Moderna Carthago e vecchia ossessione imperialista

In una dichiarazione rilasciata ai giornalisti parigini (e di mezzo mondo) nel marzo di quest’anno, il ministro delle finanze dello Stato di Israele, Bezalel Smotrich, si era profuso in...

In una dichiarazione rilasciata ai giornalisti parigini (e di mezzo mondo) nel marzo di quest’anno, il ministro delle finanze dello Stato di Israele, Bezalel Smotrich, si era profuso in uno dei suoi consueti anatemi contro i palestinesi di Cisgiordania e Gaza.

La frase, che aveva giustamente suscitato grande scalpore, era la seguente: «Il popolo palestinese è un’invenzione che ha meno di cent’anni di vita. Hanno una storia o una cultura? No, non le hanno. I palestinesi non esistono, esistono solo gli arabi».

Se non è revisionismo storico, allora è un messaggio tutt’altro che subliminale di rivendicazione per lo Stato ebraico di tutto il territorio palestinese e, quindi, un progetto etno-politico di pulizia dei Territori occupati, di realizzazione di una seconda Nakba o, per meglio dirla con le parole proprio di coloni sionisti religiosi come il ministro, del “finire ciò che si era iniziato nel 1948“.

I fatti del 7 ottobre hanno risvegliato nel governo israeliano tutto il potenziale offensivo che covava sotto questi intenti di ghettizzazione da apartheid prima e di vero e proprio genocidio oggi. La politica della destra israeliana non si è mai veramente separata dal progetto colonialista della realizzazione del “Grande Israele“: dal Sinai fino al Golan, dal Giordano fino al mare. Hamas ha offerto a Netanyahu una via di salvezza dalla sua rovinosa epopea politico-amministrativa.

Tardivamente, perché l’opinione pubblica, anche quella più schierata col gabinetto di guerra, sembra non volerne più sapere del premier.

Ma l’ostinazione annientatrice non viene meno, nemmeno davanti alla messa in discussione, da parte di molta parte della comunità internazionale, della ferocia con cui la guerra contro Hamas è divenuta nel giro di mezzo secondo quello che veramente Tel Aviv voleva che fosse: il principio della fine di ciò che resta dell’Autorità Nazionale Palestinese e, ovviamente, di Hamas.

Gli Stati Uniti d’America per primi, da fedeli ispiratori, numi tutelari e fomentatori delle politiche imperialiste israeliane nella regione mediorientale, questa volta hanno frenato e tentano di frenare ancora: il piano del governo di Netanyahu di ridurre in cenere qualunque parvenza di istituzionalismo palestinese sarebbe la fine dell’ipotesi di convivenza di due stati e di due popoli.

Il timore di Biden sta tutto nella globalizzazione del conflitto, nello scatenamento di un effetto domino che sarebbe, a quel punto, irrefrenabile tanto nei confronti dei governi che sostengono Israele quanto nei confronti di tutti gli israeliani e delle comunità ebraiche nel mondo.

Se non fosse chiaro a sufficienza questa paura americana per la stabilità di tanta parte dell’economia nazionale e internazionale (perché si tratta anche, e soprattutto, di questo…), basta osservare i tanti episodi di antisemitismo che si stanno diffondendo in Europa: dalla Francia all’Italia, dalla Germania all’Austria.

Atti violenti verso persone, verso simboli ed emblemi della tragedia dell’Olocausto, contro cimiteri, pietre di inciampo, memoriali e luoghi dove si preserva qualcosa di più del semplice ricordo dell’orrore nazista contro gli ebrei e contro tutti i popoli e le persone considerate inferiori, deboli e indegne di vivere da parte del Terzo Reich, sono ormai all’ordine del giorno.

La recrudescenza del conflitto israelo-palestinese ha, dal 7 ottobre scorso, fatto un ennesimo salto di qualità nel prodursi in uno scontro tra estremismi il cui fine è l’annientamento di una delle due parti. Non solo le affermazioni di un sionista religioso come Smotrich, ma anche quelle di tanta parte della dirigenza del Likud e di altre forze politiche di destre (e di centro) israeliane, ha contribuito alla riattualizzazione di un odio egualmente feroce contro Israele, contro l’ebraismo, contro tutto ciò che è riconducibile al semitismo.

La cecità del governo di Netanyahu è volutamente tale: Gaza è diventata, in questi ultimi venti anni, quel laboratorio esplosivo di corrosione antidemocratica che la destra israeliana voleva che fosse, per avere altri presupposti, altri alibi con cui giustificare nuove repressioni. Gaza oggi deve essere distrutta. Come Cartagine. L’imperialismo muta la forma, ma sostanzialmente rimane quello di sempre.

Il 7 ottobre, Hamas ha colto di sorpresa uno Stato che ha i migliori servizi segreti del mondo e che per un anno e mezzo aveva smesso di intercettare proprio i terroristi che lo hanno violentemente attaccato.

Ad essere malevolmente complottisti, si potrebbe pensare che il casus belli sia stato cercato, voluto, agognato, per avere l’opportunità di scatenare contro Hamas e contro l’ANP la battaglia finale, quella decisiva per l’espansione totale di Israele tanto a Gaza quanto nella West Bank.

Ad essere oggettivamente pragmatici, stando ai fatti e alle fonti che ce li descrivono circostanziatamente, dobbiamo considerare invece molto più basso il livello tattico del governo di Bibi Netanyahu che ha sottovalutato Hamas, che ha sguarnito la frontiera con la Striscia di Gaza di una protezione militare (leggasi: di un sempre più oppressivo controllo della prigione a cielo aperto…) e che si è concentrato nel sostegno a tutto tondo della colonizzazione in Cisgiordania.

I coloni, infatti, sono aumentati vertiginosamente nel giro di pochi lustri: gli insediamenti illegali (non riconosciuti dallo stesso Stato ebraico) sono un terzo di quelli complessivi in cui vivono praticamente oltre 650mila persone. Per lo più si tratta di gente armata di tutto punto, organizzata in bande armate che spargono terrore tra quella che, ormai, in molte parti del territorio cisgiordano, è la minoranza palestinese.

L’espropriazione della terra ha voluto e vuole ancora oggi dire la sottrazione delle case esistenti, la cacciata di quelli che spregiativamente vengono chiamati “gli arabi” dai loro luoghi di nascita. Vuol dire, inoltre, la privazione di qualunque diritto civile, sociale e umano. Ai palestinesi non è concesso nulla di quello che è dato ai cittadini israeliani.

Se il progetto genocida del governo israeliano andrà avanti per la sua sanguinosa strada, non saranno più al sicuro nemmeno gli arabo-israeliani che vivono entro i confini dello Stato ebraico e così, ovviamente, neppure i palestinesi con cittadinanza israeliana.

Il 7 ottobre, quindi, è una linea di demarcazione tra la vecchia intolleranza sionista e una nuova forma della stessa che si trasforma apertamente, senza più alcun infingimento, in un progetto di annichilimento di una identità sociale, di un popolo nella sua interezza.

Se Israele avesse veramente voluto colpire, catturare, incarcerare e punire secondo le leggi del diritto proprio e anche di quello internazionale i terroristi di Hamas, avrebbe potuto attivare azioni mirate in grado di evitare alla stragrande maggioranza dei civili ogni tipo di sofferenza, ogni tipo di morte.

Chi è riuscito a portare Adolf Heichmann dall’Argentina fino a Tel Aviv per essere processato davanti al tribunale della Storia, innanzi all’opinione pubblica mondiale che doveva essere pienamente edotta dei crimini contro l’umanità commessi dai nazisti, può oggi, ovviamente con il supporto di mezzi e uomini diversi da quelli utilizzati dal Mossad in allora, mettere in pratica un’azione quasi chirurgica contro Hamas.

Invece, si bombarda Gaza da mare, dal cielo, incessantemente. Si fanno decine di migliaia di feriti, si ammazzano oltre cinquemila bambini, si colpiscono ospedali, campi profughi, dopo aver affamato, assetato e reso praticamente la sopravvivenza nell’inferno della Striscia la cifra costante di un inferno sulla Terra.

All’inizio della guerra, appena dopo i crimini del 7 ottobre, si faceva cenno correttamente ad una “superiorità morale” che spettava alla reazione israeliana. Tutto lasciava intendere che il governo di Netanyahu non si sarebbe limitato ad emulare i tentativi di prelevamento dei criminali nazisti negli anni ’50 e ’60 per comportarsi da democrazia moderna, liberale e capace di dare una lezione agli altri Stati.

Tutto lasciava presagire che un esecutivo formato da persone come Smotrich avrebbe dato una risposta da terra bruciata, da tabula rasa, visti i precedenti nei decenni e decenni passati. Nessuno avrebbe scommesso su un rispetto da parte di Israele delle risoluzioni dell’ONU. Ed infatti così è stato, nel solco di una tradizione di disprezzo della legalità e dei trattati internazionali.

La protezione americana ha sempre regalato allo Stato ebraico una immunità politica che non sarebbe stata riconosciuta ad altri paesi. Se oggi l’arroganza del potere israeliano è ai livelli del genocidio del popolo palestinese, ciò è dovuto alla tutela a stelle e strisce e all’interscambio economico che è sempre esistito tra le due sponde dell’Atlantico e del Mediterraneo.

Rifornimenti di armi come non mai, implementazione del ruolo di mediazione tra Tel Aviv e gli Stati arabi, a tutto giovamento di un ordine mondiale completamente riverso sulla china del liberismo nordatlantico.

L’Europa, che non è una potenza militare e che è pressoché irrilevante nel confronto multipolare moderno, tra Cina, Russia, BRICS e USA, non ha un ruolo in questa crisi mediorientale che si allarga e che coinvolge – come epifenomeno di una guerra molto più diffusa e dai tratti davvero mondiali, come sottolinea spesso papa Francesco – ormai tutti i continenti, direttamente o indirettamente.

La guerra in Ucraina, pari pari, mette le potenze su un piano di conflittualità per procura che è, nella ormai stanca metafora di un conflitto combattuto solo per liberare il territorio di Kiev dall’invasore russo, la caricatura cinica di sé medesima a cui hanno smesso di credere anche quelli che sinceramente avevano pensato ad una contrapposizione tra mondo libero e mondo tirannico.

Non c’è nessun mondo libero, se non quella rappresentazione che ne danno le nostre imperfette – eppure preziose – democrazie occidentali. Il genocidio in corso in Palestina è la dimostrazione che non basta definirsi per essere, che non è sufficiente attribuirsi il merito di essere un paese pluralista se poi, alla prima (si fa per dire…) occasione di crisi interna ed internazionale, ogni principio ed ogni diritto viene messo da parte e si scatena invece la repressione più aspra.

Nel campo profughi di Jabalia sono stati assassinati dalle bombe israeliane centinaia di palestinesi. Sostiene il comando dell’esercito, e sostiene il governo, che l’azione mirava alla individuazione di un terrorista di Hamas. Cento, duecento morti… Il conto si perde di ora in ora. L’ONU, Amnesty International, Medici Senza Frontiere, non Hamas, sostengono che siamo in presenza di una carneficina inaudita, di un massacro a tutto spiano. Un orrore mai visto, nonostante tutti quelli perpetrati da Israele nel corso di 75 anni di occupazione.

Ma la Corte dell’Aia non ha nulla da dire in merito? Non intende imputare a Netanyahu almeno gli stessi crimini contro l’umanità che imputa a Putin? Due pesi e due misure? Parrebbe di sì, perché Israele è intangibile da parte occidentale e il diritto segue le scie del potere: politico ed economico. Soprattutto se non è riconosciuto universalmente, quindi da tutti i paesi del mondo, come confine contro le ingiustizie e le prevaricazioni altrui, ma pure contro le proprie.

C’è una domanda che ora bisogna farsi: chi può fermare Israele in questo progetto omicidiario di massa? Chi ha l’autorevolezza e l’autorità per farlo? L’ONU decisamente no. La comunità internazionale è divisa, smarrita, si riposiziona a seconda di quello che accade ogni giorno sul fronte della Striscia. Rimarrebbero gli Stati Uniti d’America.

Ma ci si può appellare al principale sostenitore di Israele per fermare proprio Israele nel genocidio che sta compiendo? E’ un’altra delle tante domande a cui forse sarà la Storia a dare una risposta. Ma a quel punto sarà troppo tardi per la sopravvivenza del popolo palestinese. Decisamente troppo tardi..

MARCO SFERINI

2 novembre 2023

foto: screenshot ed elaborazione propria

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