La cattiveria. La crudeltà. L’inumanità. La diversità come minaccia. La nazionalità come esclusività e, quindi, esclusione. Ma queste emozioni e queste percezioni tradotte dalle politiche antimigratorie, xenofobe e reazionarie dei governi gialloverdi prima di destre estrema poi, non contano nei procedimenti penali. Tuttavia contano se si deve uniformare il diritto nazionale ed internazionale ai princìpi per cui è stato creato e sostenuto come elemento regolatore della società. La Legge con la elle maiuscola punisce per prevenire, cerca il suo ruolo deterrente e, quasi sempre, in questo vagheggiare smarrisce sé stessa.
La pena non corrisponde mai ad un equivalente freno nel compimento dei reati. La deterrenza è più che altro un presupposto quasi ideologico, accostato al valore pre-educativo e poi rieducativo che dovrebbe avere nei confronti dei potenziali rei e di coloro che invece hanno commesso dei delitti e devono “pagare il conto” ad una società che non è mai del tutto virtuosa e che, anzi, è essa stessa la prima fonte di ispirazione delle condotte ree. Ciò potrebbe indurre a ritenere che, quanto fatto nell’esercizio delle sue funzioni dall’allora ministro dell’Interno Salvini, fosse alibisticamente ascrivibile ad un contesto.
Sarebbe anche possibile teorizzare una spinta esterna rispetto alle convinzioni salviniane in materia di immigrazione, immigrati, nazionalità e via discorrendo… Ed indubbiamente questa propulsione un po’ eterogenetica consentirebbe di confutare, in parte, il discorso accusatorio: ossia che Salvini agì di sua iniziativa, dopo aver accentrato su di sé i poteri riguardanti la gestione dei migranti, tenendo parte dello stesso governo di allora all’oscuro di quello che stava nei fatti avvenendo. Per lo meno nei primi momenti, nella fase di una gestione disorganizzativa che puntava a tenere al largo di Lampedusa e della Sicilia una nave con centoquarantasette persone a bordo.
Ma anche teorizzando un contesto ideale che abbia aderito quasi perfettamente alle idee salviniane in materia migratoria, rimane il fatto che la volontà, accompagnata da rapporti con una razionalità che i leghisti conoscono solo quando si tratta di pragmatismo monetario e danaroso, avrebbe potuto fare la differenza: che motivo si poteva mai avere per impedire lo sbarco di un centinaio di esseri umani sulle coste italiche? «La sicurezza dello Stato!», tuona la difesa dell’ex titolare degli Interni. Ma davvero la sicurezza della Repubblica era minacciata dalla Open Arms e dal suo carico di disperazione? Quali forze materiali e mentali poteva avere quella gente per rappresentare un pericolo per l’Italia?
Tutto finisce per essere meschinamente ricondotto ad un simbolismo dai tratti crudelmente cinici; si reperiscono vecchi armamentari del primissimo leghismo antiterronico, si riesumano slogan che inneggiano ad un neonazionalismo privo di radici storiche, perché semmai affonda nel più meschino, secessionisticamente istrionico padanesimo. E si costruisce così una nuova narrazione narcotizzante gli istinti più umani, costringendo i propri elettori a convertirsi e tramutarsi in difensori dei sacri confini d’Italia da una “invasione” su cui giganteggiano anche le profezie meloniane di allora che parlano di blocchi navali e affondamenti delle imbarcazioni. Ma senza nessuno a bordo. Siamo umani!
Nel ravvisare una responsabilità pressoché unica dell’ex ministro dell’Interno, la pubblica accusa fa l’esatto contrario del processare politicamente un politico: lo riconduce al suo ruolo istituzionale prima ancora che di uomo di partito, di segretario di un movimento. Un componente del governo della Repubblica dovrebbe mettere avanti a tutto il bene comune, l’interesse del singolo entro il contesto più generale della società di cui fa parte. E non, invece, contrapporre gli uni agli altri distinguendo per provenienza, colore della pelle, cultura, religione e, perché no, anche idee politiche.
La procura agisce come parte di un potere indipendente dello Stato che deve proteggere, garantire e applicare il diritto sulla base della legge massima: la Costituzione repubblicana. Il ministro di allora e la presidente del Consiglio di oggi invece attaccano la magistratura, mostrando l’ennesima riprova del fatto che la destra ha sempre, costantemente, avuto un pregiudizio propriamente politico verso i giudici, i procuratori e persino gli inquirenti.
L’utilizzo delle prerogative istituzionali, quindi delle funzioni esplicitamente ricoperte su mandato popolare, è stato, in un certo qual modo, piegato ad una idea del potere esecutivo come predominante rispetto agli altri: l’arroganza con cui si è spesso trattato il Parlamento, per non parlare – appunto – del potere magistratuale, è indice di una concezione governocentrica che, già di per sé, svilisce il carattere democratico e pluralista della Repubblica e riconduce questa perifrasi alla sintesi tradotta nel progetto politico del “premierato“. Un unico nel panorama mondiale del diritto costituzionale, degli architravi che sorreggono le organizzazioni statali.
Sebbene il governo Meloni si guardi bene dall’ammettere ciò che tutti sanno, ossia che la litigiosità concorrenziale tra leghisti e fratellitaliani è all’ordine del giorno in una sorta di perenne campagna elettorale, è del tutto evidente che la partita del premierato rimane uno dei punti fermi cui guarda la presidente del Consiglio per consolidare il suo inadatto ruolo di “capo del governo” (una denominazione, peraltro, introdotta proprio da Benito Mussolini nei primi anni dell’affermazione del regime fascista). Finché si trovavano l’uno a Palazzo Chigi e l’altra sui banchi dell’opposizione, il tiro al bersaglio contro il fenomeno migrante e migratorio era duplice e non implicava una spietata gara come oggi.
In ballo, dopo la presa dell’esecutivo con maggioranza relativa meloniana, c’è quindi oggi molto più di ieri, allorché la Lega si trovava nel governo giallo-verde con i Cinquestelle di un Conte capace di mutazioni genetiche degne del miglior camaleontismo trasformistico italiano (per la verità, non solo lui nel M5S e non solo da allora). Il piglio autoritario si è involutamente evoluto, prevalendo su una dinamica istituzionale che, tuttavia, deve rispettare i rapporti di cortesia con gli ospiti europei e, dunque, il galateo non può essere del tutto messo in soffitta.
Mentre Salvini e Meloni sono alle prese con quella che ai loro occhi è una ingerenza giudiziaria negli affari governativi, si apre una stagione di lotte che vedrà, oltre al passaggio delle elezioni amministrative di fine ottobre e metà novembre, anche la riforma sull’autonomia differenziata messa in mora dalla tagliola referendaria. La facilità con cui sono state raccolte le firme non solo il frutto di una tecnologia che ha permesso di raggiungere oltre mezzo milione di sottoscrizioni al quesito in poche settimane.
Se ne deve convenire che l’impulso è stato spontaneo, di una generosa partecipazione calibrata esattamente al pericolo che corre la nazione nel rischio di arlechinizzazione iper-regionalista, reminiscenza mefitica di un secessionismo dei ricchi rispetto alle difficoltà del resto di un Paese povere e in grande deficienza di risorse, mezzi, infrastrutture, soddisfazione dei bisogni più elementari e, carente, quindi, nella realizzazione delle necessità di base di intere comunità del centro e del Mezzogiorno, come di gran parte delle periferie delle città metropolitane.
La questione migrante si struttura, così, in una narrazione complessa che unisce i diritti civili e sociali a quelli umani e li comprende come dirimenti soltanto per gli autoctoni e per coloro che si uniformano allo stile di vita e di cultura del popolo italiano. Ammesso che, anche nella stereotipizzazione esasperata delle destre di governo, esista una “italianità” da rivendicare come presupposto per la cittadinanza, per il riconoscimento di un diritto universale, di un godimento pressoché incontestabile di ogni prerogativa concessa agli italiani veramente italiani.
Razzismo ideologico che si fa razzismo di Stato: perché, con le tante sfumature inculturali che si sono fatte largo nel conformismo pressapochista di una certa sinistra moderata, che ha concesso alle destre lo status di una dignità che mai altrimenti avrebbero avuto (ad iniziare dai “ragazzi di Salò”…), è potuta emergere una tale mediocrità da rivalutare i peggiori governi della storia repubblicana.
A cominciare da quelli presieduti dal Cavaliere nero di Arcore. Per questi motivi non sorprende, perché non può oggettivamente sorprendere, la reazione bisbetica del governo rispetto alla richiesta fatta dalla procura di Palermo di sei anni di carcere per l’ex ministro dell’Interno: è congenita ad un modo di intendere le istituzioni prone ai desiderata dell’esecutivo. Chi rivendica, costituzionalmente, il perimetro di azione concessogli dalla Carta del 1948 e l’equipollenza dei poteri dello Stato, convergenti nell’interesse comune ma liberi e indipendenti l’uno rispetto all’altro, è qualcuno che non vuole lasciar lavorare il manovratore.
In ballo, dunque, c’è qualcosa di più della giustizia che devono avere i centoquarantasette naufraghi migranti che hanno rischiato di morire a causa del fermo della nave in mezzo al mar Mediterraneo. Ci sono quei diritti umani e i diritti civili e sociali di un intero popolo. Indisgiungibili, simbiotici perché non è possibile concepire la natura stessa della Repubblica Italiana là dove siano rispettati alcuni di questi diritti e altri, invece, siano messi da parte, quand’anche non calpestati apertamente sotto il peso di una renovatio di pregiudizialità a gran dispiegamento di forze.
La domanda iniziale rimane quella fatta dalla procura di Palermo, a cui la richiesta della pena per Salvini vuole dare una risposta: c’era un motivo per cui la Open Arms fosse trattenuta così a lungo in mare senza far sbarcare quei poveretti? Da come ognuno di noi risponde, si può capire se c’è ancora un briciolo di umanità che sovrintende tanto le leggi quanto le istituzioni; tanto la nostra vita singolarmente intesa quanto quella sociale e comunitaria. Se rispondiamo “SÌ”, è chiaro che andiamo nell’indirizzo della realizzazione di politiche tese ad escludere, a prevenire pericoli che non vi sono, a fare dell’Italia un fortilizio accerchiato dalle proprie nevrosi neonazionaliste.
Se rispondiamo “NO”, oltre a nutrire un po’ di empatia verso le disgrazie peggiori rispetto alle nostre quotidiane, ci rendiamo probabilmente anche conto che quella strada porta al disastro: perché prima di ogni altra cosa – anche del diritto stesso – viene la sopravvivenza di ogni essere vivente. Non solo umano. Figuriamoci se ci possiamo mettere a distinguere, poi, tra umani ed umani. E questo, senza ombra di dubbio, è un livello di coscienza che molte donne e molti uomini della destra di governo (e non solo di quella) non riusciranno mai ad avere.
Glielo impedisce una nutrita schiera di preconcetti vincolati ad un tradizionalismo che gli regala la sensazione di una identità indefessa, sicura, intangibile. Mentre tutto intorno si sentono attaccati dal relativismo, dal buonismo, dalla accondiscendenze umanitarie tradotte dalla propaganda giornalistica in ammorbidimenti mentali, sentimentalismi cui non si deve cedere. Questa non è una “cultura di destra”, ma il limite oltre cui non può andare una vera cultura: fatta di rapporti dialettici e non di assoluti. Fatta di particolarismi e non di universalismi.
All’Italia, oltre a tutto il resto, dobbiamo il recupero di una vera cultura della solidarietà e della socialità: non un amarcord del passato, ma una attualizzazione dei pensieri dello stesso. La modernizzazione della Costituzione nel farla vivere di sé stessa attraverso noi. La migliore sconfitta del salvinismo, del melonismo e, se vogliamo, dell’onda lunga del crax-berlusconismo.
MARCO SFERINI
17 settembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria