Il blocco dei licenziamenti è oggetto di discussioni continentali, che vanno oltre i confini tanto geografico-politici quanto economici del Bel Paese. Mario Draghi tratta con l’Unione Europea e con il suo stesso governo, dopo aver accondisceso pienamente ad abbracciare, con ovvia naturalezza di banchiere liberista, le pretese di Confindustria: se fosse per i padroni (e così probabilmente srà, alla fine), la libertà di impresa dovrebbe in qualunque momento essere connaturata alla pienezza di un libero arbitrio dettato esclusivamente dalle oscillazioni dei mercati, della concorrenza e dall’andamento dell’alta finanza.
I sindacati obiettano, giustamente e naturalmente, che le problematiche, anche e soprattutto inerenti l’andamento delle quotazioni in borsa delle aziende, la loro tenuta e solidità sulla bilancia commerciale, non dipendono direttamente dalla liquidazione di una parte della forza lavoro impiegata. Il tentativo di allontanare dal mondo del lavoro salariato ogni esigenza padronale in merito alla protezione dei privilegi di classe e dei profitti accumulati, è una illusione bella e buona. Non si tratta di dimostrare la non colpevolezza dei lavoratori nel freno alla produzione: Confindustria sa benissimo quali sono le circostanze che causano l’attuale recessione economica.
Eppure nel tranello della discolpa, del ridurre tutto ad una questione di bilanciamento quasi etico delle responsabilità, suddividendole “equamente” tra impresa e lavoro, tra padroni e dipendenti, i sindacati ci finiscono sovente, pensando oltre modo di rendere più chiaro a tutti come funziona il regime delle merci oggi. Invece si cade nella trappola della moralizzazione di ciò che è a-morale, che non considera affatto il bene e il male, il giusto o sbagliato, ma segue soltanto l’interesse profittuale e fa di tutto per raggiungerlo. Senza scrupoli, poiché non possiede alcuna tensione morale, alcuna empatia sociale essendo oggettivamente anti-sociale.
Ma si sa, le regole del capitalismo sono ormai chiare da secoli e ci dicono che, soprattutto nei momenti di crisi inaspettate e di minacce alla stabilità dei profitti, causate da circostanze esterne al modo di produzione e riconducibili ad eventi naturali che si abbattono su vasta scala, su gran parte della popolazione mondiale, la difesa prima del padrone è il taglio delle maestranze, il risparmio sulla forza lavoro.
Le ristrutturazioni aziendali sono, dunque, il punto di primo soccorso quando il capitale si trova ad affrontare la compressione della domanda, quindi la conseguente riduzione della produzione che, di per sé, non significa certo una altrettanto lineare e conseguente diminuzione della qualità di ciò che si produce. Ma siccome le merci circolano solo se vendute, quando un evento come quello pandemico frena i consumi, ecco che l’intero ciclo capitalistico si incarta, incespica su sé stesso e finisce per entrare in una corto circuito che, apparentemente è della disperazione, nella realtà è una occasione di ennesimo sfruttamento della situazione e di tutti gli annessi e connessi.
La richiesta di poter licenziare, nonostante l’emergenza sanitaria del biennio pandemico, è soltanto il primo gradino di una nuova scala disvaloriale che pretende di rimodulare tutti i rapporti tra padronato e lavoro salariato, tra le classi, dentro e fuori la fabbrica, dentro e fuori ogni luogo di produzione.
In un interessante articolo pubblicato sul numero 0 del mensile “Su la testa“, Andrea Fumagalli esamina la questione del comunismo esattamente a cento anni dalla nascita del PCI. Nel farlo, mette un particolare accento sul tempo del lavoro e su quello della vita nel suo complesso. La domanda che l’economista si fa è questa: «Perché oggi lo sfruttamento è maggiore di cento anni fa?». Considerando l’avanzamento tecnologico, anche il metodo di produzione del capitale avrebbe dovuto essere – in una certa logica un po’ meccanicistica – più snello, meno legato ai tempi di vita dei lavoratori, consegnando alle macchine la gran parte del processo di generazione del plusvalore.
Invece non è stato e non è così. Questo perché – come bene osserva il professor Fumagalli – il capitalismo, scevro da qualunque etica, libero da qualunque imposizione comportamentale nei confronti dell’intera umanità, non si è limitato a fermarsi allo sfruttamento del tempo del lavoro, ridotto alle otto ore rivendicate da fine ‘800 ad inizio ‘900, ma ha inglobato l’intero tempo della nostra vita. Non c’è un attimo del nostro quotidiano che sia veramente sottraibile alla totalizzazione capitalistica, al suo fare di ogni cosa un momento che contribuisca alla strutturazione costante del sistema, al suo adattamento alle difficoltà che soprattutto la natura gli mette davanti.
Direttamente con la forza lavoro, con la circolazione delle merci e con la loro diffusione su tutto il pianeta, ed indirettamente con tanti piccoli comportamenti che adottiamo ogni giorno senza rendercene conto, il capitalismo trasforma ogni attimo della vita in una opportunità per sé stesso, sacrificando a questo principio endemico ed ancestrale ogni altra considerazione, qualunque tipo di rapporto tra proprietari dei mezzi di produzione e proprietari esclusivamente della propria capacità di lavorare.
Anche i più banali modi di esprimerci con cui interpretiamo da secoli il ruolo del cosiddetto “moderno imprenditore“, quindi del padrone, andrebbero cambiati se vogliamo capire fino in fondo perché – ad esempio – in questa determinata fase il blocco dei licenziamenti è così dirimente per Confindustria e per la controparte salariata: noi diciamo che il padrone “ci dà il lavoro“, invece dovremmo abituarci ad affermare che l’imprenditore “compera il nostro lavoro“, sfrutta tutto quello che può del nostro fisico, della nostra mente e tutto questo valore, non controbilanciato da un valore eguale in stipendio, va a costituire uno degli architravi della produzione del valore aggiunto che si realizza proprio nel non corrispettivo eguale tra lavoro impiegato a paga ricevuta.
Le stesse rivendicazioni sindacali sono spesso affidare a termini che paiono essere di grande spessore, che sembrano voler sovvertire il dettato confindustriale e la relativa piaggeria dei governi che si susseguono nell’applicarla con controriforme annuali. Ma, in fondo, che significa reclamare un “giusto salario“? Che cos’è davvero “giusto” per un imprenditore e cosa lo è per un lavoratore? E’ evidente che, vivendo nello stesso mondo ma appartenendo a due classi differenti, l’impatto di entrambi con il costo della vita sarà enormemente differente.
Sere fa, una imprenditrice molto presente nei salottini televisivi, circondata da mobili, tendaggi e oggetti di rara bellezza e costo, vestita come se stesse per andare ad una serata di gran gala, dispensava consigli su come affrontare la crisi economica dentro la crisi sanitaria. Ovviamente, a Landini che rilanciava sulla necessità di prolungare il blocco dei licenziamenti, la padrona scherzosa e sorridente replicava che bisogna mettere il mondo delle imprese in grado di muoversi liberamente in questo contesto, senza troppi vincoli e – sia chiaro! – senza troppe tasse.
Non bastano nemmeno le decine di miliardi del Recovery Plan, a fondo perso, per evitare l’allarmismo imprenditoriale che si alza quando la tutela delle loro aziende deve ricorrere al capitale privato piuttosto che ai soldi altrui, ossia quelli pubblici, di tutti. Paghino i lavoratori subendo i licenziamenti, paghino i cittadini nella “equa” distribuzione del costo del rischio di impresa dentro il biennio pandemico. Il costo è sociale e il profitto è invece privato. La musica non cambia, da oltre due secoli e mezzo.
Ciò che manca è quello “spirito critico“, almeno nel costruire una visione critica degli attuali assetti produttivi ed economici, che Marx rivendica in contrapposizione al semplicismo dell’owenista John Weston, che reclama giusti salari per la classe lavoratrice ma che non sa assolutamente calcolare quella giustezza e che non sa, soprattutto, come raggiungerla oggettivamente, traducendola da principio astratto (e molto dogmatico) in una riforma sociale degna di questo nome. Finisce così per opporsi agli aumenti salariali perché trascura i rapporti economici di forza e debolezza tra le classi e, di conseguenza, gli sfugge il punto di inizio da cui calcora altezza e bassezza del valore di una retribuzione.
Senza un ritorno anche oggi ad una analisi scientifica della fase, soltanto adoperando parole come “giusto” o “alto“, “equo” o “necessario“, usando quindi soltanto parametri meramente e genericamente etici, nessuna forza sindacale e nessuna sinistra potrà veramente contrastare la ristrutturazione capitalistica in atto.
MARCO SFERINI
28 maggio 2021
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