L’accordo c’è. La manovra è in parlamento. Il rischio che Forza Italia presenti qualche emendamento, non sia mai, è scongiurato. Antonio Tajani era arrivato al vertice di maggioranza di ieri mattina battagliero, con il tam tam azzurro che da 48 ore minacciava trasgressioni al mandato di Giancarlo Giorgetti e Giorgia Meloni: «Niente emendamenti di maggioranza».

È uscito battuto ma pronto ad accontentarsi del pochissimo che ha strappato: «Si è risolta nel modo migliore». Forza Italia non chiederà di mettere ai voti modifiche. Il «modo migliore» è l’esenzione dalla cedolare secca sugli affitti brevi delle prime case. Dalle seconde case in su però l’aumento dell’aliquota resta esattamente come lo aveva voluto il sottosegretario Fazzolari, padre della norma: dall’attuale 21% al 26% senza prendere neppure in considerazione il 23% reclamato dallo stesso Tajani.

Bottino esiguo ma da palazzo Chigi, fuori dai denti, si lasciano sfuggire un commento venefico: «Hanno preso tutto sugli extraprofitti». Mediolanum qualcosa ha incassato, il suo braccio politico no.

Il comunicato finale segnala che nella sostanza gli alleati della premier si sono accontentati dell’apparenza. Chiarisce infatti che la manovra «è improntata alla serietà e alla solidità dei conti pubblici». È inutile bussare, qui non aprirà nessuno.

Ma il comunicato va molto oltre e non si tratta di una svista: «Le forze di maggioranza hanno confermato la volontà di procedere speditamente all’approvazione della Legge di Bilancio, senza pertanto presentare emendamenti. Il governo terrà conto con grande attenzione del dibattito parlamentare e delle considerazioni delle forze di maggioranza ed opposizione». Forza Italia esulta: «Il governo ha promesso di tener conto del dibattito».

Chissà se ci fanno o se ci sono, se si rendono o meno conto del fatto che con quelle quattro parolette il governo ha derubricato il ruolo del parlamento da sede istituzionale del potere legislativo a organismo consultivo. Si ascoltano i suggerimenti, poi chi detta legge decide se tener conto di alcuni o far finta di niente. Quel passaggio, tutto tranne che innocente, era stato cancellato.

Poi è riemerso, a riprova della consapevolezza del suo peso. Da palazzo Chigi, del resto, ammettono, che si tratti proprio di una spinta esplicita verso il premierato, che nelle intenzioni della attuale presidente del consiglio mira a spogliare il capo dello Stato solo di qualche potere ma il parlamento di tutti quelli che gli restano.

Le richieste azzurre cestinate dalla coppia di testa del governo non si limitavano a limitare la tassa sugli affitti brevi. Tajani ha insistito per il codice identificativo sugli affitti per far emergere il sommerso: prima o poi dovrebbe arrivare ma non in legge di bilancio.

Ha ripetuto la richiesta di alzare le pensioni minime, senza alcun risultato. Ha provato a puntare i piedi sul finanziamento della Rai dopo il taglio del canone da 90 a 70 euro, per evitare che la tv pubblica faccia troppa concorrenza alla casa madre Mediaset sul mercato pubblicitario, ma la premier non è andata oltre la promessa di «analizzare il problema».

Nel complesso il ministro degli Esteri ha incassato ancora meno del collega vicepremier leghista, il cui successo è pure molto più apparente che reale. Sulla carta Matteo Salvini ha ottenuto la cancellazione del già annunciato passaggio a quota 104, norma che avrebbe ufficializzato la sua disfatta. Il capogruppo leghista alla Camera Riccardo Molinari giura infatti di essere appagato: «Resta quota 103 e così 50mila persone in più potranno andare in pensione l’anno prossimo.

L’obiettivo di legislatura resta quota 41». Se non fosse che i limiti, le restrizioni e le penalizzazioni imposte dal governo faranno sì che la gran maggioranza di quei 50mila lavoratori sceglierà di non accedere a quota 103, come da intenzione del ministro dell’economia e della premier. Perché a essere cambiato non è solo l’approccio a una specifica legge di bilancio in seguito a contingenze particolarmente ostili.

È l’intera visione strategica del governo di destra, spostatosi sulle posizioni della riforma del 2011. Se qualcuno esce vincente da questa partita, quella è Elsa Fornero.

A pagare il prezzo della concessione fatta a Matteo Salvini, del resto, saranno proprio i futuri pensionati di alcuni settori pubblici: sanitari, maestre d’asilo e delle scuole primarie parificate e i dipendenti degli enti locali. Perderanno più o meno il 20% dell’assegno. Per gente arrivata al governo sbandierando proprio l’intenzione di aiutare i pensionandi davvero non c’è male.

ANDREA COLOMBO

da il manifesto.it

foto: screenshot ed elaborazione propria