Dopo aver letto il Bollettino economico di Banca d’Italia di ieri, qualcuno potrebbe farsi questa domanda: l’Europa e l’Italia sono uscite dalla crisi?
Alcuni dati potrebbero suggerire una risposta positiva. La crescita del Pil per il 2017 e il 2018, rispettivamente 1,4% e 1,3%, la misurata (0,2%) crescita dell’occupazione, il consolidamento della bilancia commerciale, ormai al 2,6% del Pil, le prospettive di crescita degli investimenti, secondo le dichiarazioni dagli imprenditori, non solo sono leggermente migliori rispetto alle proiezioni dei mesi passati, ma potrebbero suggerire che la situazione economica sia migliorata. Molti opinionisti cavalcheranno queste informazioni sostenendo che le politiche del governo hanno funzionato; altri sottolineeranno che la situazione economica del Paese sarebbe migliorata se avessimo tagliato realmente la spesa pubblica. Il debito pubblico ha raggiunto il «record» di 2.278,9 miliardi, un fardello che crea incertezza e condiziona gli investimenti privati.
Nel bollettino di Banca d’Italia si profila persino una velata critica alla politica salariale, quando osserva che le retribuzioni contrattuali del settore privato hanno continuato ad aumentare in misura modesta (0,5% rispetto a un anno prima). La preoccupazione di Banca d’Italia e prima ancora della Bce, relativa alla bassa dinamica dei salari, non è un improvviso innamoramento verso il lavoro; l’interesse dei due istituti è proporzionale al rischio deflazione. Infatti, l’inflazione è salita troppo poco (1%), e quel poco d’inflazione è relativa al solo aumento dei prezzi dei beni energetici.
Bce e Banca d’Italia si sono interrogati sul punto, riconoscendo che qualcosa non funziona nel mercato. Secondo i loro modelli, a certi livelli di disoccupazione dovrebbe pur esserci una spinta inflazionistica da parte dei salari, ma all’orizzonte non si manifesta nulla di tutto ciò. Forse non funziona il modello, oppure è «manipolato». In realtà Bce e Bankitalia avrebbero le informazioni necessarie per comprendere la debole crescita dei salari e quindi dell’inflazione. Se studiamo con attenzione le previsioni economiche della Commissione Ue e del report della Bce (maggio 2017), possiamo comprendere non solo il fallimento generale delle politiche europee e nazionali, ma cogliere anche la portata della crisi e quanto questa sia ancora presente.
Non basta un rimbalzo «tecnico» e parziale di alcuni indicatori economici per sostenere che viviamo in un mondo migliore. Se la domanda di beni e servizi non è abbastanza solida per recuperare la disoccupazione pregressa, e non è abbastanza dinamica per creare nuovo lavoro, parlare di uscita dalla crisi è un errore. Per ottenere questa risultato servirebbe un tasso di occupazione e disoccupazione reale molto diverso da quello che segnala la statistica ufficiale. Sul punto è bene ricordare che l’Europa e l’Italia hanno un problema di struttura gigantesco: la domanda di lavoro è insufficiente per soddisfare l’offerta di lavoro. Non a caso i salari non crescono e l’inflazione rimane pericolosamente in zona deflazione.
La Bce e la Banca d’Italia conoscono la vera disoccupazione. Secondo il bollettino Bce di maggio, infatti, la disoccupazione europea reale, cioè la popolazione disoccupata e sottoccupata, è pari al 18%, pari al doppio rispetto alla rilevazione ufficiale Eurostat, mentre la disoccupazione italiana reale è pari al 22%, cioè il doppio rispetto alla stima ufficiale fornita dall’Istat.
La crescita dei salari è troppo bassa? Sarebbe impossibile il contrario. Non è quindi sorprendente la distanza dell’inflazione corrente dal target della Bce (2%). Inoltre, la dinamica salariale nazionale è ancor più contenuta della media europea in ragione della de-specializzata domanda di lavoro delle imprese italiane. Secondo l’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro, giugno 2017, un esercito di 509 mila italiani si è cancellato dall’anagrafe per trasferirsi all’estero per motivi di lavoro nel periodo 2008-2016, di cui 250 mila sono andati là dove si domanda lavoro a medio e alto contenuto tecnologico c’è.
Fino a che punto l’Italia si è impoverita? Tanto secondo la recente rilevazione Istat, ma l’aspetto più preoccupante è la crescente povertà tra i giovani. Ma c’è di peggio. Il calo delle immatricolazioni tra il 2001-2 e il 2014-5 è un campanello d’allarme lanciato dai giovani che in pochi vogliono raccogliere: meno 24,5%. In qualche misura si intravede la sfiducia degli stessi che, in ragione di una domanda di lavoro qualitativamente troppo bassa rispetto ai livelli potenziali di sapere legati al percorso universitario, rinunciano ancor prima di cominciare (completare) al percorso formativo.
Siamo usciti dalla crisi? Se così fosse, ne siamo usciti proprio male.
ROBERTO ROMANO
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