«Cooperare per individuare soluzioni urgenti alla questione dei migranti clandestini che attraversano la Libia per recarsi in Europa via mare, attraverso la predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine»: questo è l’obiettivo indicato. E a tal fine si dovrà lavorare perché «al tempo stesso i paesi di origine accettino i propri cittadini» e sottoscrivano «con questi paesi accordi in merito». Bastano queste parole del Memorandum firmato l’altro ieri dal presidente del consiglio italiano Gentiloni e dal premier libico Fayez al Serraj (che, ricordiamoci, governa su una parte sola di quel territorio) a prefigurare scenari non rassicuranti su quanto potrebbe accadere a partire dalle prossime settimane.
Seppure trascuriamo per un attimo l’ovvio scetticismo circa la realizzabilità di accordi di cooperazione nel contesto libico attuale, totalmente precario e privo della benché minima prospettiva di stabilizzazione in tempi brevi, si deve comunque entrare nel merito del contenuto del Memorandum.
Il quadro che quelle parole evocano non richiede uno sforzo d’immaginazione, ma piuttosto un esercizio di memoria, dal momento che il futuro prevedibile è stato anticipato da quanto già accaduto nell’ultimo decennio. Conosciamo le condizioni dei centri temporanei in Libia dai racconti di quanti sono sopravvissuti, nonostante i trattamenti disumani e le sopraffazioni subite a Sebah, nel Sud, o a Sciuscia, al confine con la Tunisia. E conosciamo nei dettagli più dolorosi quanto accade ora in Libia, su un territorio fuori dal controllo di qualsiasi governo, alle migliaia di persone eritree, somale, nigeriane, sudanesi, gambiane e di molti altri paesi africani, prima che raggiungano i barconi diretti verso le nostre coste. Racconti crudeli, che si susseguono tutti uguali da mesi e da anni e che rappresentano, da soli, la premessa ineludibile che impone di considerare inaccettabile, oltre che inattuabile, un accordo col governo libico per il controllo e la gestione dei flussi migratori.
Valutazioni condivise da Unhcr e da Oim, nonostante il loro coinvolgimento nel piano della Commissione europea discusso ieri nel corso del vertice di Malta.
Le due organizzazioni internazionali sostengono che è prematuro e rischioso pensare a dei centri sul modello hotspot nella Libia attuale e che si devono creare, innanzitutto, corridoi umanitari sicuri e servizi ricettivi appropriati dove il governo libico possa «registrare i nuovi arrivi, sostenere il ritorno volontario, esaminare le richieste di asilo e offrire soluzioni ai rifugiati». Ed è sicuramente questo l’aspetto più delicato: una strategia tutta finalizzata a bloccare l’immigrazione cosiddetta «clandestina» non lascia spazio alla tutela dei diritti e alla protezione internazionale.
Nel Memorandum siglato l’altro ieri a Roma la parola asilo non compare: e non c’è alcun riferimento a quanti, all’interno dei flussi che partono dalle coste libiche, fuggono perché in pericolo di vita, perseguitati e bisognosi di soccorso e tutela.
La questione migratoria non può essere affrontata dall’Italia e dai paesi europei se non partendo dai principi di diritto internazionale su cui si basano le nostre democrazie. Abdicare a quei principi vuol dire rinunciare di fatto alla propria storia e mettere in discussione l’intero sistema di valori a cui si ispirano gli stati di diritto. L’orizzonte non può essere così angusto: davvero per bloccare i flussi che da qui a poche settimane riprenderanno ancora più intensi siamo pronti a rinchiudere centinaia di migliaia di persone nei campi libici? E’ davvero sufficiente impegnare dei fondi per finanziare paesi africani che sappiamo essere instabili e fragili, quando non apertamente dispotici o totalitari? Basta puntare solo sulla cooperazione in materia di sicurezza e controllo della frontiera, mettendo in secondo piano lo sviluppo economico e democratico di quei paesi?
Dieci anni fa, a contestare un accordo con la Libia non troppo dissimile, fu un piccolo pugno di parlamentari (i radicali, Savino Pezzotta, Furio Colombo, e pochi altri). Possiamo sperare che quegli anni siano bastati a veder moltiplicato quel numero allora così esiguo?
LUIGI MANCONI
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