Migranti d’Italia, dell’Impero e del Regno di Albania

Poco al di là del canale d’Otranto, in terra già un tempo di conquista di un regnucolo diventato tale solamente un mezzo secolo prima, oggi si trovano delle moderne...

Poco al di là del canale d’Otranto, in terra già un tempo di conquista di un regnucolo diventato tale solamente un mezzo secolo prima, oggi si trovano delle moderne strutture che vengono chiamate “di accoglienza” per i migranti che provengono dall’Asia, dall’Africa, dal Medio Oriente. Sono perimetri in cui le recinzioni delimitano la sovranità albanese da quella italiana. Il tricolore che sventola, insieme alla bandiera dell’Unione Europea, non parla di libertà verso gli altri paesi del Vecchio continente.

Sta lì a simboleggiare il controllo, la detenzione preventiva, l’inquisizione governativa e magistratuale. Accoglienza è, appunto, un eufemismo. Quegli ammassi di container pieni di letti a castello attendono coloro che hanno attraversato il Mediterraneo, sono magari approdati a Lampedusa o sono stati intercettati dalle navi della nostra Marina in acque internazionali me entro i confini del SAR (“Search and Rescue Unite“) sotto il controllo italico.

Donne e bambini, persone fragili non saranno deportati in Albania. Il verbo è forte, sì, ma come altrimenti definire chi viene forzatamente portato dalle unità navali militari in un luogo in cui non è sbarcato e dal quale, con tutta probabilità, potrà uscire soltanto se un giudice accoglierà la sua domanda di asilo? Altrimenti verrà rimpatriato e, infatti, accanto agli hot spot e ai centri di smistamento dei migranti, è stato anche edificato un CPR. Tutto il governo giura e stragiura che i diritti umani saranno rispettati.

Ma gli esempi del presente e del passato fanno pensare male senza fare troppo peccato. Ci costano quasi un miliardo all’anno questi nuovi centri detentivi. Fino ad ora, dopo le strette di mano tra Giorgia Meloni ed Edi Rama, non se ne era ancora vista la cinica e barbara inaugurazione. Tra poche ore ne varcheranno la soglia sedici migranti: alcuni del Bangladesh, altri dell’Egitto. Dovrebbero rispondere ai criteri della selezione voluta dal governo: in buona salute, senza particolari problemi.

Ammesso che un’esistenza in cui si è costretti a lasciare i propri paesi d’origine e traversare un mare procelloso come il Mediterraneo possa essere definita “non problematica“. C’è chi si domanda, un po’ candidamente, come si è arrivati a questo punto. Non esiste una sola risposta; semmai esistono moltiplicazioni di dubbi, divisioni di analisi e somme di altre domande su domande che interrogano la storia di questi ultimi ventiquattro anni più almeno tre lustri del secolo scorso.

Dalle leggi “Bossi – Fini” alla “Turco – Napolitano“, passando per i decreti del già ministro Minniti, destra e sinistra hanno gestito l’epocale questione delle migrazioni dai mondi più poveri all’Europa che il mondo un tempo lo aveva conquistato vincolandola alle compatibilità di un liberismo economico che esigeva la protezione dei confini a tutti i costi per preservare i fragili equilibri di mercato. Va bene la mano d’opera a bassissimo costo e la ricattabilità dell’insieme del mondo del lavoro; va bene l’esercito di riserva dei salariati contro i salariati occupati. Ma qui si rischiava di esagerare.

Perché le migrazioni sono state viste, fino ad un certo punto di questa ultratrentennale storia moderna, come una questione economico-sociale e, quindi, parte di un problema antropologico di vasta scala che aveva bisogno di risposte adeguate per evitare che i flussi migratori fossero veramente incontrollabili ma, soprattutto, incontrollati. Poi, siccome l’incapacità dei governi ha creato le condizioni per una maggiore instabilità sociale, naturalmente indotta dalle crepe nel sistema capitalistico dell’ieri e di oggi, la questione pareva sfuggire letteralmente di mano.

Non si trattava più di fenomeni specifici e, in qualche modo, circoscrivibili come quello delle rotte dei cargo che dall’Albania (dove oggi, nemesi della Storia e paradosso della stessa, rinchiudiamo i migranti…) venivano stracolmi di gente sulle coste pugliesi. Si trattava, ormai, di una crisi globale i cui effetti si riversavano, senza che li si potesse arginare se non provando con la stupidità di dichiarazioni bellicose e ipernazionalistiche, là in quella parte della Terra in cui si sapeva che era possibile trovare una speranza.

La politica italiana, ma non di meno quella europea, ha risposto panicamente a questo fenomeno migratorio prolungato e su enormissima scala: ha obbedito agli input del mercato e del liberismo e ha reagito in chiave protezionistica, reagendo con misure repressive, confinarie, talvolta isteriche per arginare l’insoddisfazione sociale di un popolo depresso e compresso nei suoi diritti sociali, civili ed umani. Ma prima di tutto impoverito da decenni di prelievi sul salario e sulle pensioni, con sempre meno reti di tutela a disposizione delle fasce più deboli e indigenti.

Il neopauperismo di questi ultimi trent’anni ha viaggiato sulle ali di piombo di una economia di guerra che è stata foraggiata a discapito dei diritti fondamentali di ogni persona, italiana o non italiana che sia. La fine delle ideologie ha corrisposto alla fine delle grandi visioni sociali di un mondo in cui, se non proprio il socialismo, poteva trovare spazio un compromesso tra l’eccesso di prelievo dalle esistenze dei disperati e dei moderni proletari e il continuo, incessante arricchimento iperbolico di un numero sempre minore di pantagruelici megaricchi.

La mutazione davvero antropologica della percezione del problema migratorio si è così innestata negli italiani come fenomeno di carattere emergenziale, securitario: gli stranieri ci rubano tutto quello che potremmo invece avere. Il nemico non era più il padrone, l’imprenditore, il finanziere che ingrassava le sue tasche sul sudore della manovalanza operaia e grazie alla parcellizzazione del lavoro, alla precarizzazione dello stesso, al superamento persino dei livelli contrattuali come forma di competizione interna alle fabbriche e alle grandi industrie.

Il nemico era quel povero che veniva dall’altra parte del mare e che, più o meno, se la passava come il più povero di noialtri. Il nemico siamo diventati, per noi, noi stessi. La destra (e in parte anche il centrosinistra) ci hanno fatto credere che senza una legislazione emergenziale, che istituisse questi moderni campi di concentramento per i migranti, era possibile lo sconvolgimento della società perché non vi era argine e freno alla venuta dei dannati della Terra e non vi erano politiche altrimenti adeguate.

Ed ora, propagandisticamente, il governo Meloni, ereditando e sublimando questa incultura della paura, questa vera e propria xenofobia che, in quanto tale, come tutte le fobie non ha davanti a sé il pericolo che paventa come reale, realizza il sogno del rimpatrio dei migranti con un simbolismo becero, affidandosi alla non-sorte di sedici poveretti che saranno le cavie di un sistema che andrà a regime e che riprenderà con esattezza le caratteristiche del caos ingestionale dei CPR già tristemente noti.

Ma la Corte di Giustizia Europea non sembra dello stesso avviso del governo italiano: per prima la definizione di “paese sicuro” da cui provengono i migranti viene messa in discussione e, non di meno l’intero impianto delle cosiddette “procedure accelerate in frontiera“. Il combinato disposto di queste norme porterebbe ad un rimpatrio veloce per i migranti la cui nazione è valutata come sicura per loro da Roma ma che, una volta ritornati in patria, si potrebbero trovare nelle condizioni di finire in carcere in condizioni disumane, oppure essere perseguitati per altri motivi.

Meloni vuole semplificare e velocizzare nella misura in cui queste procedure divengono funzionali all’obiettivo di mostrare il pugno duro del governo verso una immigrazione che, peraltro, continua e non patisce l’effetto-deterrenza che, nelle intenzioni (piuttosto discutibili perché largamente ipocrite), avrebbe dovuto contenere a monte le partenze ed evitare nuovi sbarchi. I sedici migranti che sbarcheranno nel porto albanese di Shengjin facevano parte di un approdo di oltre trecento persone arrivate a Lampedusa.

La domanda che ne viene fuori è: ma i criteri selettivi sono così tali da impedire che, se non tutti, almeno la metà di questi poveretti non trovi posto nei nuovi lager di Stato in Albania? Che sorte attende quelli che rimangono a Lampedusa? Il punto è la diversificazione del diritto, dei diritti: non si tratta di individuare percorsi “privilegiati“, ma di capire a chi tocca, purtroppo, la sorte peggiore e perché. Una domanda che il governo non intende risolvere con risposte circostanziate.

Il centro di Gjader tratterrà coloro che saranno soggetti all’esame della domanda di asilo con le citate procedure velocizzate: per cui il trattenimento nel centro non dovrebbe superare i due giorni che occorreranno ad un giudice per vagliare ogni singolo caso. Nel caso di inaccoglimento delle domande, questi esseri umani passeranno in un CPR per la successiva espulsione e rimpatrio in uno dei paesi considerati “sicuri“.

L’elenco è tale da far ritenere molto elastiche le valutazioni fatte da Palazzo Chigi sulla sicurezza negli Stati di origine dei migranti… Stati africani in preda a guerre civili, governati da dittature, in cui le condizioni dei diritti umani sono ben al di sotto di ciò che la Corte di Giustizia Europea prevede. La definizione data da Bruxelles e Strasburgo, nonché dai giudici del Lussemburgo in merito è questa…:

«…un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale».

Ma il punto più dirimente rimane sempre questo: il fenomeno migratorio viene trattato sempre più come una questione di sola sicurezza, escludendo le implicazioni che deriveranno da una fase globale di ricollocazione della popolazione mondiale a seguito della crisi multilivello in un multipolarismo che si sta sviluppando tramite le guerre moltiplicatesi sul pianeta, le tattiche belliche e le nuove vie del commercio che, si guardi il caso…, interessano proprio i centri regionalmente nevralgici dei conflitti in essere.

Per questo il dramma dei centri di detenzione dei migranti viene avvertito quasi come un atto di generosità da parte dell’Italia che, quindi, si prenderebbe cura degli sbarcati: perché l’aspetto securitario, di difesa dei confini, della nazionalità, contro la “sostituzione etnica” e il mutamento culturale dell’Italia prevale sui temi che riguardano una uguaglianza dei diritti sociali che include i diritti umani e civili. Mentre è più facile trattare il tutto con un tratto poliziesco di frontiera, con un piglio di preservazione patriottica dell’italianità sopra tutto e sopra tutti.

Proprio questa estraneità è alla base di una formulazione di un rinnovato concetto di xenofobia su vasta scala: non tanto l’odio per il colore differente della pelle, quindi un attaccamento al vecchio razzismo novecentesco, tipico dei colonizzatori bianchi nei confronti dei popoli sottomessi neri o, comunque, diversi da noi occidentali; quanto semmai un razzismo propriamente economico. Constatando, oggettivamente, che la coperta è corta, che la crisi è molto più ampia e che, quindi, ci si deve chiudere nel fortilizio italico ed europeo per sopravvivere.

Ma per farlo con un consenso popolare ampio, serve spacciare il tutto con l’ambivalenza del securitarismo associato ad un protezionismo merceologico, ad una autctonia industriale che compete straccionamente con i grandi poli emergenti del neoliberismo del nuovo millennio. Per non rischiare domani di tornare ad essere i migranti del primo Novecento, ma questa volta diretti verso la Cina e non più verso la Repubblica stellata.

I diritti umani, quindi, vanno in secondo, terzo, quarto piano se l’allarme è composto da questa dualità, istillato nelle menti e nell’ancestralità di una rabbia sociale che viene incanalata dalla destra con l’approssimazione del tentativo di reggere alle contraddizioni che emergono: tanto in Italia quanto nelle sedi europee contro una mutazione transgenica di un diritto che non tutela più – almeno formalmente – tutte e tutti, ma distingue, seleziona e lascia in balia delle onde a volte, nei centri di Lampedusa altre, oppure trasferisce nei nuovi campi in Albania.

Le buone intenzioni del governo italiano stanno tutte, ma proprio tutte qui. Dunque, non esistono. Pare di essere tornati ai tempi in cui l’Italia si pensava grande nella sua miseria coloniale: portava le guerre civili dove non c’erano, apriva scontri dove regnava una sostanziale pace, invadeva nazioni sovrane e proclamava il suo impero. Lo chiamavano “un posto al sole“. Ma c’è sempre state e c’è ancora oggi tanta, troppa fredda ombra.

MARCO SFERINI

15 ottobre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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