«È il risultato di 40 anni di impegno, in particolare del mio impegno», dice senza falsa modestia Emma Bonino mentre presenta la lista di +Europa a Bologna. Però c’è del vero: la decisione «storica» delle Sezioni penali unite della Cassazione che sdogana la coltivazione domestica di piante stupefacenti ad uso personale è sicuramente anche frutto di decine di anni di battaglie dei Radicali e non solo. Di militanti come lei o come Rita Bernardini, che dell’autoproduzione di cannabis al fine di smantellarne il mercato illegale ne ha fatto un impegno tale da riempire il suo terrazzo di piante e mostrarne le foto urbi et orbi nel tentativo di farsi arrestare («ma non ci sono mai riuscita – racconta lei stessa – né quella volta che avevo 56 piante ma il procuratore Pignatone decise di archiviare tutto, né nel febbraio scorso quando venni indagata dal pm Prestipino a piede libero, malgrado le giuste proteste del carabiniere che aveva trovato le mie 32 piantine»).
Ma Emma Bonino ha completamente ragione quando dice che con questo pronunciamento della Cassazione «si è rotto un tabù», e che «è un primo passo per poter ragionare oltre i cliché e gli stereotipi». Destre permettendo, quelle destre che da ieri, digerita la notizia insieme agli eccessi del Natale, hanno sollevato un bailamme di reazioni scandalizzate.
Ma cosa dice esattamente l’organo supremo della Corte di Cassazione rispondendo all’ordinanza di rimessione 35436 posta dalla Terza sezione penale? Nella massima di diritto emessa il 19 dicembre dalle Sezioni penali unite, in attesa della sentenza vera e propria, i giudici spiegano che affinché la coltivazione di piante stupefacenti – non solo marijuana – sia configurata come reato non serve sapere la quantità di principio attivo ricavabile, perché è sufficiente che la pianta, «anche per le modalità di coltivazione», sia predisposta «a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente». Un preambolo necessario alla Suprema corte per seguire il solco fin qui tracciato negli anni con numerose altre sentenze, tutte di stampo proibizionista.
Questa volta però la Cassazione pone un freno anche all’ideologia più condivisa in parlamento (tanto da aver portato alla bocciatura di un emendamento alla manovra che avrebbe regolamentato la vendita di cannabis light, colmando un vuoto come richiesto dalla Consulta) e spiega che non è da ritenersi reato penale la coltivazione in casa, utilizzando «rudimentali tecniche», di uno «scarso numero di piante» che comportino un «modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile» e che «appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore».
I paletti ci sono però: innanzitutto deve apparire subito chiaro che le piante non siano destinate al «mercato degli stupefacenti», intendendo per esso anche la condivisione tra elementi della stessa famiglia, anche a titolo gratuito. Detto altrimenti: solo chi coltiva le piante può farne uso. Sono poi assolutamente vietati bilancini in casa ma anche strumenti che possano far pensare ad una coltivazione massiva, come l’impianto di irrigazione a goccia.
Tanti i commenti pro e contro il principio così sancito dalla Corte, ma quello che importa è che «questa sentenza si interessa solo di un fenomeno marginale (anche se in crescita)» e soprattutto lascia molta libera interpretazione, come spiega Marco Perduca, consigliere dell’Associazione Luca Coscioni e coordinatore della campagna «Legalizziamo!». «L’unica modifica che potrà fare chiarezza su cosa possa esser fatto, da chi, come, dove e in quali quantità sarà una modifica radicale della normativa vigente», aggiunge l’ex senatore radicale che ricorda come «l’Associazione Coscioni e altre associazioni ormai quattro anni fa elaborarono una proposta di regolamentazione legale della produzione, consumo e commercio della cannabis che è stata presentata assieme a Radicali Italiani alla Camera nel novembre del 2016 e da lì non s’è mossa».
«Se non ci si confronta su un’idea di governo del fenomeno, il resto è solo commento. E dopo 30 anni di commenti – conclude Perduca – il fenomeno da governare è arrivato a far segnalare oltre un milione di persone dai prefetti, a far fermare e/o arrestare centinaia di migliaia di consumatori, far girare decine di miliardi di dollari e, soprattutto, a intasare le Procure della Repubblica».
ELEONORA MARTINI
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