È ora disponibile la nuova edizione del libro di Gilles Deleuze, Foucault (1986), riproposto egregiamente dalla casa editrice Orthotes (pp. 180, euro 17), con traduzione, cura e postfazione eccellenti di Filippo Domenicali. Pubblicato a due anni dalla scomparsa del filosofo che ci ha regalato lo scalpello per portare alla luce le stratificazioni del sapere e nuove lenti per osservare il potere, Foucault probabilmente non rappresenta soltanto una commemorazione concettuale dell’amicizia tra i due filosofi, caratterizzata da profonde condivisioni così come dal disaccordo sul desiderio e il piacere, bensì anche una risposta diagonale, discreta, quasi impercettibile, all’ormai celebre frase foucaultiana secondo cui «un giorno, forse, il secolo sarà deleuziano». Invece di interpretarne il senso o di ricambiare la civetteria con un’altra frase altisonante, Deleuze, in continuità con le sue monografie precedenti, sembra aver scelto la strada della macchinazione, ossia la ripetizione differenziante per cui si fa dire a un autore ciò che il suo pensiero prepara senza affermarlo esplicitamente.
Così, forse, Deleuze ci sta suggerendo che, se il secolo deve diventare deleuziano, le ragioni – quali che siano – vanno cercate proprio in Foucault, ossia dentro al Foucault, nel suo Foucault, il quale proviene dal fuori del pensiero foucaultiano, vale a dire appunto dalla prospettiva di Deleuze, un fuori da cui osservare le viscere e i movimenti peristaltici dell’elaborazione concettuale del suo amico. L’ecografia deleuziana è allora quanto mai precisa nel descrivere le tre ontologie di Foucault, sapere, potere e sé, monitorandone anche il crescere e l’intrecciarsi lungo il corso dei suoi libri. Sono ontologie storiche, poiché non stabiliscono condizioni universali bensì problematiche, la cui aria kantiana si impasta col fumo delle barricate, con gli odori e le penombre delle carceri, con il vapore dei piaceri: «presentano la maniera in cui il problema si pone in una certa formazione storica: che cosa posso sapere, o che cosa posso vedere ed enunciare in certe condizioni di luce e di linguaggio? Che cosa posso fare, a che potere posso aspirare e che resistenze opporre? Che cosa posso essere, di quali pieghe posso circondarmi o come posso produrmi come soggetto?».
Ontologie: Foucault è per Deleuze sicuramente un archivista-archeologo del sapere e un cartografo del potere, ma anche e soprattutto un filosofo teoretico della molteplicità che lavora con metodologie, oggetti e materiali diversi dai suoi, ai quali però lo stesso Deleuze ha spesso attinto per sviluppare il proprio pensiero.
Foucault è però anche un pensatore delle pratiche, tanto per il suo impegno nelle lotte politiche e sociali – con la conseguente trasformazione del ruolo dell’intellettuale – quanto perché è precisamente analizzando come funzionano nel concreto e nel dettaglio le stratificazioni del sapere, le strategie del potere e le pieghe della soggettivazione, che ha reso possibile al tempo stesso una fondazione ontologica di queste tre sfere e un loro dinamismo storico. È poi tale dinamismo la chiave per leggere le evoluzioni delle formazioni giuridiche della sovranità, della disciplina e della sicurezza, dell’anatomia politica e della biopolitica, così come il primato della resistenza rispetto al potere, che sancisce la potenza – in termini nietzschiani e spinoziani – dei processi di soggettivazione e, dunque, delle lotte.
Si tratta tuttavia di un primato ontologico che deve sempre essere espresso in seno alla storia, nelle condizioni concrete dell’esperienza e nella microfisica dei rapporti di potere. Le domande poste in precedenza hanno allora un loro doppio militante, che continua a innervare e problematizzare il nostro presente: «Quali sono i nuovi tipi di lotte, trasversali e immediate, piuttosto che centralizzate e mediate? Quali sono i nuovi modi di soggettivazione, privi di identità, piuttosto che identitari? Quali poteri bisogna affrontare, e quali sono le nostre capacità di resistenza, oggi, nel momento in cui non è più sufficiente dire che le antiche lotte non valgono più?». E così, Foucault, ossia il doppio di Foucault, nelle ultimissime righe può esibire con grande chiarezza il senso della «morte dell’uomo» annunciata in Le parole e le cose, descrivendola come l’estinguersi di una forma antropocentrica di dominio sull’esistente a vantaggio di un nuovo composto di forze, una nuova forma che non sia «né Dio né uomo, di cui si può sperare che non sarà peggiore delle due precedenti»: forse, era proprio quella morte, questa nuova forma, la nascita del secolo deleuziano.
PAOLO VIGNOLA
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