Vorrei potermi sentire offeso dalle parole di Matteo Renzi che definisce “macchiette” coloro che alzano il pugno chiuso e cantano Bandiera rossa per essere di sinistra. Non posso nemmeno provare questo sentimento simil politico perché prima che essere di sinistra, lo dico con grande umiltà, pacatezza ma pure con convinzione profonda e fermezza, sono comunista.
E lo sono perché non ho trovato una realtà nuova in questi ultimi tempi, dopo magari l’enfasi giovanile del voler provare a cambiare il mondo, che mi persuadesse con ragione e dati e fatti alla mano che essere comunisti aveva perso di valore, di senso, di prospettiva sociale e politica.
Mi rendo conto che Renzi, più che avercela con noi comuniste e comunisti di Rifondazione, ce l’aveva con chi ha parlato di socialismo, di rivoluzione socialista e ha intonato Bandiera Rossa dopo essersi scisso dal suo PD.
E, proprio per questo, non mi sento offeso. Tutt’altro. Mi sento rinvigorito dal discorso vuoto fatto dall’ex presidente del Consiglio al Lingotto: un insieme di frasi fatte, di banalità che chiunque potrebbe ripetere anonimamente in un quiz televisivo e provare far indovinare il pubblico se il pronunciatore di quelle parole è di sinistra, centro o destra.
Ha detto Renzi: “Nelle scorse settimane qualcuno ha tentato oggettivamente di distruggere il PD anche a causa di un momento di debolezza mia. Non si sono resi conto che c’è una solidità, un forza che esprime la base del Partito democratico. Questa comunità non la rompe nessuno.“. Ma non spiega da dove derivi questa graniticità che, a dire il vero, negli ultimi tempi non è parsa essere proprio così come viene descritta.
Renzi lancia degli slogan dal palco ma non circostanzia mai le sue affermazioni, non le cala in un contesto quotidiano: sembrano quasi letture evangeliche, d’altri tempi, che si rifanno ad enunciazioni di principio, a comandamenti da applicare con fare dogmatico, senza spiegazione per quanto concerne ciò che avviene tutto intorno al PD e al tracollo subito dopo la grande vittoria del NO al referendum del 4 dicembre scorso.
Continua Renzi: “Noi siamo gli unici che non stiamo inseguendo la polemica quotidiana. Son tre mesi che discutono se è cambiato il mio carattere. Noi vogliamo cambiare l’Italia, la politica. Noi quando parliamo di politica guardiamo al mondo, quando parliamo di Europa non ci lamentiamo di qualcosa che non funziona ma proviamo a cambiarla concretamente. Noi che quando diciamo la parola ‘sinistra’ pensiamo ad una persona che deve stare meglio di prima. Noi che abbiamo cercato di trovare soluzioni difficili a problemi difficili. Per dire ‘noi’ c’è bisogno di dire ‘io’. Il ‘noi’ senza l”io’ non va da nessuna parte.“.
E poi pronuncia anche la parola “compagno” rivolto alla platea del Lingotto: “Amici e compagni” e via con un altro appello a non “fare rimanere ferma l’Italia nella palude“.
L’impressione è che quello che viene definito “il ritorno di Renzi” sia un tentativo veramente estremo di mostrarsi come ciò che i suoi avversari più vicini, i suoi ex amici e compagni di partito vogliono ora sembrare, facendo a gara col Campo progressista di Pisapia: la sinistra, l’unica, quella riformista che punta alla lotta e al governo. Magari ad una lotta non troppo chiassosa, non quella che dovrebbe riformulare le basi per una coscienza di classe, magari quella che guarda di più al perimetro del governismo come unico luogo di cambiamento sociale proteggendo sempre, di pari passo, gli interessi della borghesia, provando a far incontrare questi ultimi con alcune necessità dei più deboli.
E siamo, nuovamente, alla riproposizione di mitologie del recente passato attraverso la volontà di ridare fiato e vita al centrosinistra.
Francamente non so se trovo più imbarazzante questo ultimo proposito o la definizione non definita di ‘sinistra’ che Renzi attribuisce a sé stesso e al Partito democratico.
Lo ripeto: mai visti tanti rivendicare oggi uno spazio a sinistra, a contendersi quella parola per declinarla quanto meglio possibile davanti ad un elettorato che di sinistra ha bisogno ma di quella vera. E quella vera, se è davvero tale, non può che essere antiliberista, come minimo. Se poi è anche anticapitalista, allora siamo tornati a ridare alla parola sinistra un significato aggettivale corretto.
Per distinguere efficacemente sinistra, destra, centro e populismi vari, occorre ritornare al marcare confini precisi nella geopolitica italiana: il PD è quanto meno, come già detto e ridetto più volte, un partito di centro che abbraccia politiche economiche liberiste. Lo stesso ministro Orlando lo afferma oggi sui giornali: “Bisogna abbandonare la stagione del liberismo“, il che vuol dire che quando accusavamo questo partito di averla per bene interpretata non eravamo in errore noi comunisti ma coloro che negavano che il PD fosse un partito liberista.
Le parole di Renzi al Lingotto hanno il pregio della retorica, ambiziosa, di riportare in auge un sentimento di collettività che si raduni nuovamente attorno ad un compromesso tra classi dirigenti e classi sfruttate, per ripetere il “miracolo” di un partito nazionale che imponga la pace sociale dal punto di vista dei padroni. Ma hanno solo questo pregio: il tentativo. Non più la certezza di essere l’incontrastato protagonista di una impari lotta politica per altri che provino a scontrarsi con lui.
Emiliano ed Orlando proveranno a mostrare di volere un PD veramente di centrosinistra, che si lasci dietro le alleanze con i centristi, così come reclama Pisapia. Ma a stretto giro di posta arrivano le parole di Orfini che vuole un partito più di sinistra e meno di centro.
Ma il vero termometro della “sinistrosità” del nuovo ideale di PD di Renzi è il giudizio che dà dei fatti di Napoli: lui non sta con De Magistris, è democratico e pensa che sia giusto lasciare parlare tutti. Perfettamente d’accordo.
Ma chi parla di odio, chi lo diffonde ogni giorno ha diritto di farlo? Questo non è diritto di parola, è abuso della medesima e del diritto costituzionalmente sancito.
Chi tenta di trasmettere il messaggio (e ci riesce molto abilmente) che il nostro nemico non è il padrone che ci sfrutta in ogni dove lavoriamo ma il migrante, quindi uno sfruttato come noi, un disagiato come noi che ci riteniamo invece civili ed evoluti perché abbiamo in mano computer, tablet e telefonini che fanno le “faccine”, chi fa tutto questo non può avere cittadinanza politica nella Repubblica. Almeno non dovrebbe averla.
E la differenza qui è abissale, ed è il termometro per la sinistra: una sinistra che difende la Costituzione e i suoi valori la protegge da chi dice di rientrarvi pienamente perché esige un diritto che gli è garantito, salvo poi utilizzarlo per fomentare odio sociale e contrapposizioni fondate su pregiudizi che sono il contrario dei princìpi ispiratori della Carta del 1948.
Noi stiamo con la Costituzione da sempre, anche prima del 4 dicembre. Abbiamo contribuito a salvarla da un tentativo di stravolgimento non da poco. Speriamo che ciò non si ripeta. Ma la speranza significa lotta continua, lotta senza soluzione di continuità: perché ci sarà ancora qualcuno che un giorno dirà che la Costituzione è vecchia, che va cambiata, che vanno snelliti i processi legislativi e che comunque bisogna garantire a tutti il diritto di parola. Anche se le parole sono fatte per dividere, separare e non per creare idee che si confrontino nell’ambito di una solidarietà sociale che deve continuare ad essere la base fondante della Repubblica.
Questo ci divide ormai inesorabilmente dalle parole di Renzi che non trovano fondamento e riscontro nella realtà disomogenea che vorrebbe omogeneizzare. E per fortuna questa divisione è definitiva, senza ritorno.
Fate pure a gara a dirvi “di sinistra” o di “centrosinistra”. Noi non parteciperemo a quella gara. Perché la nostra gara è ricostruire la differenza rispetto a tutto il resto che circola nel panorama politico italiano. La differenza. Questa è la nostra sfida. La sfida dell’alternativa di sinistra: differente da chiunque altro e, quindi, veramente di sinistra.
MARCO SFERINI
14 marzo 2017
foto tratta da Pixabay