«Valuterò come uscire dallo stallo». Il verbo è declinato al futuro. Alla fine del secondo giro di consultazioni, il presidente Mattarella assicura che troverà il modo perché «si concluda positivamente il confronto tra i partiti». Il Quirinale prende ancora tempo e si appella a tutti gli attori della trattativa perché si facciano carico del bisogno del paese di avere «un governo nel pieno delle sue funzioni». Il presidente del consiglio e i ministri prossimi venturi dovrebbero, questo l’auspicio del Colle, essere indicati da una mediazione tra i partiti. La parola chiave è «stallo», anche se l’impressione è quella di essere scivolati ormai in una palude.
La scelta di non affidare subito a una figura istituzionale come la presidente del senato Casellati, un incarico esplorativo per smuovere le acque, ha lasciato un po’ spiazzati i 5Stelle. Che già si erano ritrovati con le spalle al muro dopo aver visto sfumare, in diretta televisiva, la promessa del leader della Lega di servire sul piatto la testa di Berlusconi.
Magari una berlusconiana di ferro potrebbe trovare il modo di consigliare Berlusconi a mollare un po’ la presa per far nascere un governo con i 5Stelle. Con scarse possibilità di riuscita nei confronti di chi sembra tornato al gusto della performance e alla tecnica del giocoliere, per niente intenzionato a farsi da parte. Va in Molise per prendere qualche voto, così come Salvini batte le piazze del Friuli per vincere a mani basse ai danni di Forza Italia.
Nessuno dei due locali test elettorali giocherà un ruolo decisivo nella contesa interna al centrodestra. Piuttosto ruvida se a Salvini arriva anche l’avvertimento, dal giornale di famiglia, a non superare il confine tra «cambiamento e tradimento». Naturalmente detto «per il suo bene».
Se la missione di esploratore fosse invece affidata alla terza carica dello stato, il pentastellato presidente della camera, Fico, in questo caso a doversi mostrare ragionevole dovrebbe essere chi rivendica 11 milioni di voti, convincendosi a togliere di mezzo quel «o io o il diluvio».
Invece Mattarella, per il momento e fino alla prossima settimana, lascia tranquilli i presidenti di camera e senato, e rimette la palla nelle mani dei partiti.
Come ha detto ieri il presidente emerito Napolitano, «il compito di Mattarella è difficile e urgente». Difficile perché è chiaro che la soluzione non c’è ancora, e nell’agenda del capo dello stato l’urgenza è data dalle impegnative priorità di carattere economico sociale, e internazionale con la guerra alle porte di casa.
Chissà se, a parte la solidarietà, offerta al suo successore, Napolitano abbia anche dispensato qualche buon consiglio. Quando lui si trovò in una situazione difficile, chiamò una «riserva della repubblica» e gli affidò la guida del governo. Ma oggi, un “governo del presidente” vorrebbe dire fingere di non aver sentito il gran botto del 4 marzo. Affidare la soluzione della crisi a una figura che non rappresenti in alcun modo il voto degli elettori, non convince il Quirinale che, infatti, continua a chiamare in causa i partiti.
Se la soluzione per la formazione del governo trova i protagonisti impantanati, i comprimari non lo sono in minor misura. La condizione in cui versa il Pd è così a rischio di spaccatura che Renzi ora chiede (e ottiene) di rinviare l’assemblea nazionale. La giustificazione ufficiale è sempre la stessa: non interferire con le consultazioni. Ma se è vero che dalle parti del Nazareno sono in maggioranza d’accordo nel restare fuori dai giochi per presidiare, a prescindere, i banchi dell’opposizione, non si capisce perché rinviare un’assemblea che dovrebbe ratificare questa scelta e dare un nome e un volto al nuovo segretario.
A meno che Renzi non senta traballare la sua maggioranza, non più così solida da consentirgli di avviare la svolta macroniana e restituirgli in qualche modo lo scettro del comando. Magari da spendere in una ravvicinata campagna elettorale (in primavera si vota comunque per le europee) nel caso di un governo balneare che prepari elezioni anticipate.
NORMA RANGERI
foto tratta da Pixabay