In una intervista odierna, il teologo Vito Mancuso spiega con una disarmante linearità di pensiero quale dovrebbe essere una attitudine moderna da parte della Chiesa nei confronti della persona umana e di quella coscienza che il Concilio Vaticano II definì come “lo spirito di Dio che parla all’uomo” (ed anche alla donna, si intende). Per chi è credente dovrebbe essere per l’appunto questo il limite massimo entro cui esercitare una mediazione tra la sacralità della vita e a disposizione che ciascuno di noi ne ha.
Invece, per la Curia romana esiste sempre e soltanto una morale superiore che travalica il laicismo della Repubblica italiana, che supera la Costituzione dello Stato e che pretenderebbe, in una posizione di notevole retroguardia con presupposti di un avanguardismo invece dipendente da un rapporto privilegiato con Dio stesso, di sovrapporsi tanto alle leggi quanto alla volontà cosciente, e quindi libera, dell’essere vivente (o sopravvivente).
La lotta di Mario per vedersi riconosciuto il diritto di poter morire nel suo Paese, dopo dieci anni di sofferenze divenute insopportabili, tanto da reclamare la possibilità di «vivere la morte» e non solamente di subirla in una lenta agonia, farà la Storia. Almeno quella giuridica, morale e civile della Repubblica. Che il Vaticano lo voglia o no. Per la prima volta nella ultracentenaria vita di questo Stato, un cittadino completamente immobilizzato a letto, preda di dolori senza alcuna soluzione di continuità, senza un attimo di pace e di serenità, potrà scegliere di andarsene senza dover fuggire in Svizzera per essere assistito nella sua dipartita.
Ma la battaglia di Mario non è finita: perché, nonostante la decisione del comitato etico della ASL, basata sulle sentenze della Corte Costituzionale, c’è chi ha sollevato problemi procedurali come la consegna e la somministrazione del farmaco richiesto per la propria eutanasia. Naturalmente si tratta di istituzioni guidate da forze conservatrici sovraniste che cavalcano le proteste vandeane di un cattolicesimo intransigente e “pro-life” a tutti i costi. Ma tanto basta per costringere Mario ad una lotta nella lotta. Ancora una volta.
Ai prelati, a Radio Maria, ma pure a tante altre figure anche civili e laiche che sostengono si sia in presenza di un abominio, va fatta una domanda molto semplice: secondo voi c’è qualcuno che vuole rinunciare alla vita se non quando questa diventa manifestamente insopportabile? E’ possibile che la radice più forte che ci àncora a questa terra, il nostro istinto di autoconservazione, un istinto che tutti gli animali umani e non umani hanno, venga meno – come si è sostenuto – per un “mancato amore” nei confronti del malato o cure non adeguate?
No. Non è possibile. Sono state dette tante, troppe cose su Mario e su molte persone come lui che si sentono probabilmente aliene a sé stesse, torturate da un dover rimanere aggrappate ad un’esistenza che dipende esclusivamente da macchinari altamente tecnologici, ma privi di qualunque volontà. Quando del tuo corpo si muove solo un dito mignolo e fai fatica a parlare, a deglutire, a respirare, persino a guardarti intorno, soltanto tu, che vivi quella situazione, hai il diritto di giudicarla. Non può essere nessun altro, né lo Stato e nemmeno Dio a dirti come devi comportarti.
Perché se esiste una volontà altra, viene meno immediatamente la tua e con essa tutti i diritti che sono le fondamenta della dignità personale in un contesto di convivenza civile che rispetti in tutto e per tutto ciò che siamo, ciò che pensiamo e anche ciò che non vorremmo più essere.
La lotta per il diritto all’eutanasia non è aprioristica, non è nemmeno così facilona da essere ritenuta banalmente – da chi è interessato a manipolare un lungo cammino di rivendicazioni civili e umane – la legalizzazione del suicidio assistito senza se e senza ma.
E’ evidente, ad esempio, che il caso del ragazzo che si fece uccidere da un coetaneo con un colpo di pistola perché era stato bocciato a scuola è una tragedia che non riguarda il suicidio assistito nemmeno lontanamente. Chi pretende di stabilire certi paragoni, estremizzando pensieri che sono di una limpidezza cristallina, lo fa per disperazione, perché conscio del mutamento culturale e sociale in merito al “fine vita” assistito. Se oggi si tenesse il referendum proposto dall’Associazione “Luca Coscioni” e dai Radicali italiani, la stragrande maggioranza della popolazione si esprimerebbe a favore dell’eutanasia legale.
Così, allo stesso modo, affermare che la volontà di una persona di mettere fine alle proprie sofferenze sia indotta dalla mancanza di affetto da parte di familiari o di cure altrettanto amorevoli da parte del personale sanitario, è un indecente insulsaggine. Il dolore è parte della vita ma non può essere così totalizzante da diventare una specie di alternativa alla vita stessa.
Ho una cagnolina di dodici anni. Prima di lei ne ho avuta un’altra che ha vissuto quattordici anni. Ad entrambe sono venuti due tumori: Laika morì con una iniezione di curaro dopo essere stata addormentata con un anestetico. Le sono stato accanto quando se ne andò. Era una settimana che aveva le convulsioni. I cani parlano a noi animali umani con uno sguardo che dice tutto. Laika negli ultimi giorni non mangiava più; tremava da capo a coda e non aveva più voglia di fare niente. Si trascinava mestamente e si stava trasformando nell’ombra di sé stessa.
Prendemmo così la decisione di lasciarla andare, perché le sofferenze erano tantissime e la sua vita era fatta ormai solo di dolore, affanno, inappetenza e poca voglia di rispondere anche alle nostre carezze con un cenno della coda. Fu straziante, perché a differenza di tanti altri esseri umani che disegnano una scala di valori antropocentrici, per me non vi è differenza tra il nostro diritto di morire e quello di qualunque altro essere vivente.
Bia invece ha compiuto dodici anni a luglio e le restano pochi mesi di vita. Le cure palliative, quelle che la Chiesa cattolica vorrebbe destinare ai malati umani che vogliono invece abbandonare spontaneamente e coscientemente quella che da vita è diventata solo sofferenza, servono soltanto a rallentare un poco il decorso della malattia. Prima o poi verrà il momento di lasciare andare anche lei. Ma questa volta prima che soffra atrocemente come Laika. Nessun vivente si merita di soffrire nel nome di una morale superiore, di un presunto legame indissolubile con una volontà divina che diviene proprietaria delle esistenze tutte.
Solo un dio cinico, inventato da un cinismo esclusivamente umano, può fare del disagio e del dolore una parte della sua volontà. Essendo tutto ciò oggettivamente assurdo, si ricorre al dogmatismo per farci accettare un disegno divino “extra-razionale“, sostenendo che Dio non è riconducibile e riducibile alla mera razionalità umana, confinabile nella parzialità della nostra visione del mondo e di noi stessi, nella nostra etica che rimane una parte del più complicato ambito dell’intero “creato“.
Ma il dolore rimane. Sia quello di Mario, sia quello di Laika prima e di Bia un giorno… C’è una bellissima canzone de “I Nomadi“, “Un figlio dei fiori non pensa al domani“, che sintetizza benissimo non una morale, bensì una descrizione di quello cui aspiriamo nella nostra vita e di quello che non possiamo invece sopportare: «Per una vita migliaia di ore, per il dolore è abbastanza un minuto». Si tratta per lo più di un riferimento sentimentale, amoroso, di una empatia universale tra noi e il mondo, tra noi e tutti gli altri, tra noi e l’amore propriamente detto.
Ma è così: non abbiamo il dovere di soffrire. Abbiamo il diritto a ritagliarci, nella brevità dell’esistenza, quanti più spazi di libertà possibili, fatti quindi di scelte coscienti; fatta di un libero arbitrio che non una concessione divina ma parte del nostro animo (o di quello “spirito di Dio” richiamato dal Vaticano II) e che non può essere oggetto di limitazioni se non per impedire che se ne abusi da parte di altri e che si commettano degli illeciti proprio contro quella stessa volontà che va sempre tutelata.
Ognuno di noi è e deve essere libero di reagire come meglio crede davanti ad un dramma che gli può accadere, come quello occorso a Mario. Per questo serve una regola laica, avulsa da qualunque condizionamento che non sia di origine costituzionale, che normi generalmente quello che nello specifico può essere interpretato caso per caso. Perché la vita e la morte non sono inscindibili e, pertanto, così come è articolata l’esistenza, può esserlo anche l’attimo prima dell’inesistenza.
Se ci vogliamo un po’ di bene, considereremo anche per noi quella compassione che abbiamo verso i nostri amici animali cui, paradossalmente, neghiamo tante vite e tanti diritti, mentre siamo pronti ad essere pietosi nel momento della morte. Ma solo per gli animali cui siamo affezionati. Ed anche questo è un argomento che prima o poi la specie umana dovrà porsi sempre per lo stesso motivo: così come un dio non è proprietario di noi, noi siamo proprietari di nessun altro.
Ne riparleremo. Adesso lottiamo per Mario, per Bia e per chiunque soffre e viene costretto a soffrire dalla morale comune, dal diritto che le obbedisce e piega la Repubblica, ogni volta che accade, a riconoscersi in uno Stato etico piuttosto che in sé stessa e nella propria resistente, laica e democratica Costituzione.
MARCO SFERINI
25 novembre 2021
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