Domenica 23 aprile, Emmanuel Macron, già Ministro dell’economia di François Hollande, si è aggiudicato il primo posto al secondo turno delle elezioni presidenziali francesi, con il 24% dei consensi. Poco dietro di lui Marine Le Pen, leader del partito di estrema destra Front National, con il 21,7% dei voti. I due si disputeranno il primo posto al ballottaggio il 7 maggio prossimo.
Perché questo esito del voto francese della scorsa domenica deve preoccupare più di quanto non sembri preoccupare l’intelligentia, o quanto meno la stampa, europea che invece appare accoglierlo con giubilo?
È ormai evidente che da qualche anno in Europa e nel mondo si stia sviluppando un movimento di rivolta contro quello che comunemente viene chiamato il “sistema”, termine snobbato dalla stessa “intelligentia” e dallo stesso sistema, che pur ne riconoscono l’esistenza.
Per limitarci all’Europa, questo spirito di rivolta si esprime in un rifiuto delle istituzioni europee, della moneta unica, delle politiche liberali europee e di quelle interne di bilancio delimitate e soffocate da un sistema sovranazionale che non sembra più funzionare, almeno per la maggior parte degli Stati che ne fanno parte.
Nato troppo in fretta, con il peso troppo grande di restaurare l’ordine in un continente devastato, e di prevenire e scongiurare qualsiasi ulteriore ricaduta, il sistema Europa è dovuto scendere, nella sua graduale evoluzione, a numerosi compromessi, primo fra tutti quello di una assimilazione economico finanziaria tra economie del tutto differenti. Una assimilazione che però è rimasta a metà. Politica monetaria comune, non accompagnata da una comune politica di bilancio. Obiettivi di bilancio unici, interessi e, soprattutto, punti di partenza diametralmente opposti.
Se l’Europa ha dato buoni risultati finché la Comunità è stata limitata ad accordi di carattere economico-commerciale, o di gestione delle risorse e delle materie prime, i problemi non si son fatti attendere con la nascita dell’Euro, tanto voluto dal mondo della finanza che in questo modo si è garantito una certa stabilità della moneta, e quindi delle transazioni finanziarie nei rapporti con il vecchio continente.
Che l’Europa non fosse un’area valutaria ottimale lo si sapeva, i grandi economisti avevano messo in allerta con largo anticipo, ma si è sperato che questo inconveniente sarebbe stato compensato dai vantaggi che indubbiamente la moneta unica avrebbe, e ha, portato: abbattimento dei costi di transazione, eliminazione del rischio di cambio, maggiore trasparenza e, forse, più concorrenza, grazie a un più semplice confronto dei prezzi. Non ultimo, un legame tra gli Stati decisamente vincolante, che li costringe a far convergere gli interessi e a limitare al massimo le divergenze. Un sistema ben studiato perché l’accesso sia piuttosto semplice, e il recesso disastroso per chi vi opta.
L’Unione monetaria europea però è vittima di continui shock asimmetrici, che dovrebbero essere trattati con una politica fiscale comune, che per ora non esiste. Si sa, la politica fiscale è lo strumento di manovra elettorale più potente, al quale nessun potere nazionale vuole rinunciare. Il risultato è quello che abbiamo visto e che stiamo vivendo. La politica monetaria UE, a taglia unica, favorisce solo alcuni Paesi dell’eurozona, penalizzando gli altri.
Il risultato è, in ultima istanza, un incremento delle diseguaglianze economiche e sociali. I ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri.
In questo contesto, ad un disagio reale e oggettivo vengono date tre tipi di risposte.
Da una parte i movimenti anti europeisti “senza se e senza ma” pensano che la soluzione sia quella di dissolvere l’Unione europea tout court, buttando via anni di studi, di sogni e di speranze che questa si porta dietro. Rinunciando anche a i benefici che questa, senza dubbio, ha generato, non fosse altro che per gli oltre 60 anni di pace che ha contribuito a garantire sul continente. I fautori di questa ipotesi ritengono che si debba far ricorso ad una sorta di restaurazione delle vecchie potenze e dei vecchi equilibri di potere e ad un ripristino delle vecchie competenze nazionali, allo scopo di far fronte al fallimento di una parte del progetto europeo.
Al polo opposto si trovano gli europeisti convinti “senza se e senza ma”. Di questi fanno parte spesso gli Europei dell’Europa “che sta bene”. Le classi più agiate e, soprattutto, le élites. Favorevoli alle politiche di austerity, ad un euro forte che favorisca la finanza a discapito dell’economia reale e dei piccoli produttori e esportatori.
Tra i due, gli europeisti scoraggiati. Che credono nel progetto politico europeo ma sono fermamente convinti dell’urgente necessità di una riforma profonda del sistema Europa.
Per tornare all’elezione francese, dei primi fa parte la Le Pen, dei secondi Emmanuel Macron, del terzo gruppo gli ormai ex candidati Hamon e Melenchon.
Quindi, nel contesto di un sistema finanziario incapace di rispondere ai bisogni della maggior parte dei cittadini, con un sistema bancario insostenibile per le stesse banche, il tutto tenuto in piedi da un debole teatrino di media pronti a tutto, in maniera ormai sfacciatamente evidente, almeno in Francia, pur di non far crollare il fragile equilibro su cui questo sistema si regge, la risposta a un onda di malcontento generale sempre più violento e che preme da diversi fronti non può essere evitata ancora per molto, deve invece essere forte e chiara. E, a mio avviso, non può essere il neoliberismo sfrenato che propone Emmanuel Macron, che porterà, se arriverà al potere, questa per ora ancora arginabile sentimento di ribellione a una vera a propria rivolta popolare, se non a livello europeo, certamente in Francia.
Non bisogna dimenticare infatti che l’accresciuto potere esecutivo della quinta repubblica, è una soluzione alla quale la Francia è ritornata spesso e che ha ripetutamente respinto, alla fine. In modi più o meno violenti.
Il candidato sortito vincente dal primo turno dell’elezione presidenziale francese, presentatosi inizialmente come l’anti-sistema, per il solo fatto di non voler dare nessuna etichetta al suo movimento/partito (ni de droite ni de gauche), è un giovane rampante di 39 anni, uscito, come gran parte degli altri politici francesi, dai ranghi della prestigiosa scuola della pubblica amministrazione (ENA).
Ha poi proseguito la sua carriera al Ministero delle finanze e poi in Rothschild, come banchiere d’affari, ai piani alti della finanza mondiale.
Grazie alle ottime referenze altolocate accumulate in breve tempo e alla morbidezza di Hollande, è stato scelto da quest’ultimo come primo segretario all’Eliseo. Da qui, complice l’inattesa circostanza delle dimissioni in massa di alcuni ministri (tra i quali proprio Hamon, candidato del Partito socialista a questa stessa elezione) scontenti della piega un po’ troppo liberale presa dal governo a dispetto delle promesse elettorali sulla base delle quali il PS aveva vinto le elezioni, il giovanissimo Macron, più legato alla carriera che agli ideali, è stato nominato Ministro dell’economia a 36 anni.
Il probabile futuro presidente, quindi, non ha mai avuto alcuna carica elettiva. Spesso nel posto giusto al momento giusto e, soprattutto, con le persone giuste, ha visto spianata da altri la strada che in pochissimo tempo, e senza grandi sforzi, lo ha portato da una piccola cittadina piuttosto ricca della Somme all’Eliseo. Forse.
Certo, è dovuto passare per il tradimento del suo maitre, Francois Hollande, al quale nell’aprile del 2016, un anno fa, aveva riferito di voler fondare un movimento, per riportare i giovani al partito socialista, allo scopo di rendere più semplice una sua eventuale rielezione, sua. Di Francois Hollande. Così è nato En Marche! il movimento di Emmanuel Macron, (di cui porta, non a caso, le iniziali) dalla pretesa volontà di riportare i giovani al partito socialista, nell’interesse di Hollande, e di una sua eventuale rielezione. Questo era il progetto, almeno dichiaratamente, mentre il giovane Emmanuel era ancora al Governo.
Il progetto è andato bene, grazie ai già buoni contatti del giovane Ministro, che non si è privato di far uso della sua nuova carica per infittire e cristallizzare la rete dei futuri finanziatori di En Marche!, in poco tempo movimento nuovo di zecca ha raggiunto migliaia di iscritti e, soprattutto, 9 milioni di euro di finanziamenti. Un ottimo gruzzolo per cominciare una campagna.
Così, il preteso desiderio di aiutare il suo Presidente per la prossima campagna, si è trasformato in desiderio di candidarsi. Nell’estate 2017, durante un viaggio all’estero di François Hollande, Emmanuel Macron ha dichiarato le proprie dimissioni dal Governo e quasi contestualmente la sua (prima) candidatura, direttamente alla presidenza della Repubblica francese.
A settembre la campagna di Emmanuel Macron ha avuto inizio in tutto il suo splendore. Meeting sfarzosi, invitati speciali, palloncini colorati, giovani rampanti e ben vestiti. “Ho guadagnato milioni di euro in pochi anni, li farò guadagnare anche a voi!”. “Non avete lavoro? Create voi l’impresa”. Sulla falsa riga del “Se vuoi comprarti un abito elegante invece che una patetica t-shirt, vai a lavorare” frase cult detta dal giovane Macron in qualità di Ministro dell’economia ad un operaio che osò criticarlo in pubblico durante uno dei suoi spostamenti, nella prima metà dell’estate 2016.
In pochi mesi Macron è diventato l’unico candidato votabile da tutti i Francesi. I media ne hanno fatto un enfant prodige della finanza, dell’economia, della politica. Senz’altro un ottimo prodotto commerciale. Una vita brillante, tanto nella carriera quanto nella vita privata. Una storia d’amore fiabesca e successi precoci e grandiosi. La stampa non ha smesso e non smette di parlare di lui. È stato il candidato che di tutte le presidenziali ha fatto il maggior numero di “une”, prime pagine, di tutta la storia.
I sondaggi lo hanno catapultato in pochi mesi al secondo posto dietro a Marine Le Pen. È quindi lui l’unico che può batterla. Bisogna votarlo. Tutti gli altri voti sono inutili, non disperdete i voti, Marine le Pen, il male assoluto, è troppo alta nei sondaggi, è alle porte, bisogna votarlo perché vincerà. Vincerà perché bisogna votarlo.
Parallelamente, il giovane Macron ha saputo destreggiarsi molto bene tra gli eletti e i pezzi grossi dei due partiti principali, il Partito socialista e Les Républicains, e il centro, di cui il rappresentante, François Bayrou, poi suo principale alleato, aveva ancora un buon seguito, seppur al di sotto del 10% nei sondaggi, quindi, da solo, incapace di vincere.
In pochi mesi, un gran numero di deputati eletti, ministri, ed ex ministri di questo e quell’altro partito, hanno lasciato la casa madre per allinearsi En Marche!, con Emmanuel Macron. Che vincerà, perché i sondaggi dicono che vincerà.
En Marche!, ha dichiarato più volte Macron, è un movimento né di destra né di sinistra. Nasce senza programma, perché il programma verrà, ma vuole unire gli scontenti.
En Marche! è nato davvero senza una dottrina né un programma chiaro. Poteva significare ogni cosa per ognuno e il programma di En Marche ! in effetti, si è sviluppato proprio in maniera lenta e graduale, in larga misura adattandosi alle circostanze (principalmente al crollo del candidato di destra François Fillon, che ha lasciato gli elettori del partito Repubblicano orfani di un candidato votabile, a due mesi dal voto e a candidature ormai chiuse).
Il programma di Macron è stato infatti rivelato quasi un anno dopo la nascita di En Marche!, il 3 marzo 2017, nel bel mezzo della campagna presidenziale che già lo dava e lo voleva vincente. Un collage degli altri programmi, molto di quelli di destra e di quello di Fillon dai quali sono state abilmente estratte e selezionate le misure più popolari, e tutta una serie di misure favorevoli ai suoi principali sostenitori, prima fra tutte, abilmente messa in ombra dal sistema mediatico, la limitazione della ISF (imposta di solidarietà sulla fortuna, applicabile per scaglioni, ad oggi, a tutti i patrimoni superiori a 1,3 milioni di euro) al solo patrimonio immobiliare. Ovvero, sarà risparmiata al mondo della finanza e imposta ai soli risparmiatori.
Vediamo quindi che al secondo turno dell’elezione presidenziale francese si affronteranno, da una parte un rampollo ben vestito e pieno di sé, che risponde a chi lo critica che lui non prende lezioni da nessuno, in rappresentanza della Francia che sta bene e dello stesso capitalismo finanziario sfrenato del quale la maggior parte dei cittadini, e sicuramente quelli che stanno portando avanti proteste sociali di anno in anno più violente, si sentono vittime. Dall’altra una nazionalista, che inneggia al conservatorismo più assoluto, alla chiusura senza processo delle moschee “sospettate” di radicalismo, alla superiorità del cristianesimo e della cultura francese ma che parla alla pancia della Francia che sta male, alla fetta di francesi che non può finire il mese, agli operai e alla classe media.
Siamo proprio sicuri che Emmanuel Macron, in un momento storico come quello che stiamo vivendo, in cui il Front National ha raggiunto il più alto consenso popolare della storia (allego una mappa che fa capire il risultato delle politiche neoliberali di Hollande, presidente eletto nel 2012 con un programma di sinistra, sui consensi popolari all’estrema destra), fosse davvero il voto utile per battere Marine Le Pen ? E siamo sicuri che, se sarà lui a vincere, tra 5 anni le sue politiche ultraliberali non porteranno il FN ancora più in alto e ancora più carico di rabbia? Ancora più pericoloso.
Ma soprattutto, siamo sicuri che Emmanuel Macron riuscirà a vincere questa elezione contro Marine Le Pen?
Sappiamo che esito ha avuto negli Stati Uniti un’affiche simile. Staremo a vedere.
GIULIA VIGNOLO
“corrispondente” dalla Francia
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