte senza un minimo di filtro critico, quindi, esattamente, con il metodo di una abitudinarietà che è passività, depensamento negativo, adeguamento alle circostanze, annullamento di una reattività che, tuttavia, non va confusa con la volontà. Reagire e volere possono sembrare simili, ma in realtà il primo è altro dall’abitudine, il secondo può invece includerla.

Non dobbiamo assolvere o condannare le nostre abitudini; dobbiamo soltanto essere consapevoli che abituarsi può tanto voler dire prendere atto di un qualche tipo di meccanicismo degli eventi e delle cose, quanto invece esserne succubi, rassegnandoci e pensando di essere privi di qualunque capacità di intervento nell’esistenza. Noi siamo vissuti da altri tempi, da altri discorsi, da altri uomini e donne venuti prima di noi. Ma diamo comunque, non fosse altro nell’intermediazione che, coscienti o meno, diamo a tutte queste figure e parole, una nostra chiave di lettura.

Ecco, l’abitudine buona ci lascia questa capacità intrinseca, quella meno buona – che siamo sempre noi a governare – ce la sottrae facendoci credere di essere ancora più liberi proprio perché viviamo e lasciamo vivere. L’abbandono non è l’imbecillità, ma è l’assenza di volontà: l’essere consapevoli che vogliamo solo quello che pensiamo di poter volere e che in realtà siamo molto poco agenti e molto agiti.

MARCO SFERINI

5 gennaio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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