Tutti lo temevano, in pochi credevano succedesse veramente. Arcelor Mittal ha deciso: lascia Taranto e «la più grande acciaieria d’Europa, lascia l’Italia «entro 30 giorni». Lo fa usando come scusa la revoca dello scudo penale, lo fa sfruttando le clausole del contratto sottoscritto l’anno scorso come cordata AmInvestCo.
I vertici globali del più grosso gruppo mondiale dell’acciaio hanno deciso che l’acquisto dell’Ilva non ha più senso: conviene lasciare, pur avendo già speso centinaia di milioni – si stima oltre i 300, sebbene gran parte dei fondi usati per gli interventi ambientali sono figli del sequestro da oltre un miliardo dei soldi della famiglia Riva, padrona dell’Ilva.
Chi ancora pensa ad un ricatto per ottenere il ripristino della «immunità penale» si illude. Il calcolo è cinicamente economico: 2 milioni di euro al giorno in un contesto globale di calo della domanda.
Di controprove ce ne sono parecchie. La prima è che oggi a rispondere alla «convocazione immediata dei vertici Mittal» a palazzo Chigi dal premier Conte – «Faremo di tutto per tutelare investimenti produttivi, livelli occupazionali e per proseguire il piano ambientale» ha detto dopo un vertice con Patuanelli, Gualtieri, Provenzano e Speranza – non sarà nessuno della famiglia Mittal, riuniti invece a Londra per la presentazione dei conti del gruppo.
La seconda è che prima di imboccare la strada senza ritorno dell’addio all’Italia, Arcelor Mittal ha chiesto pareri legali ad altissimo livello – lo studio Cleary Gottlieb – che garantiscono sulla possibilità di recesso dal contratto in caso di «provvedimento che rende impossibile l’attuazione del piano industriale»: non solo la revoca dello scudo penale ma anche «i provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto sull’altoforno numero 2», il più grande e inquinante.
La nomina di Lucia Morselli a Ceo proprio il giorno dopo la messa in onda della prima intervista televisiva – a Presa Diretta – in cui Matthieu Jehl dava garanzie sul piano ambientale è stato un chiaro segnale. Si sperava che la tagliatrice di teste – dalla Berco all’Ast di Terni – si limitasse a spegnere l’altoforno e invece è stata chiamata per chiudere definitivamente.
Nella lettera che accompagna lo scarno comunicato stampa proveniente da Londra con l’annuncio dell’addio, Morselli parla di «notizia difficile per tutti i dipendenti», fa giochi di equilibrismo per motivare il «piano di ordinata sospensione di tutte le attività produttive a partire dall’area a caldo» sostenendo che «non è possibile gestire lo stabilimento senza queste protezioni e non è possibile esporre dipendenti e collaboratori a potenziali azioni penali».
Le polemiche politiche di ieri rasentano il ridicolo. L’emendamento incriminato che secondo l’azienda toglie nuovamente la «tutela legale» è stato sì proposto dal M5s ma votato da tutta la maggioranza, Pd e renziani di Italia Viva compresi. Il precedente balletto sul tema è indicativo della coerenza della politica nostrana. Anche Salvini – che ieri senza mai essere andato a Taranto ha fatto becera propaganda dicendo «un lavoratore dell’Ilva vale dieci Balotelli» – ad aprile votò a favore del decreto Crescita che toglieva «lo scudo penale». Poi le proteste di Arcelor Mittal sortirono effetto e ad agosto il ministro Di Maio reintrodusse una forma di tutela nel decreto Imprese, una tutela «a scadenza» che avrebbe sterilizzato le azioni giudiziarie prima della scadenza del 6 settembre. Una norma poi cancellata il 22 ottobre con un emendamento figlio di un accordo della nuova maggioranza.
Il M5s ha pagato a Taranto la scelta di non chiudere l’Ilva, come invece aveva sempre sostenuto in campagna elettorale – l’attuale ministro dell’Istruzione e allora ministro dell’Economia in pectore Lorenzo Fioramenti lo confermò dopo le elezioni in un’intervista al manifesto. Poi per recuperare ha cercato almeno di togliere l’immunità penale, mettendo una toppa peggiore del buco.
Le conseguenze della scelta di Arcelor Mittal sono pesantissime sotto l’aspetto occupazionale. Ilva non è solo Taranto con i suoi 8.200 dipendenti, di cui 1.200 sono già in cassa integrazione. Vi sono acciaierie e fabbriche in dieci regioni, a partire da Genova Cornigliano con altri 2.500 dipendenti. Senza dimenticare un indotto variegato che porta il totale delle persone dipendenti da Ilva a quota 20mila.
Seconda lettera di Mittal i dipendenti diretti – tutti i 10.700 sono con contratti a tempo determinato fino all’acquisizione definitiva – entro 30 giorni dovrebbero tornare nella gestione commissariale – che dà ancora lavoro a circa mille dipendenti nelle bonifiche dei siti – ma è probabile che partirà una guerra di carte bollate dall’esito incerto.
Dal punto di vista ambientale il piano è stato diluito nel tempo e andava avanti a rilento, sebbene la copertura dei parchi minerari sia un fatto incontestabile.
Quasi impossibile ora sperare nel ritorno di Jindal. La cordata battuta da Mittal nel 2016 era formata dai rivali indiani – che poi si accontentarono di Piombino – da Cassa depositi e prestiti e avevano l’idea di decarbonizzare Taranto. Sarebbe proprio quello che servirebbe ora. Ma Carlo Calenda – all’epoca ministro che continua a strombazzare i 4,2 miliardi di investimenti tutti sulla carta – non ascoltò ragione e scelse i soldi di Mittal: 1,8 miliardi per l’acquisto.
L’unica alternativa ora è quindi un intervento diretto dello stato. Il governo Conte avrà il coraggio di portarlo avanti?
MASSIMO FRANCHI
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