Tanto tempo fa, Augusto Daolio, voce, emblema, artista e spirito veramente nomade, nel rilasciare una intervista su una delle sue bellissime mostre e, ugualmente, nel parlare dell’ultimo album del gruppo rock-beat-pop che aveva coinvolto socialmente più di una generazione della rivolta e del riflusso, citò Marguerite Yourcenar.
La lettura de le “Memorie di Adriano” (Einaudi) lo aveva coinvolto a tal punto da ricercare in quella stranissima opera proprio un motivo in più per declinare con maggiore certezza il compito di responsabilizzarsi davanti al mondo per preservarlo, per renderlo migliore, per sentirsi in prima persona portatore di una missione universale e particolare al tempo stesso: garantirne la bellezza.
Augusto riprendeva le parole che la scrittrice aveva fatto pronunciare all’imperatore proprio sulla parte che ognuno di noi ha in sorte nel trovarsi a vivere su questa terra; una parte in cui è compreso il ruolo attivo della cura tanto verso noi stessi quanto verso le persone, gli animali e la natura che ci circondano.
Fu lo spunto per riprendere in mano quello strano, tormentato e lungo elaborato scritto che, dopo varie stesure, cestinature, pause e recuperi di singole frasi o capitoli, divenne l’opera per cui la Crayencour (che aveva anagrammato il suo cognome in Yourcenar) è universalmente nota tutt’oggi.
L’imperatore, inizialmente, avrebbe dovuto dialogare per farsi conoscere ai posteri: forse con il giovane e futuro erede Marco Aurelio. Poi, come si può leggere negli utilissimi “Taccuini di appunti” in doveroso accompagnamento di appendice, le voci di questo dialogo si sarebbero sovrapposte a quelle del Cesare e, dunque, ne avrebbero ridimensionato il ruolo di raccontatore e le memorie non sarebbero state più quelle che Marguerite aveva in mente.
Il lavoro di ricerca per la loro stesura è stato molto vasto, estremamente meticoloso e certosino. Tuttavia, fin dalle prime battute, e mano a mano che si voltano le pagine, per chi almeno conosce un po’ di epistolarismo latino, risulta molto improbabile che Adriano potesse esprimersi nei termini usati dalla Yourcenar. Licenza del tempo, licenza dello scrittore. Ci sta.
Vale la pena provare ad oltrepassare queste rigidità stilistiche, legate allo spirito espressivo del tempo, per godersi un’opera che è davvero singolare. Non è un romanzo e nemmeno una ricerca storica. Non è prosa ma somiglia ad una poesia, perché la musicalità c’è fin dai titoli dei singoli capitoli.
Non è un trattato, questo è certo. Ma non è neppure classificale nel filone della letteratura classica che si ispira ad un metodo storico un po’ artificioso e tuttavia utile per conoscere a fondo il pensiero, la vita e la discesa verso la morte di un imperatore che non amava le guerre, che soffriva per il sangue versato e che, tuttavia, aveva servito sotto Traiano facendosi a poco a poco notare proprio per il suo valore e la sagacia.
Si potrebbe farne un saggio storico, una specie di parafrasi dei pensieri mai scritti ma dedotti dalle opere che ci hanno tramandato l’esistenza di colui che amò perdutamente il giovanissimo Antinoo e per il quale, là nel remoto Egitto, accanto alle acque del Nilo che inghiottirono lo splendido viso, i dolci riccioli e il sinuoso corpo del ragazzo, l’imperatore fece edificare una città col suo nome.
In verità, l’opera di Marguerite Yourcenar è un po’ tutto e un po’ niente di questo: è un mistero letterario che si risolve leggendolo, perché ognuno è libero di accostarvisi e di entrare pienamente nel mondo della Roma e dell’Oriente di allora, con quell’atteggiamento dell’osservatore che viene da lontano e che, obliando il proprio presente, si mette accanto al cesare e ne ascolta la redazione delle lettere a Marco Aurelio.
Il coinvolgimento non è concetto esagerato nell’esprimere il tipo di rapporto che si instaura tra il lettore e lo scrivente. La redazione delle memorie in prima persona – ebbe a notare la Yourcenar – contrariamente a quanto si può pensare, le permise di smarcarsi dall’identificazione con Adriano e di permettersi così di fare ciò che gli archeologi facevano alle rovine resistite ai millenni: scavare, ma dal di dentro, e scoprire, non senza l’inevitabile rapporto empatico che si crea, la più intima sfera dei sentimenti di un uomo che reggeva un impero.
Delle vecchie tracce di appunti e dei capitoli dati alla distruzione, quelli scritti tra il 1924 e il 1929 e poi nel 1934 (a testimonianza della lunga gestazione dell’opera che, infatti, uscirà solamente nel 1951) rimase soltanto una frase isolata che, a detta della stessa autrice, sarebbe stata paradigmaticamente il “punto di vista del libro“: «Incomincio a scorgere il profilo della mia morte».
Impregnato di cultura ellenistica, capace di dialogare con l’imperatore dei Parti proprio tramite l’inglese del tempo, che è, oltre al latino in occidente, la lingua greca in oriente, Adriano concepisce la ciclicità del tempo come inevitabile susseguirsi della trasformazione del tutto: la morte non è, quindi, una disperazione da affrontare con atterrimento, ma un passo ulteriore da fare nel compimento dell’esistenza.
Dei soggiorni in Bitinia, a Nicomedia, là dove l’incontro con Antinoo avviene e tutto diventa bello, sfolgorante e sfavillante, l’imperatore dirà che furono il principio dei migliori anni che visse. Un periodo fulgido, dove i giochi dell’immaginazione si confondevano alla straordinaria vicinanza reale dell’amante che gli pareva a tratti un pastorello intendo ad ascoltare tutte le voci della natura, diversamente una goccia di miele capace di togliere l’aspro a qualunque vino.
E’ qui che la poesia prende il sopravvento, nel “saeculum aureum” che dà il titolo al capitolo. Perché Adriano, ormai anziano, ripensando a quei momenti riscopre tutta la bellezza che intende preservare nel mondo. Antinoo è il suo mondo, è il nome che prenderà un culto religioso e civile al tempo stesso, che si diffonderà in tutto l’impero. E’ la vita che non muore, che si eternizza pur nella trasformazione di ogni cosa, nella non recuperabilità di quelle sensazioni se non mediante la percezione interiore.
Quando ritrovano il corpo del ragazzo affogato nel Nilo, all’imperatore pare «pesante come la pietra». E’ l’abbraccio ultimo con il suo amore che, pur, nella graniticità inscalfibile del dolore, non trascende nella follia ma si abbandona al vuoto che sente intorno; singhiozza nel grigiore improvviso che gli si fa manifesto e che lui diventa. Invecchiando improvvisamente ancora di più.
Non c’è calore dell’abbraccio che possa far risvegliare Antinoo. Non c’è che la persuasione docile di Ermogene, del medico di corte, che solo dopo alcuni giorni riesce a convincere Adriano a dare sepoltura al fanciullo, all’amore che, nonostante tutto, non lo lascia. Gli onori che si tributano al ragazzo di Claudiopoli sono degni di un faraone. In fondo, la vita è vanità: vanitas vanitatum, inconsistenza all’ennesima potenza.
Per un amore puro e sincero, anche la costruzione di una città sembra, agli occhi di un cesare, una piccolezza. Un regalo di bellezza da fare al mondo in cui tocca rimanere. Adriano, sino alla fine, ritrova nel suo impegno giornaliero il motivo di dare preservazione a questa incantevole supposizione: occuparsi tanto delle presunte piccole quanto delle evidenti grandi questioni che l’impero ogni giorno gli mette davanti, è il metodo con cui sopravvive.
Lo disgusta la vita delle grandi città, non di meno quella di Roma. Preferisce dedicarsi alle sue riforme agrarie: visita centri in cui dispone come coltivare al meglio i terreni, tagliare i boschi di Stato, deviare corsi fluviali e prosciugare paludi. La vita militare, ormai, è tanto, ma tanto lontana: il furore delle armi lo perseguita nel mandargli immagini di atrocità che aborrisce.
Di notte dorme pochissimo, soffre di insonnia, perché, ammette, vede nel «sonno perfetto una appendice dell’amore». Si dorme bene quando si è felici e il riposo di ognuno somiglia a quello «riflesso in due corpi». Rimanendo fedele all’inconoscibilità antica del metodo psicoanalitico, Marguerite Yourcenar riesce comunque a far dire all’imperatore che c’è qualcosa di imprendibile dai sogni, che rimane nel profondo di ciascuno e che, quindi, la vera cura sta nell’abbandono,
Ci si addormenta nel momento in cui si entra nel completo lasciarsi andare ad una volontà che, oggi, diremmo “inconscia“, e che è l’essenza nostra, invisibile nella veglia, intuibile di giorno, approcciabile la notte quando la nostra attenzione viene meno.
Così come ci abbandona tra le braccia di Morfeo, provando ogni sera non il terrore della morte, ma il momentaneo fuggire dall’esistenza vissuta, non dalla vita che permane col nostro respiro e nelle immagini dei sogni, altrettanto si deve di continuo ritornare nella grandiosità del mondo che si è costruito o contribuito ad edificare. Ciò che abbiamo è prezioso e lo diventa ancora di più quando rischiamo di perderlo.
«Per una contraddizione intima, questa ossessione della morte ha cessato di dominare il mio spirito soltanto quando son sopraggiunti a distrarmene i primi sintomi del mio male; ho cominciato a interessarmi a quella vita che m’abbandonava; nei giardini di Sidone, ho desiderato appassionatamente di godere del mio corpo qualche anno ancora».
Cosa rimane della cesaristica altezza di un signore e padrone del mondo davanti all’estremissima umanità della finitudine della vita? Dalle pagine intrise d’amore, quasi esclusiva poesia per Antinoo, si passa alla riflessione filosofica ed esistenziale sul termine, sul finire dei giorni tra sofferenze che impediscono di recuperare un ottimismo fatto di voglia di guarire e un desiderio di non annullarsi in mezzo a tanta sordidà, grettezza, repellenza nei confronti del dolore.
Sempre negli ormai famosi “taccuini“, la Yourcenar confessa tutto il suo interesse per Adriano: l’umanità di un individuo che ha conservato la pace nel suo mondo e nei confronti degli altri imperi che lo continuavano nella rete degli scambi del mondo antico; la sua capacità gestionale e amministrativa, il suo governo che mirava più che a fare le guerre, ad instaurare un periodo di condivisione delle esperienze più diverse.
Le “Memorie di Adriano“, che l’imperatore non ha mai scritto, vivono grazie ad un sapiente gioco di ricerca compulsiva su testi, testimonianze, confronti e raffronti in cui Marguerite non si è certo risparmiata. Non per una attitudine eccentrica che mirasse ad un civettuoleggiante perfezionismo. Semmai per somigliare a quegli archeologi che restituivano al mondo ciò che veramente era stato.
La verosimiglianza di ciò che la Yourcenar fa dire ad Adriano e ciò che Adriano avrà pensato, detto e scritto per davvero, conta nella misura in cui l’aderenza storica è riscontrabile pagina dopo pagina, senza impedire alla scrittrice, rimproverandoglielo, di essersi concessa qualche licenza romanzesca.
Abbiamo tentato all’inizio di trattare della classificazione letteraria di quest’opera affascinante e inincasellabile nella categorie classiche delle produzioni librarie. Forse abbiamo dimenticato la sceneggiatura per un film. L’unico tentativo, fatto nel 2007 dal regista John Boorman, non è andato a buon fine. Per mancanza di finanziamenti, nonostante la presenza di Antonio Banderas a fare da apripista alla pellicola.
Chissà che un giorno Adriano riviva ancora, con tutto il suo amore per la bellezza, per il mondo, con tutte le sue passioni, in una immagine che lo ricostruisca attraverso quelle memorie che Marguerite Yourcenar ha scritto per lui e che somigliano sempre di più a ciò che lui avrebbe realmente vergato rivolto al futuro imperatore filosofo, Marco Aurelio…
MEMORIE DI ADRIANO
MARGUERITE YOURCENAR
EINAUDI, SUPER ET, 2014
€ 13,50
MARCO SFERINI
27 febbraio 2024
foto: particolare della copertina del libro, busto di Antinoo