Marlene Dietrich. Femme fatale per sempre

L'IMMORTALITÀ. I capolavori con Wilder, Hitchcock, Lang, Welles, Kramer
Marlene Dietrich

TERZA PARTE

Bella, bionda, tedesca, ariana, discendente di una famiglia di militari, cognome importante, lo stesso di uno degli uomini fidati di Hitler (Josef Dietrich gerarca della SS tra autori della “Notte dei lunghi coltelli”), Marlene Dietrich aveva tutto per essere il volto del Nazismo, ma non lo fu. Ad ogni proposta del Führer rispose con un secco no e si schierò, cambiando anche la cittadinanza, con gli odiati americani. Questo in Germania non le fu e non le sarà mai perdonato.

1. i cartelli “Marlene go home”

Nella Berlino liberata portò sul palco, come poi fece anche a Praga, la sua “Lili Marleen”, ma l’accoglienza fu a dir poco fredda: fischi, insulti e cartelli inequivocabili con la scritta “Marlene go home”. I tedeschi avevano ancora nella mente i suoi concerti al fronte, le tante foto con i soldati statunitensi e più in generale quel “tradimento della Patria” che Hitler in persona le aveva rinfacciato.

Dove andare quindi? Mamma Wilhelmina era morta, la sorella Elizabeth si era rivelata essere un collaborazionista, il marito Rudy stava tranquillo in un ranch della California, la figlia Maria, dopo essersi diplomata alla Max Reinhardt Academy di New York col nome d’arte di Maria Manton, aveva sposato contro la volontà della madre il collega Dean Goodman. Marlene nell’immediato dopo guerra decise così di trasferirsi a Parigi con l’amato Jean Gabin, ritrovato sul fronte algerino. Ad unirli oltre ad una grande passione amorosa, una solida militanza antinazista.

Per stare insieme lei aveva chiuso con le sue mille relazioni, dall’attore Douglas Fairbanks Jr. all’ereditiera Marion Barbara “Joe” Carstairs fino ad arrivare a Dolores del Río, considerata da Marlene “la più bella donna di Hollywood”; lui aveva divorziato dalla seconda moglie la ballerina Jeanne Mauchain. Andarono anche vicino al matrimonio.

Tornando al cinema Dietrich e Gabin cercarono di dare forza al vecchio progetto Dédée d’Anvers, coinvolgendo Marcel Carné per la regia e Jacques Prevert per la sceneggiatura, ma alla fine la pellicola, già rinviata per la guerra, non si fece. Uscì solo nel 1948, ovviamente diversa da quella che avrebbe potuto essere, per la regia Yves Allégret con la moglie Simone Signoret come protagonista.

2. Turbine d’amore (1946) di Georges Lacombe

I due amanti ripiegarono così sul più modesto Martin Roumagnac (Turbine d’amore, 1946) diretto da Georges Lacombe, nelle sale francesi il 18 dicembre 1946.

Il rozzo provinciale Martin Roumagnac (Jean Gabin) è convinto che la bellissima Blanche Ferrand (Marlene Dietrich), una ex prostituta che si è redenda per amor suo, lo tradisca. Arriverà ad ucciderla in un impeto di gelosia, scoprendo troppo tardi la sua fedeltà.

Il realismo francese era finito e dalla pellicola si capisce. Gabin, tuttavia, era più a suo agio in un film del genere, che può essere visto come una “cerniera” tra i ruoli interpretati prima della guerra (Il bandito della Casbah, La grande illusione, Il porto delle nebbie, Alba tragica) e quelli dopo (Il commissario Maigret, Maigret e i gangsters, Il clan dei siciliani). Marlene piuttosto fuori luogo. Risultato: il film non fu visto praticamente da nessuno.

Un insuccesso bruciante che portò anche alla fine della relazione tra i due grandi attori. Marlene ricorderà che, insieme a Sternberg, Jean fu il grande amore della sua vita. Ma di amori in Francia Marlene Dietrich ne aveva già un altro. O meglio un’altra.

Nel dopo guerra, dopo un concerto di enorme successo al fianco di Maurice Chevalier, Marlene Dietrich aveva conosciuto e iniziato a frequentare come amica, progressivamente sempre più intima, una magnifica cantante dalla inconfondibile “erre arrotata” all’anagrafe era registrata come Édith Giovanna Gassion, ma la storia la ricorda come Édith Piaf.

3. Édith Piaf e Marlene Dietrich

Vita complessa e difficile quella della cantante, nata a Parigi il 19 dicembre 1915, segnata da problemi di salute e scelte discutibili, ma attraversata da canzoni indimenticabili. Con Marlene, Édith Piaf dopo la Francia conquistò anche gli Stati Uniti. L’attrice era completamente persa, inserì tra l’altro nel suo repertorio la leggendaria “La vie en rose”, la cantante meno, ma, come cantò in una delle sue ultime canzoni prima di morire prematuramente il 10 ottobre 1963, non rimpiangeva niente, “Non, je ne regrette rien”.

Anni emotivamente densi per Marlene Dietrich. La figlia Maria, sulla quale esercitava un piglio autoritario, aveva divorziato dallo sventurato Dean Goodman per sposare, questa volta con la condivisione della madre, William Riva (1919-1999) uno scenografo di origini italiane. Maria Sieber divenne Maria Riva. Marlene aiutò economicamente il nuovo nucleo familiare che ben presto si allargò. Nel giro di pochi anni nacquero, infatti, Michael, Peter, Paul e David. La stampa americana la salutò come “la più affascinante nonna del mondo”.

La diva era, infatti, tornata negli USA per ricevere nel 1947 dalle mani del Presidente Harry Truman la Medal of Freedom, la massima onorificenza civile degli Stati Uniti d’America, per il suo impegno durante la Seconda guerra mondiale. Fu la prima donna a riceverla e Marlene fu sempre molto orgogliosa di questo.

Tornò anche a Hollywood, dieci anni dopo Angel di nuovo alla Paramount. Il regista Mitchell Leisen, che l’aveva diretta ne La signora acconsente, la contattò, infatti, per il suo nuovo film tratto da un romanzo dell’ungherese Jolán Földes e sceneggiato da Frank Butler, fresco di Oscar per Going My Way, Helen Deutsch giornalista e critica e da Abraham Polonsky militante comunista dai tempi della Guerra civile spagnola. Era Golden Earrings (Amore di zingara o Passione di zingara).

4. Passione di zingara (1947) di Mitchell Leisen

Nel dopoguerra i commilitoni si chiedono il perché dei buchi nelle orecchie dell’integerrimo colonnello inglese Ralph Denistoun (Ray Milland). È lui stesso, dopo aver ricevuto un pacco, a raccontarlo. Nel 1939 era stato inviato in Germania per recuperare, insieme al soldato Richard Byrd (Bruce Lester), la formula segreta di un gas tossico nelle mani dello scienziato Otto Krosigk (Reinhold Schünzel), ma era stato catturato dai nazisti. I due erano riusciti rocambolescamente ad evadere, prendendo poi strade diverse per raggiungere l’obiettivo: Richard aveva rubato una bicicletta, per poi essere ucciso, Ralph si era imbattuto nella zingara Lydia (Marlene Dietrich). Tra riti, superstizioni e risse, l’integerrimo colonnello inglese si era innamorato ed era “diventato” un gitano, con tanto di orecchini d’oro. Grazie agli “zingari” era riuscito a salvarsi la vita e ad ottenere la formula segreta, con la complicità dello stesso Krosigk. A guerra finita torna da Lydia.

Un misto tra storia esotica, commedia romantica e film di spionaggio (la scena più bella è l’arrivo della carovana di zingari nella villa dello scienziato con i gerarchi in festa), con imprecisioni, qualche stereotipo e un trucco troppo marcato, ma la pellicola ha comunque il merito di aver raccontato una storia diversa, col protagonismo antinazista di zingari, gitani e rom. E chi poteva interpretare una zingara antinazista se non la diva antinazista?

Per il successivo film, ancora per la Paramount, a Marlene venne chiesto uno sforzo in più: interpretare una nazista. Inizialmente l’attrice rifiutò, era molto contrariata, ma alla fine accettò anche perché a cercarla con insistenza e determinazione era un regista che come lei aveva contrastato il Nazismo e che, soprattutto, aveva vissuto in prima persona il dramma dell’olocausto: mamma, secondo marito della madre e nonna uccisi nel campo di Kraków-Płaszów. Si chiamava Billy Wilder.

5. Billy Wilder

Nato nell’attuale Polonia, Wilder era emigrato nel 1934 negli USA per divenire in breve tempo un maestro indiscusso della “settima arte” capace di attraversare più generi: dai film storici come Five Graves to Cairo (I cinque segreti del deserto, 1943), girato a guerra ancora in corso, ai noir come The Lost Weekend (Giorni perduti, 1945) che gli aveva appena fruttato l’Oscar. Ma fu con la commedia che Wilder divenne immortale, prima come sceneggiatore, su tutti Ninotchka (1939), poi come regista. Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1950), Sabrina (1954), Some Like It Hot (A qualcuno piace caldo, 1959), per citarne alcuni, in cui dietro l’amarezza e l’irrisione si nascondeva una feroce critica alla società.

Nel dopoguerra Wilder decise, col suo stile e con l’esperienza fatta come addetto alla US Army’s Psychological Warfare Division (un servizio di supporto psicologico ai soldati), di raccontare il “non raccontabile”. Di raccontare la Berlino distrutta dai bombardamenti (cosa che fece anche Roberto Rossellini col suo Germania anno zero) ironizzando sulla ricostruzione e sul moralismo USA. Per farlo scelse due attrici che negli anni Trenta avevano tratteggiato due modelli di donna opposti. Da un lato Jean Arthur che diretta da Frank Capra (È arrivata la felicità, L’eterna illusione, Mr. Smith va a Washington) era divenuta il simbolo affettuoso, morigerato e rassicurante degli Stati Uniti “roosveltiani”; dall’altro, ovviamente, Marlene Dietrich che grazie a von Sternberg era, al contrario, l’ideale di donna autonoma, determinata e peccaminosa. Erano troppo diverse per andare d’accordo. Anche sul set. Il 20 agosto del 1948 uscì A Foreign Affair (Scandalo internazionale).

6. Scandalo internazionale (1948) di Billy Wilder

Una commissione statunitense guidata dalla deputata repubblicana dell’Iowa Phoebe Frost (Jean Arthur), giunge nella Berlino devastata dalla guerra per verificare la moralità dei militari. In dono porta, come simbolo dell’attaccamento degli USA ai propri soldati, una torta di compleanno inviata dalla fidanzata al capitano John Pringle (John Lund). Ma il militare la rivende al “mercato nero” e, soprattutto, ha una relazione con Erika von Schlütow (Marlene Dietrich), artista di cabaret vicina ai nazisti, che vive in una casa distrutta dai bombardamenti. Per evitare le indagini l’uomo finge così di essersi innamorato della politica, che inizia a perdere la sua integerrimità, ma i nodi vengono al pettine anche perché Erika pare sia in contatto con un vecchio gerarca. Il militare deve scegliere.

Girato in parte a Berlino (le macerie che si vedono sono quelle reali) e in parte a Hollywood, il film è una commedia dura. Wilder avrebbe potuto limitarsi ad attaccare i nazisti, ma ironizzò sui vincitori con un ritratto impietoso del moralismo “made in USA”. Per questo la pellicola venne criticata dalla Camera dei Rappresentanti e dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, nonché censurata in diversi stati (in Italia, ad esempio, venne tagliata la parte iniziale in cui vengono “esplicitati” gli interessi nella ricostruzione).

7. Friedrich Hollaender e Marlene Dietrich nel film

Marlene Dietrich, che girò solo negli USA, recitò una volta di più il ruolo di una “donna perduta”: Erika von Schlütow, una diva nazista. Quello che l’attrice avrebbe potuto essere se avesse accettato le lusinghe di Goebbels e Hitler. Così, come noto, non fu, ma forse anche per questo l’interpretazione rimane davvero magnetica. Nella pellicola Marlene cantò, inoltre, tre nuove canzoni di Friedrich Hollaender, “Black Market”, “Illusions”, “In the Rains of Berlin”, che per la prima volta comparve al fianco dell’amica in un film, accompagnandola al pianoforte. Uno spettacolo nello spettacolo.

Dopo un’apparizione non accreditata in Jigsaw (1949) diretto da Fletcher Markle, un altro regista stava cercando la femme fatale. Era anche lui di origine europea ed era diventato, prima a Londra, poi a Hollywood, il maestro della tensione. Era Alfred Hitchcock che dopo, tra gli altri, The 39 Steps (Il club dei 39), Rebecca (1940), Notorious (1946), voleva girare, come raccontato a François Truffaut nell’indispensabile “Le cinéma selon Alfred Hitchcock” (“Il cinema secondo Hitchcock”), un film sul teatro. Lo spunto partì dal romanzo “Man Running” scritto da Selwyn Jepson. Le riprese si svolsero a Londra dal giugno del 1949 con un cast interamente britannico con due sole eccezioni: Jane Wyman che aveva appena vinto l’Oscar per Johnny Belinda e Marlene Dietrich che scelse personalmente l’autore dei costumi. Era un sarto francese che anche grazie alla diva ebbe un “discreto” successo. Era Christian Dior.

Il 15 aprile del 1950 si tenne la prima di Stage Fright (Paura in palcoscenico).

8. Paura in palcoscenico (1950) di Alfred Hitchcock

Il marito di Charlotte Inwood (Marlene Dietrich), nota stella del varietà, viene assassinato. I sospetti ricadono sulla donna e su Jonathan Cooper (Richard Todd), amante di Charlotte. Eve Gill (Jane Wyman), attrice dilettante innamorata di Jonathan, decide di aiutare il latitante procurandogli un rifugio e facendosi assumere come cameriera della stessa Charlotte. Con l’aiuto dell’Ispettore Wilfred Ordinary Smith (Michael Wilding) e del padre, il Commodoro Gill (Alastair Sim), scopre la verità.

Un Hitchcock “minore”, all’epoca criticato per il falso flashback iniziale, che “gioca di rimando fra la falsità della rappresentazione teatrale dei suoi protagonisti e quella della vicenda delittuosa” (Mereghetti). Sul set Jane Wyman si sentiva insicura al cospetto di Marlene, sensuale mentre canta “The Laziest Gal In town”, indimenticabile quando interpreta “La vie en rose” dell’amata Édith Piaf. Il regista sapeva il perché: “La Dietrich era veramente bella”.

Lo pensava anche James Stewart, che come noto ebbe un grande sodalizio artistico con Hitchock (La finestra sul cortile, L’uomo che sapeva troppo, La donna che visse due volte), che volle l’attrice nuovamente al suo fianco, dopo Partita d’azzardo, per No Highway (Il viaggio indimenticabile, 1951) diretto da Henry Koster.

9. Il viaggio indimenticabile (1951) di Henry Koster

Lo scienziato Theodore Honey (James Stewart), che dopo la morte della moglie si è chiuso in se stesso, viene incaricato di scoprire le cause di un incidente aereo avvenuto a Labrador. Sul volo che da Londra lo porta in Canada capisce che quel tipo di aereo si spezza dopo 1440 ore di volo. Nessuno gli crede salvo l’attrice Monica Teasdale (Marlene Dietrich) e l’hostess Marjorie Corder (Glynis Johns), di cui si innamorerà.

Il film di suspense ne ha davvero poca, ma viene spesso considerato il primo del genere “catastrofico”. Marlene si limitò a fare da “testimonial” a Christian Dior.

Poi un nuovo capolavoro, ancora diretta da un regista di origine europea, viene il dubbio che non fosse un caso, Fritz Lang. Tra i massimi esponenti del cinema nella Repubblica di Weimar (Il dottor Mabuse, Metropolis, M – Il mostro di Düsseldorf) il cineasta era emigrato negli USA con l’avvento del Nazismo. A Hollywood aveva realizzato altri grandi film (Furia, Anche i boia muoiono – scritto con Bertold Bretch, La strada scarlatta) e, affrontando i temi cari dell’odio e delle vendetta, si era cimentato anche nel genere statunitense per eccellenza: il western. Aveva, infatti, girato The Return of Frank James (Il vendicatore di Jess il bandito, 1940), il suo primo film a colori, con Henry Fonda protagonista e Western Union (Fred il ribelle, 1941) che smitizzò il “mito della frontiera”. Rilesse il genere anche con il suo terzo e ultimo western, il primo declinato al femminile con, ovviamente, Marlene Dietrich protagonista. Tuttavia il rapporto tra attrice e regista fu piuttosto teso al punto che Marlene salutò l’ultimo ciak con grande sollievo.

Il film, realizzato a basso costo, girato in studio e con un modesto technicolor RKO, Lang l’avrebbe voluto chiamare The Legend of Chuck-a-Luck, il titolo della ballata che accompagna la storia, mai produttori, su tutti l’aviatore Howard Hughes, suggerirono Rancho Notorius, nelle sale il primo marzo 1952.

10. Rancho Notorius (1952) di Fritz Lang

Vern Haskell (Arthur Kennedy) si mette alla ricerca dell’assassino e stupratore della promessa sposa sulla base delle parole pronunciate dal complice in punto di morte. Entra così in contatto col bandito Frenchy Fairmont (Mel Ferrer) e raggiunge il covo dei malviventi, il ranch “Chuck-a-Luck” (“Mulino d’Oro” nella versione italiana), abitato solo da criminali e gestito dalla magnetica Altar Keane (Ambra nella versione italiana, Marlene Dietrich). Vern, che diventa sempre più spietato, grazie ad una spilla che apparteneva all’amata ora indossata da Altar, risale all’identità dell’assassino (Lloyd Gough) lo cattura, vuole vendicarsi, ma si vede costretto a consegnarlo alle autorità. I banditi lo liberano e si ribellano a Frenchy e Altar “colpevoli” di aver portato Vern nel loro covo. Nella resa dei conti sarà la donna a sacrificarsi.

Un western atipico che, due anni prima di Johnny Guitar diretto da Nicholas Ray, con Joan Crawford e Sterling Hayden, tratteggiò un’eroina al femminile. Marlene aveva già interpretato western, su tutti Partita d’azzardo, ma il profilo “dominante”, che si chiamasse James Stewart o John Wayne, era sempre stato quello di un uomo. In Rancho Notorius, grazie a Lang, l’indiscussa protagonista fu una donna, Altar, che il regista fece conoscere “gradualmente” attraverso l’uso di tre flashback: nel primo cavalca per gioco un uomo, nel secondo arriva in città trainata da un’elegante carrozza, nel terzo inizia la “carriera” da criminale. Una donna a capo di un covo di banditi che comanda in abiti maschili, non provocatori e provocanti come nei film di von Sternberg, ma simbolo del potere, e che diventa sensuale grazie, una volta di più, alla voce. Magnifica Marlene quando canta “Get Away, Young Man” per calmare gli animi nel suo “Mulino”.

Animi che a Hollywood erano piuttosto tesi. Lloyd Gough, ad esempio, l'”assassino” di Rancho Notorius era stato cancellato dai titoli del film perché, come la moglie Karen Morley, era un comunista dichiarato. Fritz Lang dovette difendersi a causa della sua amicizia con Bertold Brecht, Hanns Eisler e John Wexley e per la partecipazione alla “Hollywood Anti-Nazi League”. Erano gli anni del “Maccartismo”. La “caccia alle streghe” sfiorò anche Marlene cui venne rinfacciata l’amicizia col comunista Otto Katz, ma l’impegno negli anni della guerra e la Medal of Freedom le evitarono, probabilmente, di finire nella “Hollywood blacklist”.

11. Marlene Dietrich a Las Vegas

Marlene aveva, inoltre, maturato l’idea di abbandonare il cinema per ritornare sul palcoscenico. I motivi erano diversi. La sua eterna rivale, Greta Garbo, si era ritirata nel 1941 (praticamente non si fece più vedere in pubblico), una nuova generazione di “dive”, su tutte Marilyn Monroe, si stava affacciando sul grande schermo e lei, splendida cinquantenne, sentiva di aver perso quell'”aurea mitologica” che l’aveva accompagnata per decenni. Al contrario “A teatro, sotto il fascio avvolgente delle luci di scena, lontano da sguardi indagatori delle macchine da presa, può, invece, riprendere vita quell’alone, quell’aura di chanteuse inattaccabile dal tempo” (Arecco).

Il debutto fu nel dicembre 1953 al Sahara Hotel di Las Vegas in uno spettacolo, suggerito dal commediografo Noël Coward, che univa monologhi e canzoni, col vastissimo repertorio che andava a ritroso da “La vie en rose” a “Ich bin von Kopf bis Fuss auf Liebe eingestellt”. Tantissime repliche nella stessa Las Vegas e poi a Parigi, Londra, Rio de Janeiro. Ad accompagnarla il giovane Burt Bacharach, col quale ebbe una tormentata relazione, che in futuro diventerà uno dei compositori più amati di Hollywood vincendo tre Oscar.

Nel 1956, tra un’esibizione e l’altra, trovò il tempo di tornare al cinema, in un cameo, ancora una volta nei panni della proprietaria di un saloon. Era un film da Oscar. Era Around the World in Eighty Days (Il giro del mondo in ottanta giorni) diretto da Michael Anderson.

12. Il giro del mondo in 80 giorni (1956) di Michael Anderson

Il gentiluomo inglese Phileas Fogg (David Niven) scommette di riuscire a fare il giro del mondo in ottanta giorni. Accompagnato dal domestico francese Passepartout (Cantinflas) ci riuscirà e troverà l’amore nella Principessa Adua (Shirley MacLaine).

Miglior film tratto dalla celebre opera di Jules Verne, che fece incetta di Oscar e di cameo. Tra questi: Fernandel, Peter Lorre, Buster Keaton, Frank Sinatra e, appunto, Marlene Dietrich, che “blocca” David Niven con le sue straordinarie gambe.

Sul set, neanche a dirlo, flirt col produttore Michael Todd e col giovane Sinatra, il pianista del saloon. Già, perché la vita sentimentale di Marlene scorreva parallelamente a quella artistica. Tra le numerosi relazioni, alla base di diversi libri e innumerevoli racconti, anche quelle con Yul Brynner, George Bernard Shaw e Kirk Douglas.

Non ci fu, invece, alcun feeling con Vittorio De Sica col quale l’attrice recitò in Montecarlo (1956). Il rapporto tra i due venne definito “freddo e ostile”. Un film, una coproduzione italo americana diretta da Samuel A. Taylor, tratto da un vecchio soggetto di Dino Risi.

13. Montecarlo (1956) di Samuel A. Taylor

Il conte Dino della Fiaba (Vittorio De Sica, che per molti diresse il film) ha sperperato le sue fortune alla roulette di Montecarlo. Per poter pagare i debiti inizia così a corteggiare la marchesa Marie de Crevecoeur (Marlene Dietrich), ma non sa che la donna è nella stessa situazione e ha accettato le lusinghe con lo stesso scopo.

Non un capolavoro, ma i due protagonisti furono perfetti nei loro ruoli e Marlene cantò una nuova canzone “Back Home in Indiana”.

Un capolavoro assoluto fu, invece, il film successivo. Billy Wilder, infatti, la contattò per offrirle una nuova parte. Aveva ipotizzato anche Vivien Leigh, Rita Hayworth e Ava Gardner, ma sapeva che Marlene sarebbe stata perfetta. L’attrice, che avrebbe preferito continuare a calcare i palcoscenici, accettò solo perché a chiederlo fu l’amico. Pose, tuttavia, una condizione: far vedere le sue bellissime gambe. Wilder non se lo fece dire due volte.

Il regista, con lo sceneggiatore Harry Kurnitz, aveva adattato uno straordinario giallo di Agatha Christie pubblicato per la prima volta nel 1925. Nel cast anche Charles Laughton, la moglie Elsa Lanchester, Tyrone Power e Una O’Connor che aveva recitato in tutte le rappresentazione teatrali dell’opera. Il 17 dicembre del 1957 uscì nelle sale Witness for the Prosecution (Testimone d’accusa).

14. Testimone d’accusa (1957) di Billy Wilder

Nonostante i medici gli abbiano tassativamente proibito di affaticarsi a seguito di un violento attacco cardiaco, il celebre avvocato penalista sir Wilfrid Robarts (Charles Laughton), sotto l’occhio vigile dell’infermiera miss Plimsoll (Elsa Lanchester), accetta di difendere, insieme al collega Brogan-Moore (John Williams), l’ingenuo Leonard Vole (Tyrone Power) accusato dell’omicidio dell’anziana e benestante Emily French (Norma Varden) accudita dalla governante Janet MacKenzie (Una O’Connor). Il suo alibi si basa sulla dichiarazione della moglie Christine Helm (Marlene Dietrich), una cantante di cabaret che aveva conosciuto in Germania alla fine della guerra e poi sposato, ma in aula la donna si trasforma nella sua più decisa accusatrice. A ribaltare la situazione arriva a sorpresa l’aiuto di una misteriosa donna, ma i colpi di scena non sono finiti.

Secondo Agatha Christie il film di Wilder fu il miglior adattamento mai fatto di un suo testo. Testimone d’accusa è, infatti, un giallo brillante, ironico, ben recitato dai tre protagonisti (per Power fu l’ultimo film), in cui i colpi di scena, tra inganni e travestimenti, tengono alta la tensione.

“Insostituibile Marlene Dietrich che, al solo apparire, è un concentrato di suggestioni noir e mélo davvero esplosivo” (Mereghetti) in un ruolo che, come già accaduto con Wilder in Scandalo internazionale, portò sullo schermo le sue origini: la sensuale cantante di un cabaret dei bassifondi berlinesi. Il tutto arricchito da due particolari. Il locale in cui la donna si esibisce si chiama “Die Blaue Lanterne” che ricorda esplicitamente “Der Blaue Angel”; la protagonista, che nel romanzo si chiama Romaine, divenne nel film Christine Helm, riferimento a Brigitte Helm, attrice di Metropolis che avrebbe potuto interpretare proprio il ruolo di Lola-Lola nel film di von Sternberg che lanciò Marlene Dietrich.

Marlene teneva molto a quel ruolo, era convinta che sarebbe arrivata la seconda candidatura all’Oscar, ma non arrivò. Non solo. Il film, praticamente perfetto, venne candidato a sei statuette senza vincerne una.

15. lo spettacolo di Marlene Dietrich e Orson Welles ripreso nel film La nave della morte (1944)

Nel 1958 l’attrice, in attesa di riprendere la carriera concertistica, si era recata più volte sul set a salutare un altro vecchio amico, Orson Welles. I due si erano conosciuti negli anni della guerra, insieme avevano portato davanti alle truppe uno spettacolo di “magia” in cui Orson si divertiva con riusciti numeri di illusionismo, tra questi tagliava a metà l’attrice, Marlene fingeva di leggere nel pensiero dei militari, per poi non rivelare al pubblico i pensieri “troppo osè”. Lo sketch, che suscitò le ire dei moralisti, era stato montato nel film Follow the Boys (La nave della morte, 1944) diretto da Eddie Sutherland.

Ma il regista dopo l’iniziale successo di Citizen Kane (Quarto potere), aveva riscontrato un progressivo ostracismo a Hollywood. Così nel 1947 complice il fisco e il “Maccartismo” – con la storica accusa ai delatori “i testimoni amichevoli parlano per difendere le loro piscine” – si era trasferito in Europa dove aveva, tuttavia, più recitato e scritto che diretto, su tutti The Third Man (Il terzo uomo, diretto nel 1949 da Carol Reed).

Rientrato a quasi dieci anni di distanza negli USA, Welles recitò in Moby Dick (1956) di John Huston e, soprattutto, in Man in the Shadow (La tragedia del Rio Grande, 1957) diretto da Jack Arnold, interpretazioni intense notate dalla Universal che lo contattò per tornare alla regia, su suggerimento, o per meglio dire pressione, di Charlton Heston già ingaggiato come protagonista del nuovo film.

In soli 17 giorni il regista adattò un modesto noir di Wade Miller intitolato “Badge of Evil” (edito in Italia nella collana dei gialli Mondadori col titolo “Contro tutti”) per trasformalo in un capolavoro.

A sceneggiatura scritta e riprese iniziate, la presenza di Marlene Dietrich sul set portò Orson Welles, che avrebbe sempre voluto dirigere l’amica, a ritagliare una parte per lei. L’attrice accettò anche perché quel genio eccentrico e incontrollabile, che le ricordava Josef von Sternberg, le era sempre piaciuto. Nel cast oltre ad Heston, lo stesso Welles e Janet Leigh che di li a poco sarebbe diventata immortale nella doccia di Psycho. Il 23 aprile del 1958 uscì Touch of Evil, che dall’agosto dello stesso anno venne distribuito in Italia col titolo L’infernale Quinlan.

16. L’infernale Quinlan (1657) di Orson Welles

Mentre si trovano in viaggio di nozze vicino alla frontiera con gli Stati Uniti, il poliziotto messicano Mike Vargas (Charlton Heston) e sua moglie Susan (Janeth Leigh) assistono ad un attentato: un’auto salta in aria uccidendo l’uomo più ricco del paese e la sua amica. Arriva subito il capitano Hank Quinlan (Orson Welles). Anche Vargas decide di interessarsi al caso e va ad avvisare di questa decisione sua moglie, in albergo: la trova spaventata perché è stata costretta ad avere un colloquio con Joe Grandi (Grande nell’edizione italiana, Akim Tamiroff), esponente della malavita locale, che vorrebbe la liberazione di suo fratello, da pochi giorni arrestato da Vargas. Susan di nuovo minacciata decide di ritirarsi ad aspettare il marito in un motel vicino alla frontiera. I sospetti di Quinlan si rivolgono verso un certo Sanchez (Victor Millan), ex dipendente dell’ucciso e amante di sua figlia. Nella casa dove vivono i due giovani comincia l’interrogatorio: Vargas esce un momento a telefonare alla moglie. Rientrato, dopo un pò arrivano anche Menzies (Joseph Calleia), l’aiutante di Quinlan, e Grandi. Su ordine di Quinlan, Menzies perquisisce la casa di Sanchez e trova – in un luogo dove un attimo prima non c’era assolutamente niente – alcuni candelotti di dinamite identici a quelli usati nell’attentato. Quinlan vuole incastrare il messicano. Vargas lo accusa e lo denuncia, ma non approda a niente. Intanto, al motel, Susan è stata assalita e drogata da un gruppo di giovinastri che poi la portano in un albergo di Grandi, dove il malvivente e Quinlan, d’accordo, vorrebbero rovinare Vargas. Quinlan, però, uccide Grandi, e Susan viene accusata dell’omicidio e arrestata. Ma il giorno dopo Menzies riferisce a Vargas che accanto al cadavere di Grandi è stato trovato il bastone di Quinlan. Decide di aiutare Vargas a smascherare il suo vecchio amico, il capitano Quinlan, che, nel frattempo, è andato a casa di Tana (Tanya nella versione italiana, Marlene Dietrich), una chiromante sua amica. Menzies lo raggiunge e, dopo essersi messo in tasca un registratore, incomincia a tempestarlo di domande. Quinlan parla, ammette e racconta tutto quello che ha fatto. Ma quando si accorge del trucco, spara a Menzies che, moribondo, riesce a rispondere prima che Quinlan riesca a colpire Vargas. Arriva la polizia. La registrazione fa luce su tutto; nel frattempo, anche Sanchez ha finito per confessarsi autore dell’attentato iniziale. Prove false, sì, però Quinlan, ormai morto, aveva ragione.

Nato con poche pretese e poche ambizioni, L’infernale Quinlan è un capolavoro della storia del cinema, capace di superare le sale di serie B nel quale venne proiettato e le versioni modificate dalla Universal senza l’assenso del regista. Welles seppe, infatti, unire grandi intuizioni tecniche, come il lungo piano sequenza iniziale, uno dei più belli mai realizzati, ad una capacità narrativa senza eguali. Un noir sadico che più che la grandezza del male, sottolinea l’innocenza del peccato.

17. Orson Welles e Charlton Heston in una scena de L’infernale Quinlan

Welles ritagliò per se il ruolo di Quinlan, che ha qualcosa di shakespeariano, è titanico e tirannico, ma dotato di un fiuto eccezionale, contrapposto al piatto detective messicano interpretato da Heston. Per dirla come Morando Moradini: “È la lotta tra un fascista odioso ma di genio e un democratico simpatico ma passabilmente imbecille”. Ovvero l’opposto di quello che Welles e Heston erano nella realtà.

Marlene Dietrich, che rispolverò il trucco di Passione di Zingara, diede vita, come solo lei poteva fare, ad una donna disincantata e cinica che gestisce bordello di infimo ordine al confine col Messico, dove il pianoforte suona da solo e lei legge le carte a Quinlan (cui fa anche una battuta reale sullo stato fisico del cineasta). L’attrice comparve complessivamente in quattro scene, tre molto brevi, per un totale di 5 minuti di film, ma lasciò il segno al punto che Welles la “promosse” per la scena finale in cui Tanya, di fronte al corpo esanime di Quinlan, sentenzia “Era uno sporco poliziotto […], ma a suo modo era anche un grand’uomo” per poi salutare con un “Adiòs” e allontanarsi teatralmente nel cuore della notte.

Ma non era un addio. Nel 1959 Marlene Dietrich riprese a cantare esibendosi negli Stati Uniti, in Russia, in Scandinavia. A Parigi arricchì il repertorio aggiungendo la canzone “When the World Was Young” dedicata all’amico Gérard Philipe prematuramente scomparso. La tournée più importante, tuttavia, fu la successiva, nella primavera del 1960. Dopo 15 anni Marlene tornò in Germania.

Il primo spettacolo, a maggio, fu alla Rhein Main-Hallen di Wiesbaden. L’accoglienza non fu affatto calorosa, insulti delle “fidanzate di Hitler”, nuovamente i cartelli “Marlene go home” e una caduta dal palco che le procurò la lussazione di una spalla. Marlene continuò lo spettacolo che aveva una scaletta inversa rispetto a quella eseguita negli altri paesi da “Ich bin von Kopf bis Fuss auf Liebe eingestellt” e “La vie en rose”. La tournée continuò a Monaco, Colonia per poi arrivare a Berlino. Spettacoli richiamati positivamente dai critici, alcuni sono ancora rintracciabili grazie a vecchie registrazioni, ma non amati dai tedeschi che continuavano a non perdonarla per l’impegno antinazista e per la cittadinanza americana. Decisamente meglio nella Germania Est.

18. Burt Bacharach e Marlene Dietrich in Israele nel 1960

Nel giugno del 1960 Marlene si esibì in Israele, dove venne ben accolta, per poi essere richiamata a Hollywood. Il regista Stanley Kramer stava, infatti, lavorando, con lo sceneggiatore Abby Mann, alla trasposizione cinematografica di uno dei dodici processi di Norimberga contro i nazisti. Marlene fu perfetta all’interno di un cast stratosferico: Spencer Tracy, Burt Lancaster, Montgomery Clift, Judy Garland, Richard Widmark, Maximilian Schell. Il 14 dicembre 1961 uscì Judgment at Nuremberg (Vincitori e vinti).

A Norimberga, nel 1948, l’anziano giudice Dan Haywood (Spencer Tracy) presiede una delle corti chiamate a giudicare i nazisti accusati di crimini di guerra. Tra gli imputati c’è il giudice Ernst Janning (Burt Lancaster), uomo probo, ma irrimediabilmente compromesso col regime. Tra i testimoni, interrogati dall’accusa guidata dal colonnello Tad Lawson (Richard Widmark) e dalla difesa, l’abile e passionale avvocato Hans Rolfe (Maximilian Schell, premiato con l’Oscar), vengono chiamati Rudolph Petersen (Montgomery Clift) un uomo tedesco sterlizizzato sotto il regime perché considerato un malato mentale, ma perseguitato perché aveva il padre comunista e Irene Hoffmann (Judy Garland) condannata in un processo farsa per aver avuto come amico un vecchio ebreo (giustiziato e accusato di pedofilia). Haywood per capire meglio la società tedesca e di come la stessa abbia accettato il Nazismo, frequenta la signora Bertholt (Marlene Dietrich) una vedova aristocratica, il cui marito è stato condannato a morte perché nazista, che sostiene la tesi dell’obbedienza. Il giudice, terminate le testimonianze e le arringhe difensive, condannerà, nonostante le pressioni statunitensi che non vogliono rovinare i rapporti con la Germania, gli imputati a pene detentive. I titoli di coda ricordano come all’uscita del film, nel 1961, nessuno dei criminali condannati a Norimberga fosse più in carcere.

19. Vincitori e vinti (1961) di Stanley Kramer

Il miglior film di Kramer che riuscì a rendere appassionante tre ore ininterrotte di arringhe e deposizioni sull’Olocausto, anche grazie alle interpretazioni di un cast eccezionale. Un contributo indimenticabile alla massima tragedia del Ventesimo secolo e un modello di dramma giudiziario con momenti forti: la testimonianza di Montgomery Clift e la proiezione di autentici filmati sui campi di concentramento.

La Frau Bertholt interpretata da Marlene Dietrich, con pagine tratte dalla biografia familiare, fu unica, anche in virtù delle posizioni assunte dall’attrice, mentre sostiene che la borghesia tedesca abbia subito per obbedienza e convenienza l'”orribile Hitler”, ma magnificamente indimenticabile quando spiega il testo della canzone “Lili Marlen” a Spencer Tracy, con soldati e cittadini che la cantano in sottofondo. Fu l’ultima grande interpretazione per Marlene, premiata con un David di Donatello.

Negli anni sessanta e settanta la principale e pressoché unica attività della femme fatale fu la musica. Riprese i concerti in giro per il mondo. Conobbe i Beatles che benché avessero dichiarato di essere più famosi di Gesù furono molto emozionati al cospetto della diva, prestò la sua immagine per la copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Inoltre incise due nuove canzoni pacifiste che si andarono ad aggiungere alla marcetta “Wenn die Soldaten”. La prima fu “Where Have All the Flowers Gone?”, una canzone scritta nel 1956 da Pete Seeger, cantata in italiano, tra gli altri, da Dalida e Patty Pravo. Il testo si chiede dove sono finiti i fiori, le donne, gli uomini durante la guerra. La seconda canzone, registrata una volta di più in inglese e in tedesco, non era così famosa. Anzi. L’aveva scritta Robert Allen Zimmerman, un giovane che nel 1962 aveva cambiato legalmente il suo nome in Bob Dylan. La canzone, che riprendeva melodie dei nativi americani, era contenuta nel secondo album dell’artista, “The Freewheelin’ Bob Dylan”, e divenne un inno generazionale chiedendosi “Quante strade deve percorrere un uomo prima di essere chiamato uomo?” era “Blowin’ in the Wind” che nella versione tedesca divenne “Die Antwort weiss ganz allein der Wind”.

20. Marlene Dietrich e i Beatles

Marlene senza ricorrere a scorciatoie chirurgiche era magnifica e cantava divinamente, ma a margine di un’esibizione nel 1972 al Queen’s Theatre di Londra cadde. L’episodio si ripeté in uno spettacolo a Ottawa in Canada. Quelle gambe uniche, indimenticabili che avevano fatto sognare il mondo non la reggevano più. Con un concerto a Melbourne nel 1975 salutò il palcoscenico che aveva dominato per tutto il Novecento. L’ultima performance pubblica fu nel 1976 in una registrazione della BBC.

E il cinema? Marlene Dietrich fece nel 1964 un’apparizione non accreditata in Paris, When It Sizzles (Insieme a Parigi) di Richard Quine, per poi recitare, dopo aver rifiutato un nuovo film con Billy Wilder, un ultimo ruolo da protagonista, con un’ultima grande canzone.

David Hemmings, infatti, dopo il successo di Profondo rosso, cercava di affermarsi come regista e la contattò per la parte di una ricca baronessa in un film ambientato negli anni del Nazismo. La scelta non era casuale. Il film prendeva spunto da una canzone nata nei cabaret berlinesi della Repubblica di Weimar. La melodia era stata composta da Leonello Casucci, il testo da Julius Brammer, ma fu grazie alla traduzione in inglese e all’interpretazione, tra gli altri, di Louis Prima, Bing Crosby e Louis Armstrong che divenne un successo mondiale. Si intitolava “Schöner Gigolo, armer Gigolo”, ma tutte e tutti la ricordiamo semplicemente come “Just a Gigolo”.

Nel cast anche lo stesso Hemmings, Sydne Rome, Kim Novak e David Bowie che accettò solo per la possibilità di recitare con la femme fatale. Ma il “Duca Bianco” non la conobbe mai. Le scene di interazione tra i due furono frutto solo del montaggio. Il 16 novembre del 1978 uscì Schöner Gigolo, armer Gigolo (Gigolò).

21. Gigolò (1978) di David Hemmings

Di ritorno dalla Prima guerra mondiale, il tenente prussiano Paul Ambrosius von Przygodski (David Bowie) vaga per Berlino senza trovare impiego, corteggiato da un branco di nazisti omosessuali e da uno stuolo di ricche signore pronte a pagarlo per le sue prestazioni. Decide così di diventare uno gigolò nel bordello della Baronessa von Semering (Marlene Dietrich). Ucciso per caso in strada in uno scontro tra nazisti e comunisti, non troverà pace nemmeno da morto.

Film strano, “tra la farsa, la tragedia e il ridicolo involontario” (Mereghetti), in cui il cast è l’unico motivo di interesse. A settantasette anni, sempre bellissima, Marlene Dietrich cantò con la sua voce unica “Just a Gigolo”. Fu la sua ultima apparizione sullo schermo.

La sua voce, spesso in Italia doppiata da Tina Lattanzi, tornò nel documentario Marlene (1984) voluto e diretto da Maximilian Schell in cui l’attore, che aveva lavorato al suo fianco in Vincitori e vinti, ripercorse la carriera della diva. La femme fatale non volle tuttavia comparire. Ancor meno dopo l’incidente che nel 1981 le aveva provocato una brutta frattura al femore.

Si era rifugiata in un grande appartamento a Parigi procuratale da Christian Dior, poi in uno più piccolo. Negli anni erano morti l’amata Edit Piaf, il mentore Josef von Sternberg, il marito Rudolf Sieber, l’amato Jean Gabin e tante altre amici e amiche. Non la vide praticamente più nessuno. Poco anche la figlia Maria e i nipoti. Passò anni a rispondere personalmente agli ammiratori e politici, raccogliendo circa trecentomila testimonianze della sua carriera. Commentò solo la caduta del muro di Berlino ricordando i versi di una sua canzone “Ich hab’ noch einen Koffer in Berlin” (“Ho ancora una valigia a Berlino”) e rilasciò nel 1991, in occasione dei novanta anni, un’ultima intervista a “Le Figaro”.

22. dopo anni di isolamento Marlene Dietrich si spense nel 1992

Marlene Dietrich, la diva antinazista, la femme fatale che aveva fatto innamorare donne e uomini, si spense a Parigi il 6 maggio 1992. Il giorno successivo si inaugurò il Festival di Cannes che, quasi a saperlo, aveva nel manifesto ufficiale uno scatto realizzato da Don English sul set di Shanghai Express.

Il funerale si tenne il 10 maggio, in forma solenne, nella chiesa Madeleine. La bara avvolta dalla bandiera parigina. Ai piedi la Medal of Freedom e i tre riconoscimenti della Legion d’Onore conferitele in Francia: Cavaliere, Ufficiale, Commendatore. Poche le autorità presenti, su tutti il presidente François Mitterrand, a migliaia, invece, gli ammiratori, le ammiratrici e i veterani della Seconda guerra mondiale che non avevano dimenticato il suo impegno.

Ma Marlene aveva espresso un ultimo desiderio: essere sepolta vicino alla madre, in Germania. Per le autorità tedesche fu un imbarazzo e un problema non da poco. Il comune di Berlino annunciò le onoranze ufficiali, ma dovette ritrattare su pressione della destra che impose una semplice bandiera cittadina ad omaggiare la salma e un oscuro funzionario a rappresentare le istituzioni. Il tutto tra polemiche e odio. Il Tagesspiegel scrisse: “Le foto che la ritraevano al fronte a fianco dei soldati americani nella seconda guerra mondiale hanno lasciato ferite profonde nell’animo delle vecchie generazioni”. I neonazisti: “Deploriamo che possa essere sepolta in Germania una donna che soffriva più per i bombardamenti della Luftwaffe su Londra che non per i raid angloamericani sulle città tedesche”.

23. la tomba di Marlene Dietrich, più volte vandalizzata dai neonazisti

La tumulazione avvenne così, praticamente in forma privata, il 16 maggio nel piccolo cimitero di Friedenau.

Per anni la tomba dell’immensa Marlene Dietrich è stata vandalizzata, nell’indifferenza generale, dagli “eredi di Hitler”.

Solo in anni più recenti la Germania ha fatto pace, se non con la sua storia, almeno con Marlene. Nel 1996, dopo un acceso dibattito, le venne intitolata una strada, poi nel 1997 una piazza la “Marlene Dietrich Platz” al centro del futuristico quartiere disegnato da Renzo Piano. Il 16 maggio 2002, a dieci anni dalla morte, venne dichiarata cittadina onoraria di Berlino.

Infiniti, invece, gli omaggi artistici. Da centinaia di libri e biografie, su tutte quella scritta dalla figlia Maria “Marlene Dietrich” (introvabile in Italia benché uscita col titolo “Marlene Dietrich. Mia madre”), decine di documentari, francobolli, rassegne, canzoni, concerti e la stella sulla Hollywood Walk of Fame. Non solo. Un asteroide porta il suo nome e anche una mela (ricordate la scena di Marocco?). Google, in occasione del centosedicesimo anniversario dalla sua nascita, gli ha dedicato uno dei celebri Doodle.

24. l’omaggio di Google

È stata fonte di ispirazioni per stilisti e attrici. Ma anche per musicisti. I Marlene Kuntz, gruppo italiano di rock alternativo, si chiamano così in dichiarato omaggio della diva. Venne citata anche da De Gregori in “Alice”, da Rino Gaetano in “Aida”, da Battiato in “Alexander Platz”, da Madonna in “Vogue”, grata alla diva per aver “sconvolto la figura femminile”. Ispirò Freddie Mercury e Bob Dylan per la sua “Forever Young”.

Poco dopo la sua morte venne portata sul grande schermo nel film Bugsy (1991) di Barry Levinson con Warren Beatty, Elliott Gould, Harvey Keitel, Ben Kingsley e Joe Mantegna. La femme fatale fu interpretata dall’attrice e cantante croato-americana Ksenija Prohaska che portò poi in scena il pluripremiato spettacolo “Marlene Dietrich”. Alla diva verrà dedicata anche una serie TV in cinque episodi diretta da Fatih Akin con Diane Kruger a prestarle il volto.

25. Marlene Dietrich, femme fatale per sempre

Ironicamente disse di se “In fondo sono un gentiluomo”, ma ancora oggi il profilo di una donna forte, autonoma, libera, emancipata, disinibita, dalla bellezza androgina è quello di Marlene. Capace di rendere sensuale anche il tedesco meritando, anche solo per questo, l’immortalità.

Ma forse le parole migliori per ricordarla sono quelle di Ernest Hemingway, che non ha certo bisogno di presentazioni, suo amico intimo che nel 1950 da Cuba le scrisse “Non ho mai pensato che tu sia una dea, né una puttana, né una stella del cinema: mi sei sempre mancata per quello che sei”. Per poi ricordare “Con la sola sua voce potrebbe spezzarti il cuore. Ma ha anche un corpo stupendo e il volto di una bellezza senza tempo”.

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MARCO RAVERA

redazionale


Bibliografia
“Marlene Dietrich. I piaceri dipinti” di Sergio Arecco – Le Mani
“Marlene Dietrich” a cura di Paul Duncan – Taschen
“Billy Wilder” di Alessandro Cappabianca – Castoro
“Il cinema secondo Hitchcock” di François Truffaut – il Saggiatore
“Fritz Lang” di Stefano Socci – Castoro
“Orson Welles” di Claudio M. Valentinetti – Castoro
“Orson Welles. It’s All Ture” a cura di Mark W. Estrin – miminum fax
“Fuori i Rossi da Hollywood! Il maccartismo e il cinema americano” di Sciltian Gastaldi – Lindau
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2021” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi

Immagini tratte da: immagine in evidenza foto Screenshot de Il viaggio indimenticabile e da it.wikipedia.com; foto 1 dettaglio da amazon.com; foto 2, 4, 6, 7, 8, 9, 10, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 19, 21 Screenshot del film riportato in didascalia; foto 3, 18, 22, 23, 25 da it.wikipedia.com, foto 5 da nientepopcorn.it, foto 11 Screenshot di “Marlene Dietrich Live at the Sahara Hotel”, foto 20 da www.flickr.com (licenza libera), foto 24 da google.com
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