La donna che viene da lontano, da terra ai confini del mondo di allora. La donna che è maga, che ha poteri che destano paura, inquietudine; poteri che sono comandati dal recondito inconscio che la abita e che selvaggiamente si divincola dalle pretese dell’io cosciente che vorrebbe ricondurla alla ragione, che le vorrebbe far sentire ancora per un attimo l’istinto materno, quello che protegge e non distrugge, che accarezza e non percuote, che dà la vita e non la toglie.
La donna è poi donna e, in quanto tale, è guardata con sospetto in una società in cui, anche nel mito, oltre ogni tempo presente, passato e futuro, si incontra il patriarcato, il potere dell’uomo e l’uomo del potere. Così, Medea, esule, straniera, migrante – potremmo dire oggi – entra nel racconto eterno di una disperazione che attraversa i secoli e i millenni. Euripide la fa ansimare e fremere per la sorte dei figli, associando ad ogni suo respiro un anatema per Giasone.
Quell’uomo che lei aveva conosciuto nella Colchide, nel regno di suo padre, e di cui si era perdutamente innamorata. Senza lei il Vello d’oro, il manto magico che sana ogni ferita e malattia, sarebbe stato per l’eroe argonautico imprendibile. Pasolini, tra il maggio e l’agosto del 1969, gira il film che le dedica proprio a ridosso tanto del mondo ellenico quanto di quello vecchio del Caucaso: in Siria e in Turchia. Terre tormentate, luoghi di incontri tra imperi, tra regni, tra civiltà che si sono guardingamente scrutate.
Sarà Maria Callas ad interpretare la maga diabolica, l’amante ferita e tradita, la madre che va incontro ad un destino perverso e contorto, cui non può sfuggire riproponendo sé stessa nell’eterno ritorno del senso di colpa che, tuttavia, non potrà avere il sopravvento sulla passione. Una interpretazione magistrale, di cui difficilmente qualcuno avrebbe preventivamente potuto dubitare. Sono tanti dieci anni trascorsi a Corinto. Medea ha tutto il tempo per vendicarsi di Giasone: farlo soffrire più di quanto ha sofferto lei.
Questo è lo scopo dell’orrendo atto che sta per compiere. Non sappiamo se Euripide abbia riscritto il mito, inserendovi quindi la morte dei figli per mano della madre. Alcuni storici come Eva Cantarella accreditano questa versione. Altri sono meno propensi a farlo. Tuttavia pare abbastanza credibile che, proprio nella scrittura della sua tragedia (“Medea“, Biblioteca Universale Rizzoli, 2013), il drammaturgo abbia accentuato la crudeltà della donna che è stata oltraggiata e abbandonata.
I poteri di cui dispone sono messi al servizio dell’amore prima e al servizio della morte poi. La mitologizzazione è operazione che trascende la temporalità presente: si entra nel mito nel momento in cui si diviene esempio classico, oltrepassando il consueto, l’odierno, l’ieri e il domani. La dimensione quindi è un astratto in cui si collocano le vicende tragiche che sono, nell’Atene del Quattrocento avanti Cristo, metafore riflettenti della società delle polis elleniche.
La cosiddetta “distanza tragica” è, per l’appunto, quell’intercapedine posta tra gli accadimenti del presente e quelli resi nell’atemporalità del mito. Ogni puntuale, specifico riferimento all’odiernità è vietato nella rappresentazione teatrale: questo perché le autorità e le istituzioni, nonché la morale e la cultura imperanti, vogliono che la popolazione si confronti con l’esempio del passato o con l’ipotesi del futuro senza essere eccessivamente condizionata dai turbamenti del presente.
Il tempo senza tempo del mito è la sede più opportuna per epigrammare le grandi avventure degli eroi sul frontespizio di un destino cui è chiamata una società che, mediante le immagini create dalla fantasia della tradizione orale e scritta, elabora concetti molto più endogeni, quasi atavici, reconditamente presente in un inconscio tanto individuale quanto collettivo. La funzione della tragedia è quella di consentire l’elaborazione tanto delle speranze quanto dei lutti.
Medea, in cui c’è tutta la forza del destino associata a quella della spietata volontà dell’esule senza terra, della maga crudele e della donna amata che diventa matricida, si divincola nel turbine delle passioni che la pervadono, la inseguono e le impongono una volontà sulla volontà. L’andare oltre la propria natura materna, negandola fino al punto di obbedire alla vendetta nei confronti di Giasone, è il messaggio su cui Euripide stimola la riflessione del suo pubblico.
Il Pedagogo, mentre lei si lamenta della natura umana e, in special modo, di quella degli uomini crudeli, la redarguisce: «Ahimè, tutti così sono gli uomini; tu lo vedi ora: ognuno al prossimo suo preferisce sé stesso…». La donna contro l’uomo, la madre contro il padre, la migrante antica contro l’autoctono. La modernità sorprendente della tragedia ellenica non può non essere compresa se non entro i termini della potenza del mito che, come già sottolineato, oltrepassa qualunque concezione temporale.
Per i greci il mondo è la città: civili sono solo gli achei antichi e i figli di Danao che, quindi, rispetto agli antichi troiani, sono gli “occidentali“. Il confronto fra i mondi è il sottofondo di tanti drammi narrati dai tragici: persiani, parti, ottomani sono il confine tra democrazia e autoritarismo, tra società e barbarie. Similmente a ciò che i romani affermeranno quando si tratterà di delimitare i limes a nord dell’impero, contro i bellicosissimi ceruschi, contro Arminio, oppure contro le desolate terre desertiche dove sulle mappe è scritto: “Hic sunt leones“.
Medea, quindi, è un pezzo di mondo in parte ignoto, in parte temuto, in molta parte conosciuto e, per questo, tenuto a debita distanza. C’è, come molto bene evidenzia sempre Eva Cantarella, una “xenofobia” degli ateniesi che, proprio nella figura della donna-straniera-maga emerge in tutti i suoi tratti e che Euripide mette in scena permettendone la condivisione intima così come quella più coralmente sociale. I messaggi della rappresentazione sono colti nel momento in cui i dialoghi esprimono i tormenti dell’animo.
«E ora dove andrai, infelice, sventurata donna!», grida il coro, rimettendo sempre al centro della scena il tema dell’esilio che si rinnova, della ricerca di una terra su cui posare il piede senza timore, senza troppa riverenza, provando a sentirsi in qualche modo non l’epifenomeno di sé stessa, ma tutto quello che è nella molteplicità caratteriale e caratteristica che la invera. Un po’ hegelianamante, si potrebbe affermare che Medea diviene ciò che è nel momento in cui le contraddizioni si sintetizzano e si comprende appieno una passione che è multiforme e plurisostanziale.
Tanto quanto ama incondizionatamente, Medea altrettanto è potente nella collera, nel rancore, nella rabbia che la coglie e che le fa dimenticare progressivamente il suo istinto materno. «Da ogni parte il male mi avvolge, lo so». La consapevolezza è il cuore dello struggimento che, però, un attimo dopo si tramuta nella soddisfazione di non rinunciare alla propria voglia di vendetta. La morte di Glauce, descritta in tante altre rivisitazioni del mito con tratti di dolcezza misti alla spietata fine che le tocca, non placa Medea.
I figli che ha avuto da Giasone sono l’altare su cui sacrifica il suo dolore e lo tramuta in dissimulazione, in infingarderia; il tutto tramuterà velocemente, in un vertiginoso susseguirsi di sentimenti vividi e contorti al tempo stesso. La determinazione della donna si unisce alla potenza magica che, quindi, esercita un ruolo preminente nella verticalizzazione dell’odio disumano che prova e che non sembra avere un limite accettabile. L’opera di Euripide sembra davvero selvaggia nel proporre ogni efferatezza tramandataci sul mito di Medea.
E la crudeltà si accresce ritmicamente, ancora di più quando l’amante e madre tradita non si giustifica ma ammette: «so bene quali mali son per commettere, ma la passione è più forte della mia volontà; la passione che è causa ai mortali delle più grandi sventure». Ecco Euripide come la pensa: il fervore del desiderio è foriero di sciagure, fino all’estremo sacrificio della propria prole, in questo caso. La forza di Giasone, la sua astuzia, qui non valgono più nulla.
Il Vello d’oro non può sanare nessuna ferita dell’animo. Medea gli nega persino la vista dei piccoli figli ormai morti. Sul suo carro alato domina su di lui che rimane privo di qualunque significato della propria esistenza: la sua progenie è stata annullata e, ogni genitore può comprenderlo, una parte di sé stesso anche. Il dolore indicibile che prova è la quintessenza della spietata vendetta della donna che non soffre meno di lui.
Questa parificazione dell’agghiacciante fine di un amore con la morte degli innocenti si pone all’apice di una tragicità che è costellata, anche ne “Le Argonautiche” di Apollonio Rodio, di tanti altri tremendi delitti familiari, si rovescia oggi, dal mito al presente, dal fuori del tempo al tempo in cui viviamo, in una stretta attualità dei rapporti passionali tra donne e uomini. Sembra quasi che la vendetta di Medea sia una sorta di rivincita sull’onnipotenza maschile, sulla protervia patriarcale.
In realtà, oltre certamente ad avere anche una connotazione di quel tipo, soprattutto è la tragedia di chi viene illusa e rimane poi a languire nell’odio di sé stessa per essersi lasciata andare a sentimenti che sembravano indissolubili e che, invece, si sono rivelati il più grande inganno. La reazione furibonda dell’esule che è sempre straniera ovunque vada, temuta e guardata con sospetto, non lascia spazio ad interpretazioni di sorta: perché gli uomini sono così. Non c’è appello.
Ma Medea è un mito che subisce, oltre ad essere onorata dalle stesse, tante declinazioni che non sempre ne fanno una donna crudele ed infanticida. È piaciuto ad altri autori descriverla pittorescamente, sulle ali della danza, nelle nuove forme del teatro moderno non come il “male assoluto“; semmai come ciò che si può divenire nel momento in cui si è platealmente traditi e abbandonati nella più completa indifferenza. Medea è la reazione dell’amore totale, per cui si fa qualunque cosa, al contraccolpo che l’esistenza sprigiona nel momento in cui la folgore ci piomba addosso.
La luce accecante dell’insensatezza si prende l’animo perturbato della donna che sapeva amare e che dimentica l’amore nel nome del ricorso alla volontà che le consente di sopravvivere nonostante tutto. A costo di azioni che sono l’oltre l’eccesso, l’oltre il consentibile al furore anche più dirompente e disarcionante dallo stare in sella all’esistenza sempre e comunque.
L’attualità dei tragici greci è potente per questo: perché i sentimenti di allora sono i nostri di oggi. Cambiando l’ordine delle epoche, non cambia il risultato a cui si arriva nel momento in cui veniamo messi alla prova dalle tante contraddizioni che ci abitano, dalle tante incertezze che neghiamo e che, invece, sono il substrato su cui ogni giorno sopravviviamo tanto alla vita quanto a noi stessi…
MEDEA
EURIPIDE
RIZZOLI, BUR (2013)
€ 10,00
MARCO SFERINI
11 dicembre 2024
foto: particolare della copertina del libro
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