La locomotiva un tempo correva “lanciata a bomba contro l’ingiustizia“, ed oggi invece si ferma per far scendere in quel di Ciampino un ministro della Repubblica che, causa ritardo ferroviario per un gusto sulla linea Napoli – Roma, avrebbe mancato ad un evento pubblico a Caivano, ben noto alle cronache per altri tristi motivi di ordine pubblico e di mancata convivenza sociale e civile.
Si scatenano un po’ tutti i mezzi di informazione, dopo la denuncia fatta da “Il Fatto quotidiano”: con una doverosa indignazione alcuni, con una volutamente non celata sfilata di scusabilità per la richiesta di Lollobrigida.
Il punto è il privilegio, il diritto che scavalca i diritti di tutte e di tutti, il poter fare di uno versus il non poter fare di tutti gli altri. Il punto, pertanto, è non tanto la ragione di Stato, che qui sembra proprio non essere appellabile come ragione dell’accaduto, semmai la concezione che del proprio potere hanno coloro che siedono al tavolo del governo.
Per carità di patria! Non è mica da oggi che scopriamo come il ruolo politico di alto ed anche medio livello conduca ad una considerazione di sé stessi che va ben oltre l’impegno che ci si è assunti davanti all’elettorato, al tanto celebrato “popolo del nostro Paese“. Di episodi che hanno reso celebre il conflitto tra l’enunciato lapidario che troneggia sopra gli scranni di tutti i tribunali (“La Legge è uguale per tutti“) e la sua concretissima realizzazione costantemente quotidiana, son piene non le fosse, ma interi crateri.
Siccome parlare per proverbi a volte è piacevole, potremmo dire che la via dell’Inferno è sempre lastriscata di buone, ottime intenzioni: ma qui si tratta di atti concreti, per cui i presupposti degli stessi sono roba da campagna elettorale e non riguardano più il pragmatismo delle forze politiche che sono assurte al ruolo di governo della Nazione, con la rigorosa enne maiuscolissima.
I patrioti meloniani dovrebbero avere a cuore il rispetto per tutti i cittadini. Dovrebbero essere i più umili tra gli umili nella gestione del loro potere, che, quindi, dovrebbero considerare come una cessione temporanea di sovranità che gli deriva indubbiamente dalla parte di popolo che li ha votati e che, una volta che si fà maggioranza, che lo diviene nelle Camere, in quel preciso istante è responsabilità che si sostanzia. Verso tutto e tutti e non solo più nei confronti dei propri elettori.
La natura del potere, quindi, non fosse altro che per enunciazione costituzionale, meriterebbe una riconsiderazione in questo senso: la precarietà temporale, la perturbabilità che può subire dai complessi meccanismi della democrazia rappresentativa che non è delega assoluta, ma sempre e soltanto una parziale designazione a lavorare negli interessi comuni per un preciso intervallo di tempo.
Ma il potere ubriaca, malversa e, quando sei già abituato a ragionare in termini di differenza di classe e non di uguaglianza e di reciprocità dei diritti, quando la destra che hai contribuito a creare e a far crescere è ormai la più fedele e convinta alleata delle ragioni di una diversità intesa come esclusività per chi sta in alto e come marginalizzazione per chi è un gradino sotto, allora puoi permetterti di andare in televisione e dire qualunque cosa.
Persino che è nel tuo diritto richiedere una fermata non prevista di un convoglio che sta trasportando persone come te che, a differenza di te, non hanno quello che tu chiami diritto e che, invece, è solamente un arrogante privilegio di cui ti intesti tutta la paternità. Perché tu sei il ministro e perché chi dirige le aziende che rispondono al pubblico, in fin dei conti hanno come riferimento chi comanda e non l’utenza che paga il biglietto.
Non è una questione di deterioramento antietico dei rapporti tra politica e cittadinanza, tra rappresentanti e rappresentanti, tipica dell’Italia. Non c’è dubbio che il nostro Paese spicchi per abuso di potere rispetto a tante altre nazioni, anche dell’Unione Europea, e che sia considerato, pulcinellescamente, il luogo dove, se paghi o se hai un ruolo a cui gli altri guardano con la riverenza sperticata di un Calboni fantozziano qualsiasi, puoi praticamente permetterti di oltrepassare le regole.
Di marchesi del Grillo è piena la storia ma pure l’attualità non scherza. Quel “Io so’ io e voi nun siete un cazzo!” aveva il sapore dello sberleffo ma pure l’amaro retrogusto della realtà, della verità dei rapporti di altezza e di bassezza che intercorrono tra le classi sociali e tra le caste che si creano nel momento in cui la politica viene ad essere uno strumento esclusivo del potere economico e da gestione del sociale diviene preservazione del privilegio.
Il gesto di Lollobrigida è possibile perché questa catena di consuetudinarie acquiescenze nei confronti del privilegio non si è mai davvero interrotta. Ha subito qualche scossone, qualche idealistico terremoto con le pulsioni populiste che pretendevano di decretare tanto la fine della disonestàò quanto quella della povertà da una posizione sempre di potere, mentre si trasformavano esse stesse in quello che avevano giurato di combattere.
Una vera rivoluzione culturale e sociale al tempo stesso, che determinasse un salto di qualità nella rivalutazione per intero della Costituzione e nella sua concretazione fin dentro i gangli più periferici del corpo politico e civile della nazione, non è in Italia mai avvenuta ed è difficile che oggi si possa in un certo modo riconoscere anche nelle pur giuste rivendicazioni del mondo del lavoro, della scuola, dei movimenti che portano avanti istanze di giustizia sociale, civile ed anche climatica.
Occorrerebbe una vera e propria palingenesi, un azzeramento istantaneo di tutto quello che abbiamo imparato e che siamo stati portati a pensare nel corso di decenni e decenni di sfrenata acquisizione della ispirazione egoistica del rampantismo come elemento strutturale del successo.
I quarantenni e i cinquantenni di oggi sono una delle generazioni che di più è stata permeata da questa fascinazione perversa, da questa tentazione di considerare certamente da un lato i valori della solidarietà e dell’uguaglianza come il vero contraddistinguibile emblema della democrazia italiana, ma di porvi anche accanto la necessità della competizione a tutto spiano, senza esclusione di colpi.
Le generazioni più giovani, poi, sono cresciute all’ombra di esempi genitoriali, di esempi stessi del mondo della cultura e della politica, che inducevano a mettere avanti a tutto la propria affermazione come caratterista prima e ineguagliabile del vero sviluppo moderno di una intera società che si autoconvinceva di prosperare standosene accovacciata tra le rassicurazioni di quelle forze antisociali che avrebbero fatto strame dei diritti fondamentali.
Dalla Milano da bere degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, passando per tutto il ventennio berlusconiano, l’Italia è stata trasformata in un laboratorio del mercatismo ipermoderno, della fase liberista che imponeva allo Stato di essere forte con i deboli e assolutamente benevolo con i forti.
Per questo la richiesta della fermata a Ciampino fatta dal ministro Lollobrigida non stupisce, ma certamente deve indignare, perché proprio in questa montante indignazione sufficientemente diffusa e collettiva è racchiuso quel poco di speranza che possiamo avere nel considerarci non del tutto sedotti dai disvalori dell’arrivismo, dell’egoismo individualista, del potere per il potere, delle istituzioni pubbliche al servizio tanto di uno soltanto (vedasi la voce: “premirato“, e tutti i suoi politici sinonimi…).
Perché nell’animo e nella mente del ministro non è prevalso un guizzo d’intuito, uno scattante pensiero che potesse fare di lui un eroe per un giorno? Non certo chiedendo ciò che tutti gli altri concittadini non possono domandare; ma invece facendo un sacrificio, mettendosi al pari dei suoi simili e non elevandovisi al di sopra con le specialissime ali dell’autorità, della considerazione del suo ruolo come di un passpartout che apre tutte le porte…
Perché, in un’epoca in cui la rappresentazione ipocritamente figurativa dei social ne avrebbe fatto una immagine iconica, Lollobrigida non ha fatto il contrario di ciò che invece poi ha deciso di fare?
Perché non ha atteso sul treno e non è sceso come tutti dove avrebbe dovuto scendere, denunciando poi le condizioni disagevoli in cui si trovano milioni di italiani ogni giorno che devono fare del pendolarismo un loro ossessivo compulsivo stile di sopravvivenza? La ragione è più facile a dirsi che a trovarsi. Ma possiamo pensare a due soluzioni a questo sfingesco enigma.
La prima è che, condividendo l’opinione ormai piuttosto comune, abbia fatto spallucce delle esigenze degli altri cittadini e abbia chiesto quindi di essere trattato differentemente vista l’alta carica che ricopre. Il ministro ha dalla sua le ragioni di Stato, di pubbblica sicurezza, di ordine altrettanto pubblico, di rappresentanza, di tutela di questo e quello. Tutte le ragioni. In nome dell’altezza quasi reale di queste ragioni, chiedo (si fa per dire…), ottengo e così sia.
La seconda è che abbia dato proprio per scontato di poter fare tutto questo, aprioristicamente, senza nemmeno fare spallucce. Proprio nel solco della consuedutine, di una routine che, tuttavia, non è poi così evidente – almeno ad alti livelli – giorno per giorno.
Ma tra navi della marina militare usate per andare a convegni artistici, aerei sempre di Stato utilizzati centinaia di volte in pandemia per (ufficialmente) “evitare il Covid“, e altre serie scempiaggini, si finisce per reputare tutto ciò una anomalia normale, una stranezza che, come la verità oscurata e surclassata dalla ripetitività della menzogna, appare nel suo esatto opposto.
Sinonimi e contrari qui si fondono e si confondono e, quindi, tocca proprio all’indignazione ragionata, circostanziata e supportata da tutte le prove del caso, rendere evidente tanto al ministro quanto alla popolazione che così proprio non va, che c’è sempre un limite che non si può superare. Il problema, semmai, è chi stabilisce questo limite e chi lo fa rispettare.
A dire il vero la Costituzione sta lì da settantacinque anni. Lollobrigida di anni ne ha cinquantuno, quindi non ha scusanti. La dovrebbe conoscere e anche bene. E’ comprensibile che dalla sua parte politica la si sia trovata un po’ straniante, perché così contraddicente con quei princìpi di un ventennio e di un retaggio post-bellico ancora tanto caro alle destre di governo di oggi.
Ma la Carta del 1948 è lì per tutti. E’ un dovere metterla in pratica. Un ministro, poi, ha una responsabilità in più di un normale cittadini: ha l’obbligo di dare l’esempio sempre. Anzitutto se si tratta di evitare privilegi che, anche indirettamente, il suo ruolo potrebbe indebitamente conferirigli per – diciamo così… – eccesso di zelo di chi gli sta intorno.
Sandro Pertini, e non solo lui, è ovvio, aveva tradotto alla lettera il rispetto per la Costituzione durante tutta la sua vita politica che, poi, coincide con la sua esistenza come uomo e come cittadino. Come antifascista, come interprete di un legame indissolubile tra il socialismo (quindi la giustizia sociale) e la democrazia (quindi la giustizia civile e l’uguaglianza morale).
Se Lollobrigida avesse dei dubbi su come comportarsi, può sempre pensare a cosa avrebbe fatto Pertini se il treno fosse stato in ritardo di due ore… Pertini, no, proprio no… Non avrebbe mai chiesto per la sua carica di Presidente della Camera dei Deputati o della Repubblica, e tanto meno per sé stesso come come cittadino-deputato, di fermare un treno, di fare qualcosa che andava oltre tanto le regole scritte quanto quelle della coscienza civile e civica.
Ecco, pensare a cosa avrebbero fatto uomini come Pertini o Berlinguer, che erano ligi ad un rigore morale veramente irrintracciabile oggi in larga parte della politica italiana (e non da oggi…), può essere ancora un metro con cui giudicare leggerezze pesantissime come quella del ministro Lollobrigida.
Un metro che era e rimane valido, perché la sua misurazione è la Costituzione della Repubblica.
MARCO SFERINI
24 novembre 2023
foto: elaborazione propria