Il day after delle elezioni di metà mandato fotografa un’America divisa quasi nettamente in due. Il partito repubblicano torna in maggioranza alla Camera, ma i democratici possono dire di avere contenuto la prevista rimonta Gop a numeri ben inferiori di quelli pronosticati alla vigilia.
Considerando le dinamiche storiche che ai midterm tradizionalmente assegnano forti recuperi al partito di opposizione, tanto più in tempi di crisi economica come quella attuale, il partito di Biden può tirare un sospiro di sollievo. In questo turno il Gop sembra destinato a doversi accontentare di una rimonta di appena una quindicina di seggi, ben al di sotto dei 30 o 40 pronosticati alla vigila (o dei 61 persi da Obama nel 2010).
Per quanto riguarda il Senato, che partiva in stato di parità il verdetto non si conoscerà possibilmente ancora per qualche giorno, il tempo di terminare gli scrutini e risolvere gli scarti millimetrici in Arizona e Nevada, dove il conteggio è complicato dalla tabulazione dei voti spediti per posta. A seconda di come finirà in quegli stati, si potrebbe poi dover aspettare addirittura fino al 6 dicembre, quando in Georgia si terrà il ballottaggio fra il pastore battista Raphael Warnock e l’ex campione di baseball afroamericano Herschel Walker reclutato dal Gop – sarebbe una fotocopia della sequenza che determinò gli equilibri già due anni fa.
Più che dare nuove indicazioni quest’ultima tappa di una stagione straordinariamente instabile e combattuta della storia politica del paese conferma insomma la volatilità del momento storico, che Kari Lake, candidata trumpista a governatrice dell’Arizona, ha definito un «giorno della marmotta». Mentre scriviamo Lake è in un testa a testa con l’avversaria democratica Katie Hobbs.
Personalmente reclutata da Donald Trump, Lake ha esplicitamente imbastito la propria campagna sul complotto immaginario della «vasta frode» messa in campo due anni fa dall’ex presidente, compreso il teorema preventivamente dichiarato per cui un’eventuale sconfitta avrebbe automaticamente comprovato irregolarità.
E proprio a Phoenix, capitale occidentale del complottismo, si sono verificati disguidi che le hanno permesso di amplificare il messaggio. Poco dopo l’inizio degli scrutini, molti seggi hanno registrato problemi tecnici con stampanti e scansionatori di schede. Lake e Charlie Kirk, direttore di Turning Point Usa (un fronte della gioventù trumpista che ha sede qui), hanno gridato ai brogli per inibire i voti repubblicani e chiesto ad un giudice la proroga di tre ore delle operazioni di voto.
L’istanza è stata respinta ma ancora una volta la tesi complottista è stata amplificata nell’ecosistema di podcast di estrema destra a cui hanno partecipato personaggi come Steve Bannon e lo stesso Trump. All’ora della scrittura mancano all’appello ancora un terzo dei voti ed i candidati sono separati da meno di un punto percentuale.
Lo scrutinio dovrebbe terminare venerdì, ma visto il prevedibile scarto non è difficile immaginare che in Arizona si possano ripetersi i ricorsi e le recriminazioni già viste due anni fa e che, fomentate da Trump, portarono al tragico epilogo dell’insurrezione e l’assalto al Parlamento, rappresentazione plastica dell’attacco nazionalpopulista all’ordinamento democratico.
Ed in un certo senso questi midterm non possono non essere considerati significativi proprio per quello che riguarda gli equilibri interni al Gop. Impossibile in questo senso non constatare una sconfitta per Trump che aveva avuto un ruolo diretto nella selezione di centinaia di candidati fedeli alla sua linea ”negazionista”. Molti ieri sono però risultati sconfitti come Mehmet Oz e Doug Mastriano ad esempio il cui cedimento ha determinato la pesante conquista democratica della Pennsylvania.
È vero che alcuni populisti Maga sono passati, come JD Vance in Ohio (che si è però guardato dal ringraziare Trump), ma altrove si sono affermati moderati come Brian Kemp, che nel 2020 aveva apertamente opposto resistenza alle pretese di Trump per truccare i risultati. Cattive notizie anche dalla roccaforte della Florida dove i repubblicani che hanno debordato sono guidati da Ron De Santis potenziale rivale di Trump nelle prossime primarie presidenziali. Le voci che trapelano da Mar-A-Lago parlano di una delle famigerate furie del grande capo.
La partita si giocherà intanto con la nomina del nuovo speaker della Camera. A sostituire Nancy Pelosi è designato l’ultraconservatore californiano Kevin McCarthy. Durante l’assalto al campidoglio aveva telefonato a Trump dal bunker di sicurezza implorandolo di richiamare i facinorosi. Successivamente si era recato a Mar-A -Lago a cercare l’investitura dell’ex presidente. Fino all’altroieri prevedeva di disporre di una maggioranza di 30 seggi. Oggi quelle aspettative sono molto ridimensionate e sarà interessante vedere quali saranno i suoi rapporti con l’agguerrito gruppo parlamentare Maga.
Detto tutto questo, per Joe Biden la strada ora si fa più in salita. La missione del Congresso repubblicano sarà il sabotaggio della sua agenda e la preparazione della campagna 2024. Per il Paese si prospetta la stasi, anche in ambito globale dove è difficile prevedere iniziative propositive su clima, ad esempio, o sulla guerra – grande assente nel dibattito politico qui – al di la di un possibile simbolico ridimensionamento degli aiuti a Zelensky, è lecito attendersi un proseguimento dello status quo.
LUCA CELADA
Foto di Polina Zimmerman