Riccardo e Malika, Malika e Riccardo. Due storie diverse, diritti differenti come le porte che sono state chiuse loro in faccia. Fuori comunque. Da una casa, da un contesto familiare lei; da una grande azienda metallurgica lui. L’esclusione è ostracismo, è condanna preventiva, è pregiudizio incrostato che viene a galla come escremento purtrescente, ed è prepotenza assolutista, dominio incontrastato sul diritto al lavoro e del lavoro.
Riccardo e Malika hanno delle colpe che non sono reali se non nell’artificialità di un mondo in cui permangono nella concretezza, largamente accettata da istituzioni e opinione pubblica (proprio qui cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto alla fine non cambia), gli anatemi verso l’imperfezione che viene decretata dalla sacralità della normalità di una famiglia che vuole probabilmente dirsi e sentirsi dire d’essere “rispettabile” e “tutta d’un pezzo“; e, nel caso di Riccardo, dall’intransigenza padronale.
Non si esce dai sentieri tracciati, dai percorsi prestabiliti tanto dal volere imprenditoriale quanto dall’etica familiare ottusamente preconcetta: sono due forme impositive di una morale che da un lato protegge gli interessi privati che devono essere tutelati nella società capitalistica; dall’altro tenta la messa in sicurezza dell’onore di una famiglia, intaccato dall’omosessualità della figlia. Un disonore che è critica indiretta di comportamenti che, almeno fino al “coming out“, difficilmente si mostrano come aperta ostilità fino alla cacciata di casa: muscolarità del linguaggio, durezza nelle espressioni, stigmi nei confronti della figlia che gioca a calcetto, che quindi è troppo “maschiaccio“…
Tutte imperfezioni che un certo tradizionalismo omofobo non ammette apertamente ma mette invece in campo quando deve arginare il “pericolo” che intravede, sperando sempre che non sia tale.
Riccardo invece ha come colpa quella di aver scritto su Twitter un post in cui si invitava a vedere lo sceneggiato con Sabrina Ferilli dal titolo “Svegliati, amore mio”. Mediaset ne riassume così la trama: «Nana (Sabrina Ferilli) è una madre, una moglie e, prima ancora, una donna coraggiosa e animata da un profondo senso di giustizia. La vita cambia per sempre quando sua figlia si ammala improvvisamente. La scoperta di altri casi simili al suo fa sorgere in lei un dubbio atroce: la causa di tutto potrebbero essere le emissioni di una fabbrica a pochi passi da casa, la stessa per cui lavora suo marito».
Nessun problema, nessun reato, nessuna calunnia ai danni di chicchessia. Non fosse che Riccardo lavora all’ex Ilva di Taranto, all’Arcelor Mittal. Tanto basta per licenziarlo secondo i padroni, senza nemmeno una spiegazione plausibile che, del resto, non è possibile scrivere perché dov’è la “giusta causa” per mettere fuori da una azienda un lavoratore che scrive su Twitter esprimendo la propria costituzionale libertà di pensiero su un programma televisivo che riguarda un aspetto della vita di moltissimi lavoratori, non solo in tutta Italia, ma nell’universo mondo?
Nelle storie di Malika e di Riccardo, a questo punto, si sente un grande vuoto: legislativo. Mancano due importanti tutele nel nostro diritto: manca una protezione che la Repubblica deve garantire nuovamente ai lavoratori e alle lavoratrici con la reintroduzione dell’articolo 18 (l’impedimento per il “datore di lavoro” di licenziare senza un giustificato motivo, una giusta causa); manca una legge particolareggiata ma chiara, che non lasci adito a mille interpretazioni, sull’omo-transfobia che è declinabile in centinaia di casi così diversi da far impallidire il senso di giustizia che si affida all’eguaglianza della nostra Carta fondamentale.
I diritti si tengono tutti per mano, formano una grande catena umana di reciproca solidarietà tra istanze sociali e civili, tra diritti del lavoro e diritti umani, tra garanzie per una dignitosa vita sul piano economico e tutele fondamentali per poter esistere senza essere discriminati in base ai dettami di una presunzione di maggioranza in campo etico così come in mille altri aspetti della quotidianità in cui un po’ tutto sopravviviamo.
L’articolo 3 della Costituzione, del resto, è quell’ottimo punto di partenza per far discendere una specificazione sempre più adatta ai tempi, alle evoluzioni (ed alle involuzioni) di una società che deve poter progredire tanto socialmente quanto eticamente.
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.».
L’uguaglianza è legata al rispetto della dignità personale in una estensione collettiva del concetto che diventa stile di vita, di comportamento reciproco, vicendevole. Il concetto di “dignità” non viene lasciato ad una mera interpretazione astratta, quasi a simboleggiare soltanto un carattere ideologico distintivo della Repubblica. I Costituenti precisano con dovizia quello che intendono: la dignità di ciascuno, e di tutti, è data dall’uguaglianza (e viceversa) che è per la legge tale soltanto se non vi sono distinzioni sul piano sessuale, razziale, linguistico, religioso e politico, arrivando ad un piano più concretamente materiale, economico e sociale.
Il licenziamento di Riccardo e la cacciata di casa di Malika sono due violazioni già costituzionali prima ancora che legislative: contravvengono al diritto di ciascuno di pensarla come vuole in merito tanto al suo essere economico, sociale quanto alla sua sfera più ideale, concettuale che si esprime nella pienezza di una legittimità di critica che non può avere confini se non quelli del rispetto vicendevole.
Quali sono i diritti che spaventano di più la cosiddetta “normalità“? Quelli che mettono in forse una egemonia culturale di un certo tipo che si può sia riflettere nell’ambito di un contesto di lavoro sia nella più apparentemente ristretta cerchia familiare.
I fattori che giocano alla fuoriuscita dei pregiudizi sono molti, si intrecciano e si separano con una disarmante facilità, proprio perché sono intrisi soltanto di banalità, di ignoranza, di stupidità e di gratuito odio e cattiveria. Sono schiaffi immorali che lasciano un segno profondo, così come lo lascia una lettera di licenziamento se sai di aver sempre lavorato nell’interesse del padrone per poterti continuare a garantire il tuo lavoro. Semplicemente per vivere, mentre altri si arricchiscono spartendosi i dividendi di fabbriche che inquinano e provocano da decenni il cancro.
Attorno alle storie di Malika e di Riccardo se ne potrebbero raccontare decine di migliaia di altre, simili se non proprio uguali, ma tutte legate da sottilissimi fili invisibili come quelli di ragnatele che resistono ai venti più impetuosi: si tenta di farli apparire come episodi isolati, come capricci di un padrone, come eccezionalità di una famiglia ancora legata a mentalità che – grazie a tante lotte – appaiono sempre più anacronistiche e retrograde; eppure non sono episodi singoli, ma soltanto gli ultimi di una serie infinita di prevaricazioni anticontrattuali da un lato e di pregiudizi sessuali dall’altro che vivono grazie al non completo disfacimento di una sequela di privilegi secolari e di paure ataviche.
La contestualizzazione è necessaria ancora di più in questi casi rispetto ad altri contesti, perché permette di leggere i fatti come inseparabili fra loro, fornendoci così la chiave di lettura critica per accorgerci che i diritti sociali, i diritti civili e i diritti umani sono un fronte di avanzamento progressista inscindibile e non considerabile come qualcosa di componibile e scomponibile – soprattutto nel quadro della politica istituzionalizzata (ed istituzionalizzante) – a seconda delle singolari convenienze di una parte piuttosto che un’altra.
Chi, nel nome della purezza della lotta di classe, tutta operaista, ipocritamente autodefinitasi come vera e unica lotta per l’emancipazione dei lavoratori, che non si lascerebbe confondere da lotte secondarie e subordinate (come quelle sui diritti LGBTQI o su quelli delle donne, oppure su quelli degli animali e dell’ambiente), vuole dettare una agenda politica nuova, lo fa da un punto di partenza nemmeno vecchio: proprio, totalmente avulso dalla realtà dei rapporti di forza economici che influenzano e gestiscono qualunque altro ambito della vita umana e di quella non umana presente su questo disgraziatissimo pianeta.
Le vite di Malika e di Riccardo non si sono incontrate forse nella rivendicazione dei diritti: almeno non direttamente. Ma ciò che quei torti chiedono a tutte e tutti noi è di unire le lotte, creando così i nuovi presupposti per una ampia cultura critica che abbracci ogni momento della nostra vita e che, quindi, offra alla nuova grande massa dei moderni oppressi una alternativa che abbia una risposta, una controbattuta e una capacità di smontare i paradigmi del capitalismo senza eccezione alcuna.
MARCO SFERINI
13 aprile 2021
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