Meritocrazia: è vera gloria?

Il merito è diventato parte integrante del discorso pubblico. In tutti i campi della vita sociale viene evocato come chiave di volta per qualsiasi progetto di riforma. Ma questa...

Il merito è diventato parte integrante del discorso pubblico. In tutti i campi della vita sociale viene evocato come chiave di volta per qualsiasi progetto di riforma. Ma questa parola così seducente mantiene quello che promette oppure è una parola quanto meno ambigua se non ideologica?

Le società possono essere rappresentate come strutture reticolari in cui classi e ceti formano una struttura piramidale. Come si regola l’accesso alle diverse posizioni di questa “scala sociale“? In astratto il meccanismo più efficiente sembra essere la selezione meritocratica, che valuta titoli, competenze, motivazioni. Quanto meglio funzionano i filtri selettivi, tanto meglio sarà per tutti: se i medici sono bravi, le cure sanitarie saranno più adeguate.

Le alternative alla meritocrazia sono tutte più disfunzionali e più inique: parentela, clientela, cooptazione oligarchica, appartenenze di gruppo etc. Nel mondo reale, le cose sono molto più complesse. Molto dipende dal contesto di partenza e ogni tappa dipende da quelle precedenti e condiziona quelle successive. La strettoia primordiale di ogni ciclo di esistenza personale è la famiglia di nascita, principale veicolo della trasmissione intergenerazionale di vantaggi e svantaggi. Il secondo ostacolo è legato ai contesti geografici ed economici in cui si dipanano le prime fasi del percorso di vita, alla presenza di servizi e stimoli che ci consentano di sviluppare le inclinazioni naturali.

Una meritocrazia equa dovrebbe allora mitigare l’impatto di questi fattori il più precocemente possibile, tramite sostegni economici congrui, misure differenziate e quasi individualizzate che compensino a scuola i deficit dell’ambiente d’origine.

I condizionamenti immeritati si presentano anche alla fine dei percorsi educativi, la scelta dei quali e il loro buon fine sono sempre pesantemente inficiati dalle condizioni socio economiche della famiglie di appartenenza. L’incontro fra talenti e posizioni avviene tipicamente in base a prove “di merito” che sono colloqui, esami, concorsi. In questi snodi cruciali, la selezione è cieca rispetto alle concatenazioni di opportunità che ciascun partecipante ha incontrato nelle tappe precedenti in quanto fortuna e contesti hanno già eliminato in modo arbitrario molti concorrenti.

Se la vita inizia con una lotteria naturale e sociale, che genera effetti a cascata in termini di iniquità, perché non introdurre qualche contrappeso a valle? Si potrebbero assicurare quote di tempo e di reddito che ci consentano di rifare la gara. In un’epoca in cui la vita dura quasi cent’anni, perché non dovremmo facilitare e sostenere nuovi inizi, seconde carriere, preferenze che si modificano anche più volte nel corso dell’esistenza? Un modello che ricorda il paradigma della “Vita Activa” di Hannah Arendt, basata sull'”operare“: costruire creativamente e collettivamente un ambiente sempre più ricco di opportunità di scelta e possibilità di azione per tutti.

Invece ,purtroppo non si riesce mai a fare i conti con la potente idea del self-made man (una pulsione di morte?): farcela da soli dà un senso di possibilità e di libertà, ma corrode la solidarietà e porta con sé un giudizio morale: se non hai successo, sei un perdente ed è colpa tua. In “coerenza” a quanto sopra, proponendo la “retorica dell’ascesa” – come soluzione alla sfida della globalizzazione, delle diseguaglianze, della de-industrializzazione – l’idea che lavorando sodo e seguendo le regole il successo dell’individuo dipenda solo da talento e sforzi, la sinistra mondiale ha abbandonato le classi meno istruite, dicendo loro di migliorarsi e istruirsi o di assumersi la responsabilità del fallimento.

La paradossale rivolta dei diseredati americani
Il voto a Trump nel 2016 è stato paradossalmente il risultato di una rivolta populista contro la tirannia del merito. «Che la responsabilità sia dei deplorevoli» (frase usata da Hillary Clinton prima di perdere le elezioni nel 2016) e non delle politiche che hanno contribuito alla crisi. Una delle ragioni per cui il Partito democratico tra le presidenze di Bill Clinton e Barack Obama ha gradualmente perso elettori nella classe operaia è l’avere abbracciato le prospettive delle classi professionali più istruite, restando sordo al risentimento crescente dei ceti meno abbienti. Rispondere al problema delle diseguaglianze col mito dell’istruzione universitaria esclude la maggioranza degli americani, i quasi due terzi della popolazione che non hanno una laurea quadriennale.

Il New York Times ha mostrato che Trump non ha fatto fortuna facendo l’imprenditore di successo, ma recitando quella parte in tv. Questo non dà fastidio ai suoi elettori, perché la loro rabbia è rivolta contro lo status elitario legato ai titoli universitari, all’intellettualismo, e alla supponenza con cui si sentono trattati da chi li possiede. L’obiettivo della rivolta populista sono le élite istruite dei media, degli studi legali, del mondo accademico. Non c’è lo stesso risentimento verso le élite del business. Sembra esserci il presupposto che queste ultime si siano arricchite costruendo qualcosa, anziché avanzare grazie alla presunzione del merito.

Lo stesso Trump è sempre stato guardato dall’alto in basso dalle élite finanziarie e culturali di New York: la sua percezione di essere trattato ingiustamente gli ha paradossalmente permesso di creare una connessione con il senso di ingiustizia e di inferiorità vissuto dai lavoratori e di diventarne un improbabile loro “rappresentante“. Trump prometteva, barando, che avrebbe reso l’America di nuovo grande: in quanto americani sarebbero stati tutti vincitori; non era una questione di mobilità individuale e di istruzione.

Da questo punto di vista Sanders è simile a Trump nel senso che pure lui, anche se da sinistra, parlava al risentimento, alla frustrazione e all’impotenza delle classi meno istruite, e in più ai giovani. Le loro candidature sono emerse dalla rabbia e principalmente dal senso di ingiustizia per la crisi finanziaria del 2008 e per il salvataggio delle banche appoggiato da entrambi i partiti, inclusa l’amministrazione Obama.

Tirannia delle elite cognitive
La meritocrazia come ideale politico è emersa negli anni Novanta nella sinistra mondiale che aveva fatto suo il paradigma economico della destra, le riforme della Thatcher e di Reagan, e dunque aveva bisogno di una nuova narrativa, appunto attraverso lo scivolosissimo concetto di meritocrazia. Una società dove alcuni vincono e tutti gli altri si sentono dei falliti, sembra perfetta per creare il tipo di risentimento che alimenta il populismo, che è il risultato della tensione fra la promessa di eguaglianza nella sfera politica e la realtà della diseguaglianza economica e di status.

Le nostre società hanno attribuito troppa importanza ai lavori intellettuali a scapito di quelli manuali e della cura. Questa svalutazione è alla radice delle rivolte populiste, da Trump alla Brexit. Abbiamo attribuito troppo prestigio e remunerazione a un insieme di capacità, quelle analitiche cognitive, mentre è stato sottratto valore ai lavori manuali e di cura. Abbiamo sviluppato una definizione troppo ristretta di cosa significhi condurre una vita di successo, perché è una definizione che taglia fuori i due terzi della popolazione.

Tutte le democrazie ricche del mondo hanno enormemente sviluppato l’educazione superiore nel corso dell’ultima generazione, creando una scala unica verso la sicurezza e la riuscita nella vita. Se andiamo indietro di venti o trent’anni c’erano nella nostra società tante piccole scale verso l’alto: se eri una persona relativamente capace, competente, venivi notato e potevi scalare i ranghi della tua organizzazione, che fosse l’esercito, le autorità locali o un ospedale. Oggi è molto più difficile, perché adesso devi avere una laurea o addirittura un master per poter entrare in prima istanza in quelle organizzazioni, quindi c’è molta meno promozione dal basso attraverso l’esperienza fatta gradatamente sul campo.

Nessuno è contrario alla produzione di conoscenza e all’alta intelligenza, sono cose vitali, oggi più che mai. Sicuramente servono persone altamente istruite e capaci per trovare il vaccino contro il Covid: ma questo non giustifica la creazione di una grande burocrazia cognitiva, fatta spesso di persone che non sono maggiormente capaci di altre impiegate nei lavori manuali o di cura. Abbiamo raggiunto il picco della “testa” e un riequilibrio stava cominciando già prima della pandemia. Sappiamo che l’intelligenza artificiale renderà superflui molti lavori cognitivi.

C’è già una riduzione nel premio salariale per i laureati: era del 50 per cento in più rispetto ai non laureati, ora per gli uomini che non vengono da università di élite è meno del 10 per cento. E il 30 per cento dei laureati ormai non fanno lavori che richiedono la laurea. Mentre abbiamo prodotto in eccesso lavoratori cognitivi al medio e basso livello. Durante la pandemia ci siamo tutti resi conto di quanto profondamente dipendiamo da lavoratori impiegati non solo negli ospedali, ma anche nelle consegne, nei magazzini, nei supermercati, nell’assistenza sanitaria a domicilio, nelle scuole per l’infanzia. Non sono certo i più pagati e rispettati nelle nostre società, eppure oggi li definiamo essenziali.

Dobbiamo innalzare lo status e la retribuzione di queste categorie. Ciò porterebbe a un dibattito pubblico su una società basata sulla dignità del lavoro, sul rispetto e il riconoscimento economico e sociale di lavoratori che danno un forte contributo al bene comune, pur non essendo laureati.

Che fare?
Forse aveva ragione Lenin, ogni cuoca dovrebbe imparare a governare lo Stato? Ovviamente abbiamo bisogno di una selezione meritocratica per i lavori apicali: se si vuole avere i migliori fisici nucleari alla guida di un programma di ricerca nucleare, non li si può selezionare a sorte.

Ma un conto è la selezione meritocratica dei lavori un altro è una società meritocratica. Una società meritocratica non è un buon ideale, in quanto la meritocrazia dovrebbe essere solo un principio pragmatico per allocare le persone più adatte ai lavori più adatti all’interno di non vaste sperequazioni retributive intendendo i lavori poco più che la loro divisione di compiti in società giuste per cui tendenzialmente coese. In altre parole all’interno di società tendenti verso un socialismo etico e umanista, preoccupato delle derive tecnocratiche ed economiciste.

Quando pensiamo che il successo da noi raggiunto sia merito nostro, ci sfuggono due cose: il peso della fortuna e il debito che abbiamo nei confronti di familiari e insegnanti, del quartiere e della comunità, del Paese e dei tempi in cui viviamo. Inviterei chi ha avuto successo a riconsiderare la propria hybris meritocratica. Spero che una nuova considerazione del merito porti a una vita pubblica più generosa.

LUCA PAROLDO BONI

26 febbraio 2021

Foto di Free-Photos da Pixabay

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