L’8 settembre 1872 Karl Marx si trova a L’Aja. Lì si è riunita a congresso l’Associazione Internazionale dei Lavoratori e lì il Moro pronuncia un discorso antidogmatico nei confronti, anzitutto, di quello che potrebbe essere definito il “primo marxismo“: se non proprio delle origini, quanto meno della incedente maturità post-quarantottina, ma di sicuro non post-rivoluzionaria. Avendo sentore delle critiche che riguardano la teorizzazione (e quindi anche la messa in pratica) della lotta per il superamento del sistema capitalistico, Marx sente il bisogno di precisare:
«Non abbiamo affatto preteso che le vie per arrivare a questa meta fossero dappertutto le stesse. Sappiamo quale importanza abbiano le istituzioni, i costumi e le tradizioni dei vari paesi; e non neghiamo che esistono dei paesi – come l’America, l’Inghilterra e, se io conoscessi meglio le vostre istituzioni, aggiungerei forse anche l’Olanda – in cui i lavoratori possono raggiungere la loro meta per vie pacifiche. Se ciò è vero, dobbiamo però riconoscere che, nella maggior parte dei paesi del continente, è la forza a dover fungere da leva delle nostre rivoluzioni».
Qui ci interessa prendere in prestito, il concetto della mutevolezza delle situazioni storicamente date da un determinato contesto istituzionale, sociale, civile ed anche culturale (perché la cultura è sintesi e rilancio dei sincretismi che si registrano entro le comunità) per sostenere quanto chiede di poterci dire un libro frutto dell’incontro di opinioni anche differenti fra loro ma convergenti sulla necessità, piuttosto urgente, di adeguare il moderno marxismo alle tante mutazioni intercorse tra la fine degli anni Novanta del secolo scorso e il principio del nuovo millennio.
“Marx nei margini. Dal marxismo nero al femminismo postcoloniale” (edizioni Alegre, 2020; Aa.Vv., a cura di Miguel Mellino ed Andrea Ruben Pomella) è uno di quei testi necessari per cercare di salvarsi dalla tentazione di fare tanto del Moro quanto della sua enorme eredità scientifica, filosofica ed anche politica una serie di mohai messi in fila come monumenti ad un feticismo dei concetti e di presunte parole d’ordine di cui, a partire dalla torsione autoritaria della rivoluzione bolscevica, soprattutto con la costituzione dell’URSS in chiave staliniana, si è nutrita per lungo tempo anche la sinistra comunista in Italia. Ma, più ancora, la pretesa del libro corale in questione è di sganciare il marxismo dal suo eurocentrismo, dal suo essere stato troppo “occidentalizzato” e, quindi, reso molto poco nella sua dimensione globale.
Il titolo è chiarissimo: nei margini del mondo, nei margini di pagine di vita che riguardano paesi (per dirla proprio con le parole di Marx alla riunione de L’Aja), nazioni e popoli molto lontani da quella parte di pianeta da dove è partita non soltanto la colonizzazione economica, ma pure quella antropologica nel senso più compiuto del termine: a tutto tondo, comprendente una rimodulazione dello stile di vita di intere comunità abituate a rapporti singoli e collettivi molto differenti rispetto a quelli europei. Fenomeni come il razzismo si sono potuti marxianamente interpretare solamente se si è fatto un salto di qualità critico nel pensarsi oltre le categorie prettamente occidentali che inducono a ritenerlo una categoria secondaria rispetto allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (e sulla natura).
Da oltre mezzo secolo, inoltre, si è incominciato a trattare anche di una liberazione molto più ampia di quella inerente soltanto l’umanità: essenzialmente perché abbiamo iniziato a comprenderci entro l'”animalità“, sapendo che siamo animali (umani) e che siamo esseri senzienti, in parte diversamente dagli animali non umani, ma che apparteniamo però a quel “regno” e che quindi, se di liberazione si deve parlare, non si può non tenere conto del razzismo ultra-umano, ossia dello “specismo“. Ciò che importa è, anzitutto, attualizzare la lente di ingrandimento dei processi antropici entro una fase dell’evoluzione capitalistica che è stata chiamata, almeno a far data dagli anni Settanta del secolo scorso, con l’ormai iconico epiteto di “liberismo“.
Non si tratta hic et nunc di fare della critica al marxismo, ossidato e rattrappito dei dogmatici comunisti ipernovecenteschi ed ultrasovietici, una leva nei confronti delle teorizzazioni passate, nonché delle pratiche ormai alle nostre spalle. Si tratta, semmai, di riconoscere che c’è oggi bisogno di dare alla grande massa degli sfruttati del nuovo millennio una nuova cassetta degli attrezzi, una nuova interpretazione dei tanti fenomeni globali che non hanno più confine e che sono, sull’onda dell’estensione del mercato sull’intero pianeta, veramente internazionalizzati. Quella che gli autori intendono mettere in pratica, come proposta anzitutto socio-cultural-politica, è una “decolonizzazione” del marxismo.
Il giochetto, fin troppo facile, della riduzione dello stesso ad un ferro vecchio del passato riesce soltanto se si ritiene l’eredità del Moro esclusivamente confinabile nell’occidentalità, nell’europeismo come nel Novecento: impossibile da aggiornare, perché, per l’appunto, assunta aprioristicamente e, quindi, non separabile da un retaggio storico che, contrariamente, vorrebbe significare una sorta di tradimento delle origini. Molto puntuale l’osservazione di Aimé Césaire che, per spiegare questa necessaria rivisitazione dell’analisi critica marxiana, mira al rapporto tra particolare e universale: «Il mio è un universale che non può che essere arricchito di ogni particolare: il rafforzamento e la coesistenza di tutti i particolari. E allora? Allora abbiamo bisogno di affrontare l’impresa da capo».
Nel “da capo” leggasi: non riscrivere Marx, ma trarre da lui ogni elemento utile per una migliore comprensione delle dinamiche modernissime del capitalismo liberista. Non si tratta più solamente di riferirsi alla liberazione della classe operaia come condizione della liberazione universale dell’umanità. Qui si tratta di includere in questo processo di evoluzione a centottanta gradi dal capitale, in questo rovesciamento del mondo attuale tutte quelle specificità che per troppo tempo i comunisti incallositi e mummificati del Novecento hanno fatto finta di non vedere. Il marxismo ortodosso è una pietra tombale sul marxismo in quanto tale. Così come pensare di prescindere dal lavoro salariato, come pietra angolare per la disarticolazione del capitale, è una sopravvalutazione delle nuove schegge di contraddizione emergenti nelle società di oggi.
Le lotte non vanno ridotte ad una, ma rese complementari: vanno messe l’una accanto all’altra e, così facendo, ci parleranno anzitutto della imprescindibilità di un marxismo moderno che non è più – come originariamente non poteva non essere – riguardante soltanto la situazione della classe operaia nella vecchia Europa o nel solo nord America, ma che abbraccia tutte le problematiche sociali, civili e morali che riguardano ogni essere vivente. Qualunque libro ci apra la mente in questa direzione è il benvenuto: permette la rinascita della critica dell’economia politica insieme alla formulazione di nuove critiche che poggiano su una attualizzazione stretta, ma non reticente, delle dinamiche interclassiste come di quelle dell’atomizzata miriade di sfruttati del XXI secolo.
Il libro, che è una somma di interventi di autori intenzionati a riproporre il marxismo per tutta la dirompente attualità che ancora possiede (essendo il capitale la cifra regolante l’intera produzione di ricchezza (per sempre meno persone) e di povertà assoluta (per sempre più persone, ma non solo…)), ambisce ad incontrare i soggetti storici che paiono capitare nelle pieghe delle nostre esistenze quasi per caso: dalla grande questione migratoria dei nostri tempi, paragonabile a quella di inizio Novecento verso le Americhe o verso l’Oceania, ultimo continente scoperto dagli europei (sic!), alle rivoluzioni femministe, nere, anticoloniali e antimperialiste. La cesura temporale tra Novecento e Duemila non ha messo fine alla tentacolare voracità della parte più ricca del mondo nei confronti di quella più povera.
Tutti i bisogni sociali stramoderni si legano inevitabilmente con uno stile di vita che, indotto anche dal capitale, pretende più dignità perché ha anche più necessità materiali. Ma, anzitutto, sente di aver avuto, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, le potenzialità per migliorare la qualità dell’esistenza per miliardi di esseri umani, purtroppo senza scalfire troppo la tenuta del regime delle merci e dei profitti. Così, il viaggio nella riscoperta dell’attualità di Marx tocca, sorprendentemente, realtà un tempo davvero inesplorate, al pari delle foreste vergini oggi preda dei grandi costruttori e cementificatori. Si va da “Il marxismo indigeno di José Carlos Mariátegui” a quello più romantico di Raymond Williams; per passare, nemmeno a dirlo, per un neofemminismo inteso come critica globale.
Il dualismo borghesia versus proletariato viene riconsiderato in virtù del fatto che nessuna delle due classi è più così riconoscibile in quanto tale: padroni, imprenditori, affaristi, speculatori, finanzieri e mercati di ogni sorta sono assimilabili ma non unificabili sotto un unico appellativo se non quello dell’incipit de “Il Manifesto”, ossia gli “sfruttatori“. E così lavoratrici e lavoratori contrattualizzati o in nero, stabili o precarissimi, non sono più coloro che facevano figli per avere un minimo di certezza esistenziale nelle loro poverissime vite. Oggi gli “sfruttati” sono anche i due miliardi e mezzo di salariati che si possono, grossomodo, contare nel mondo, ma sono anche gli indigeni delle foreste, i neoschiavi di tante zone dell’Asia, i bambini soldato, le donne soggette ad un patriarcalismo che non è solo tribale.
I margini da confrontare sono tanti e Marx, nell’oggi, può stare soltanto se lo portiamo a farci conoscere, con la sua strumentazione preziosa (ma datata), un nuovo modo di intendere la lotta di classe, un nuovo modo di essere anticapitalisti, tralasciando non solamente l’eurocentrismo del marxismo stesso, ma il suo connotato da “primo mondo“, da teoria nata e partita dall’Occidente. Deve poter vivere, nella sua essenza critica, come metodo speculativo ma non fine a sé stesso: non un compiacimento delle ragioni del passato, ma una oggettiva disamina delle contraddizioni del presente. Figlie di un capitalismo che muta e che, quindi, ha bisogno di una nuova coscienza di classe che non può essere ancorata a simbologie feticisticamente intese, a moloch adorati da caricature di comunisti addobbati di spille a stelle rosse tipiche del socialismo irreale sovietico.
La liberazione umana e animale è liberazione della Natura medesima: il marxismo moderno, così come un nuovo comunismo altrettanto inteso nella contingenza particolare e universale dell’oggi che è in via di inviluppo, ha le potenzialità per essere l’alternativa alla narrazione costante, a quello che viene chiamato – molto modaiolamente – il pensiero “mainstream“. Al di là dei complottismi e di facili obnubilazioni che fanno smarrire la via della vera critica ragionata e scientificamente provata, l’attualizzazione del Marx di ieri è possibile se lo si sposta dal suo ambito europeo e da primo mondo e lo si cala nelle pieghe delle contraddizioni evidentissime dei grandi poli di sviluppo del multipolarismo globale. Qui Marx può darci ancora una grande mano. Può essere quella leva del passato che scardina letteralmente il presente verso un futuro tutt’altro che previsto e scritto.
MARX NEI MARGINI
DAL MARXISMO NERO AL FEMMINISMO POSTCOLONIALE
AA.VV.
A CURA DI MIGUEL MELLINO E ANDREA RUBEN POMELLA
EDIZIONI ALEGRE, 2020
€ 18,00
MARCO SFERINI
29 gennaio 2025
foto: particolare della copertina del libro
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