Dopo aver rassicurato l’Europa e i mercati, il Colle e la Casa Bianca ora la presidente del consiglio deve fare lo stesso con il suo mondo e la sua maggioranza che iniziano a considerare esagerata la continuità con Draghi. L’occasione è oggi, il debutto, il discorso sulla base del quale chiederà la fiducia della Camera alle 11 e domani del Senato. Ci si può quindi aspettare un discorso sbilanciato a destra, teso insomma a garantire che Giorgia Meloni non ha dimenticato di essere a capo di un governo politico di destra.
Atlantismo e sostegno all’Ucraina indiscutibili, perché l’ombrello che la protegge è costruito sull’asse Usa-Uk-Polonia e paesi europei dell’est ma già sull’europeismo i toni saranno più smorzati. Tanto più dopo l’insistenza di Macron sulla «vigilanza» nei confronti dell’Italia, al termine dell’incontro di domenica a Roma, che ha profondamente irritato la nuova inquilina di palazzo Chigi. Europa sì, quindi, però facendo valere gli interessi dell’Italia, anche sul fronte molto caro a Salvini – ma pure a Meloni – dell’immigrazione.
Più che soffermarsi sulle urgenze dietro l’angolo, la premier tratteggerà un orizzonte di legislatura, il piano a lungo termine di obiettivi che certificano la natura politica del governo: presidenzialismo, tasse, piano energetico in buona misura gestito dall’ex ministro e oggi alto consigliere Cingolani, Pnrr da rispettare ma anche da revisionare alla luce di un prezzo delle materie prime impennatosi, insistenza sui «valori» però senza rimettere in discussione i diritti acquisiti a partire dall’aborto.
L’idea di base dovrebbe essere un discorso programmatico forte, con tanto di illustrazione dei progetti concreti che dovrebbero tradurre in realtà quella visione. Senza agenda precisa o cronoprogrammi però, perché Meloni sa perfettamente che nell’immediato quel che si può fare è molto poco. Impossibile procedere ora con la Flat Tax. Ma un Salvini scatenato e deciso a rioccupare il centro della scena dettando l’agenda come se fosse lui il capo del governo, ieri ha presenziato insieme a Giorgetti alla riunione del suo dipartimento Economia alla fine del quale ha stilato la lista delle sue priorità: tassa piatta e quota 41.
Poco dopo però il Capitano è tornato a montare il suo cavallo di battaglia preferito, l’immigrazione, ruggendo che «torneremo a far rispettare i confini». Segno che si rende conto anche lui di quanto stretti siano i margini per intervenire ora sulle tasse. Sulle pensioni qualcosa il governo dovrà fare subito per forza, essendo poco immaginabile il ripristino pieno della Fornero il primo gennaio. Ma non andrà oltre l’espediente di far pagare il pensionamento in anticipo con una percentuale tanto alta, intorno al 30%, da disincentivare quasi tutta la platea.
Anche sull’autonomia differenziata palazzo Chigi sceglierà i tempi lunghi. Calderoli, neoministro, annuncia imminenti incontri con le Regioni, vuole definire prestissimo il progetto. Forse lo inoltrerà davvero ma resterà poi fermo per un pezzo. Lo stesso Zaia, che sa come stanno le cose, reclama l’autonomia solo «entro questa legislatura». L’ipotesi che alletta la premier è far marciare in sincronia presidenzialismo e autonomia, con ampio dibattito e tempi dilatati.
Per certi versi, dunque, oggi la replica di Meloni sarà importante quasi quanto il discorso iniziale: è lì che dovrà rispondere a quanti nella maggioranza proveranno a incalzarla. Lo faranno con misura, perché in ballo c’è la partita dei sottosegretari e finché non si conclude quella nessuno azzarderà troppo.
Fi, delusa dalla composizione del governo, insiste per il risarcimento. Vuole almeno 7 sottosegretari, meglio se 8 o 9, inclusi i settori dai quali gli azzurri sono stati tagliati fuori: Giustizia, Mise, Economia più la mai dimenticata delega all’Editoria. I nomi in ballo sono legioni ma il Cavaliere ne avrebbe blindati 4: l’ex capogruppo Barelli, al quale è stato promesso il viceministero degli Interni al momento di sostituirlo con Cattaneo, Sisto alla Giustizia, Valentini agli Esteri o alla Difesa, e Barachini, ex presidente della Vigilanza Rai, magari proprio all’editoria.
La partita dei sottosegretari fa riesplodere la guerra tra le bande forziste, con il ««ronzulliano» Mulé che reclama la testa dei vertici azzurri: il coordinatore Tajani, la vice Bernini. Insomma i leader della corrente avversaria. Ma non c’è solo Fi. I centristi rimasti a bocca asciutta nei ministeri vogliono rifarsi con un congruo numero di posti a partire dal Lupi defenestrato dall’esecutivo in extremis e la Lega ha un elenco di nomi lungo una quaresima.
ANDREA COLOMBO
foto: screenshot da immagine televisiva