Qualche giorno fa una coppia di ragazzi, Stephano e Matteo, stava andando ad una festa di fine anno. Passano sotto la finestra e il balcone di una casa dove stanno parlando a voce altra altri ragazzi, più giovani di loro. All’improvviso partono degli insulti omofobi: «Froci de merda», tra quello forse più gettonato. Ma i due fidanzati lasciano correre e vanno per la loro strada.
Al ritorno, per rientrare a casa, sono costretti a fare lo stesso percorso. Quindi passaggio obbligato sotto il famigerato balcone di prima. Ripartono gli improperi e, questa volta, anche le minacce fisiche: «Ora je menamo!».
Detto, fatto. In una decina scendono e iniziano a tirare calci e pugni a Stephano e Matteo. Il primo tenta di proteggersi la testa, perché la gragnola di colpi è incessante. Il secondo prova a difendere il compagno, ma viene respinto e così, sotto la minaccia di fare un video per la polizia, riesce in qualche modo a farli fuggire. Venticinque giorni di prognosi per Stephano che ha il viso tumefatto e che trova la forza, insieme a Matteo, di denunciare subito tutto perché – dice con grande coraggio – «io sia l’ultimo ad aver subito tutto questo».
Lo so che molti troveranno scontato affermare che solo dall’ignoranza e dalla stupidità più becera può derivare un comportamento ferocemente omofobo come quello di cui qui si sta scrivendo. Ma, se l’omofobia esiste in Italia, ed è certo che esiste, nonostante alcuni commentatori e conduttori radio e tv neghino questa triste realtà, è anche a causa di un pregiudizio alimentato dal passato, dalla spudorata esibizione di una abissale retrività, ma è pure dovuta al fatto che non si fanno abbastanza sforzi culturali ed istituzionali nell’affermazione dei diritti civili.
Così come non si fanno sforzi per affermare quelli sociali e, più in generale, quelli umani e quelli degli animali e della natura. La cultura del diritto non può essere soltanto cultura di una maggioranza, ma deve comprendere tutte le specificità di una società che, per definizione, è complessità e particolarità. Per quanto ci si possa sforzare di ridurre ad una ogni cosa, ogni fenomeno (l’origine, il colore della pelle, la lingua, l’etnia, la “razza“, la Nazione, la Patria, le idee e le ideologie, l’etica, la religione e Dio stesso), l’essenza dell’esistenza ci avrebbe dovuto insegnare che non è possibile.
Ci avrebbe dovuto mostrare che, soprattutto nell’infinitamente grande (quindi nella maggioranza al quadrato o al cubo) si situano tutte le differenze del caso e che, dunque, non esiste nessuna riducibilità ad una essenza sola, ad una unicità che contraddistingue rispetto al resto. Noi siamo unici nella nostra singolare differenza: l’uno dall’altro e non possiamo che valorizzare tutto questo, non stigmatizzarlo per sentirci parte di un collettivo sempre maggiore, temendo chissà quale ghettizzazione o estinzione a causa delle cosiddette “minoranze“.
Ricordo un motivetto pecoreccio che risuonava nelle mie orecchie da ragazzo: «Se fossimo tutti gay, chi farebbe più dei figli?!». O ancora, su questa falsa riga: «Se fossimo tutti uguali chi dirigerebbe le fabbriche? I padroni ci vogliono». Così come gli eterosessuali. Peccato che gay si è, padroni lo sono diventati alcuni per via dei processi economici di una storia dell’umanità che, lotta di classe dopo lotta di classe, ha visto, con l’affermarsi della rivoluzione industriale, mutare il mondo e affidarlo al dominio di quella che un tempo chiamavamo “borghesia“.
Oggi, o tempora o mores, quelle frasette da piccati intellettualetti di piccola provincia molto borghese e tanto retriva, si sono aggiornate e se ne è aggiunta una nuova. Il semplificazionismo banalizzate e totalizzante arriva a dire: «Se fossimo tutti vegani le industrie del cibo chiuderebbero e ci sarebbero un mucchi di disoccupati». Forse staremmo meglio in salute, la smetteremmo di sottrarre al pianeta un sacco di risorse, di sprecarle e di assassinare miliardi di esseri viventi di cui ci siamo appropriati dalla punta della piramide inevolutiva antropocentrica.
Lo stesso abbiamo fatto con i desideri, i sentimenti, le emozioni e la vita dei nostri simili: ci siamo attribuiti il diritto di giudicare eticamente confacente alla natura umana, perché finalizzata alla riproduzione della specie, la sola eterosessualità. Benché la natura comprenda anche l’omosessualità in moltissime specie animali (compresa ovviamente la nostra), abbiamo decretato da qualche millennio, molto dopo la grande cultura ellenistico-romana, che gli uomini che amano gli uomini o le donne che amano le donne sono peccatori, peccaminosi.
Diffondono quindi un qualcosa che può, chissà mai come, contagiare gli altri: magari mostrando che l’amore si può vivere liberamente, senza barriere, steccati, linee di confine predestinate all’esclusione. E che, quindi, provare attrazione per il proprio stesso sesso o, magari più semplicemente, anche prescindendo inizialmente dalla totalizzazione sessuale che viene attribuita a noi gay (che leggeremmo tutto e tutti soltanto attraverso questa lente), voler bene ed amare un uomo è sconveniente.
Il Cristianesimo ha una notevole responsabilità in tutto questo. Nonostante l’attività politica e sociale di Gesù di Nazareth e quella che sarebbe stata definita poi la sua missione evangelica, trasmessa ai propri seguaci (o discepoli) ha trasceso le parole del Cristo sull’amore e sul prossimo e ha, nei secoli dei secoli, puntato il dito contro le minoranze: ad iniziare, nemmeno a dirlo, dai pagani, scambiatisi questo ruolo con i cristiani dopo l’avvento del nuovo culto come religione ufficiale dell’Impero dell’Urbe.
La discriminazione religiosa ha assunto, nel corso dei millenni, caratteri di natura razziale e, mediante ciò, si è sempre più fondata sulla giustezza dei valori occidentali contro il resto del mondo: così hanno fatto, molti altri culti che, nel nome di Dio impiccano gli omosessuali dall’alto delle gru in Iran, li sferzano con nervi di bue in Arabia Saudita, li castrano, li sodomizzano e li torturano fino a farli morire di stenti in ogni luogo in cui vigano le dure leggi della sharia. Non di meno hanno fatto i cattolici cristiani nella “civile” Europa almeno fino all’avvento dell’Illuminismo.
La sodomia era e rimane un peccato, nonostante la Chiesa oggi si sforzi di comprenderla, di capirla, pur sempre entro una cornice di paternalismo che le permette di preservare una morale ecclesiastico-sociale improntata alla giustezza sola dei rapporti uomo-donna nella configurazione della volontà divina di diffusione su tutta la terra della specie umana benedetta da Dio. L’omofobia sarebbe forse meno riscontrabile nella società se, un giorno, la Chiesa affermasse che ognuno è libero di vivere l’amore come meglio crede, come desiderare, come ancor più come gli piace.
Non voglio scadere qui nella polemica, piuttosto inflazionata, della piaga della pedofilia entro le mura dei tanti istituti, delle tante parrocchie cattoliche al di qua e al di là di uno o più oceani. Anche perché omosessualità e pedofilia non hanno niente di comune, nonostante qualcuno abbia provato ad accomunarle e a scansarsi la seconda, cercando di riabilitare in tutto e per tutto l’eterosessualità come imperturbabile da queste psicopatologie parafiliache.
Sapete cosa accade quando io e il mio compagno giriamo per strada mano nella mano? Le reazioni sono molte e diverse. Non tutte negative: c’è chi ci guarda un po’ sorpreso (forse ammira il coraggio, ammesso che noi si pensi di essere coraggiosi… in realtà non penso che si vada cercando l’esibizione o l’ostentazione di nulla; tanto meno del coraggio…) e poi sorride senza alcuna malizia. C’è chi se ne accorge, butta l’occhio e poi, nel momento in cui incrocia il nostro sguardo, ritrae il suo e fa finta di nulla.
Poi c’è chi si sofferma sulle mani che si incrociano o sul mio braccio che cinge il suo, non dice nulla, ma si percepisce una disapprovazione. Per ora nessuno si è permesso di redarguirci. L’impressione è che anche i più omofobi non osino, grazie alla moderna cultura dell’affermazione dei diritti civili, dopo decenni e decenni di lotte in questa direzione, proferire parola perché la reazione, non solo nostra, sarebbe soverchiante e mostrerebbe quello che, in fondo, gli omofobi sanno: di essere loro una minoranza. Rumorosa, spesso violenta, certamente vigliacca.
In dieci contro due: non è solo omofobia, è cattiveria molesta anche dettata dalla trogloditica ignoranza da cui nasce la boria, la spocchia, la protervia dei veri imbecilli. Ma consentita da un clima più generale in cui le differenze, le minoranze, i diritti di tutti sono messi a repentaglio perché una destra machista, ipermaschilista, tutta Patria, Dio e Famiglia tranne quando si tratta dei propri esponenti più eminenti, ha suggerito una protezione per la discriminazione, per l’odio.
Pur negando tutto questo, dicendosi pronta a tutelare i diritti delle persone LGBTQIA+, salvo deriderne immediatamente dopo l’acronimo per lunghezza, incomprensione… Salvo affermare che la famiglia naturale è soltanto quella che si fonda sul connubio tra uomo e donna e che, quindi, la benedizione divina e statale unita e sacra due volte c’è – Costituzione a prescindere – solo per chi vuole dare figli alla Nazione secondo i rapporti sessuali altrettanto naturalissimi.
Non lo possono dire apertamente, perché sanno che il coro di indignazione li sovrasterebbe e perderebbero anche buona parte dell’elettorato che li vota (e che non si identifica mai del tutto con il proprio partito o con il o la leader di turno), ma ciò che è diverso gli fa paura, gli incute timore. Si sentono a loro agio solo nella piccola patriottarda incultura dell’uguale a sé stesso in tutto e per tutto. Il diverso è l’oscuro, il salto nel vuoto, il limite di una povertà intellettuale che, del resto, a destra non è una novità.
Noi continueremo a camminare mano nella mano, senza per questo pensare di ostentare nulla, di voler provocare alcuna reazione. Vogliamo soltanto amarci, volerci bene e farlo anche quando siamo strada, alla luce del sole e non solo quando ci troviamo in casa nostra, nella nostra camera. Ricordate un altro mantra dell’omofobia più che latente: «A me i froci non danno fastidio, basta che facciano le loro cose tra loro e non in pubblico».
Questi non sono nemmeno tentativi di creazione di alibi sulla scorta di una specie di buona fede: sono excusationes non petentes e, quindi, sono già di per sé, al pari di «…non sono razzista ma…», delle manifestazioni oggettiva di omofobia nemmeno tanto latente. Certo, dal dire al fare c’è di mezzo forse qualcosa di più del mare. Ma provate a dirlo a Stephano e Matteo… Oggi per loro, domani speriamo più per nessuno, questa distanza talassica sembra un piccolo rigagnolo di un torrente arso e traversabile in ogni momento.
Non siamo noi a non dover avere più paura. Siete voi a dovervi accorgere che l’omofobia, così come il razzismo, così come il patriarcato maschilista, è un stato di primitività delle sensazioni e dei pensieri che può essere abbandonato. L’amore non minaccia nessun amore, il desiderio non è pericoloso per altri desideri. Ma l’odio minaccia apertamente, ed è un pericolo per tutte e tutti.
Abbandoniamolo al suo destino. Lasciamolo cadere nel vuoto del suo niente. Facciamo sempre di più sentire “il nulla” del nulla, di una vergogna che non può avere cittadinanza alcune nella Repubblica, spazio di nessun tipo nelle nostre esistenze.
MARCO SFERINI
4 gennaio 2025
Foto di Polina Tankilevitch