Milite Ignoto, la retorica del martirio «impersonale»

4 novembre. L’enfasi delle ricorrenze celebra in modo acritico un passato immaginario. La narrazione della Grande guerra in tali termini è funzionale all’occultamento del senso della storia

In una società stanca, dove ogni forma di intermediazione che non sia quella affidata alla logica della contrapposizione diretta tra poteri rischia di essere altrimenti bandita, ritornano in forma monumentale e celebrativa le immagini di un passato non rielaborato. Se c’è chi rincorre lo sdoganamento del fascismo – una tentazione che si ripete ossessivamente, dal momento stesso della sua rovinosa caduta – molti altri si impegnano nell’esaltazione dei cascami di una sovranità nazionale che dovrebbe costituire letteralmente la linea del Piave sulla quale assestarsi per dare un qualche significato ad un presente vuoto di sollecitazioni e speranze.

La retorica delle ricorrenze, a tale riguardo, è in funzione della celebrazione acritica di un passato immaginario, dove alla comprensione dei conflitti, bellici e non, si sostituisce l’apologia del «sacrificio» e del «martirio».

Il racconto della Grande guerra in tali termini, dove l’insensatezza di uno scontro continentale copriva i cinici calcoli d’interessi e la spudoratezza di classi dirigenti amorali, è funzionale a occultare il senso della storia. Incontrando tuttavia il plauso di una parte di quella popolazione che all’epoca sarebbe stata sacrificata sull’altare del conflitto. La quale, oggi, in un percorso di disemancipazione, sempre più spesso deflette dai diritti di cittadinanza per consegnarsi ad un immaginario che trasforma il rispetto per chi fu travolto da una storia più grande di lui in un rinnovato repertorio della rivalsa nazionalista.

Si tratta della manifestazione di una debolezza, piuttosto che di un punto di forza. La ricorrenza del 4 novembre, e con essa del centenario del Milite Ignoto, si inserisce in questo quadro di ridondanti riferimenti al passato, perlopiù formulati in chiave completamente acritica. Va ricordato, per evitare i ricorrenti equivoci del caso, che la Prima guerra mondiale fu senz’altro il prodotto di molti fattori ma è da imputarsi soprattutto alla calcolata cecità e volontaria di classi dirigenti sospese tra liberalismo individualistico e autoritarismo imperiale. Una miscela che comportò la deflagrazione dell’intero Continente.

Il fascismo, anche nella sua natura di fenomeno di mobilitazione collettiva, derivò da ciò, essendone effetto, non certo causa.

L’incapacità, ai giorni nostri, di contrapporre una narrazione di taglio problematico all’uso sovranista e identitario dei temi del passato, si inscrive dentro l’afasia che è parte del modo di essere di ciò che residua della forze politiche che dovrebbero invece dare corso a una rappresentanza popolare. Consegnandola, in tale modo, al populismo. Che invece usa liberamente il passato in funzione delle sue occorrenze correnti, in un gioco di costante auto-accreditamento attraverso la colonizzazione politica di ogni simbolismo dei trascorsi collettivi.

Il Milite Ignoto si colloca a pieno titolo dentro questo percorso, per la sua stessa natura di espressione di una «nuova Italia», generatasi nel «lavacro» bellico, e quindi dalla commistione tra martirio laico, impersonalità e massificazione. C’era allora, nel 1921, una voluta e ricercata contraddizione tra l’anonimato dei resti di un caduto totalmente sconosciuto, quindi irriconoscibile se non per la sua nazionalità italiana, e l’enfatizzazione che di esso se ne fece come esempio di partecipazione al sacrificio collettivo.

Proprio perché la Grande guerra fu anche e soprattutto un conflitto di massa, partecipato da un gigantesco numero di soldati-contadini, perlopiù giovani se non giovanissimi, il simbolismo del Milite Ignoto ne riassumeva alcuni di quei tratti, essendo tuttavia parte integrante della celebrazione di un’ecatombe collettiva intesa come somma di atti di devozione personali. In altre parole: morti individuali del tutto anonimi, che erano chiamati ora a celebrare una fragile identità collettiva, quella della nazione italiana.

Per la declinante Italia liberale ciò costituiva uno dei più significativi momenti di omaggio a quella religione civile, di cui il fascismo si sarebbe poi lestamente impossessato. In essa, l’appartenenza nazionale era fatta coincidere con la disposizione al martirio di se stessi.

Si compiva così una completa traiettoria ideologica, dove «Trincea», «Combattimento», «Morte», «Vittoria», «Patria» ma anche «Lavoro» divenivano tutte facce di un prisma monolitico, quello che sanciva come unica cittadinanza possibile, e quindi accettabile, quella basata sulla disposizione al sacrificio di sé e di quanto ogni individuo ha di più caro, il suo stesso corpo.

Nazione in armi, nazione al lavoro, concordia nazionale e subordinazione ad una presunta gerarchia naturale, quella del superiore nei confronti degli inferiori: una miscela che il fascismo, già allora presente sulla scena politica e sociale, si sarebbe incaricato di tradurre in prassi quotidiana, neutralizzando qualsiasi forma di opposizione.

CLAUDIO VERCELLI

da il manifesto.it

foto da Wikipedia

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Il novecento

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